MITOLOGIA DELL'ULIVO
L'uomo, da tempi
remoti, ha sempre dato enorme importanza alla ' pianta dell'ulivo,
trattandola con il rispetto che si conviene alle cose sacre ed il
rapporto fra loro è così antico e profondo che viene da immaginare una
leggenda mai trascritta fino ad ora: la leggenda del primo uomo sulla
terra, che apre gli occhi per la prima volta per ammirare le meraviglie
del Creato e lo sgomento della solitudine fu subito alleviato dall'ombra
di un vecchio albero, un ulivo millenario, che tendeva verso di lui le
sue braccia antiche e robuste, sussurrandogli un rassicurante benvenuto
con la brezza delle sue chiome argentate. Fra i due ci fu subito
un'intesa che generò quel patto di amicizia fra l'uomo e l'ulivo che non
avrebbe avuto mai fine e ciò avvenne prima di qualunque iniziativa
intrapresa dall'uomo nella sua lunga avventura sulla terra.
Su questa leggenda immaginaria, possiamo innestare il mitico racconto
sugli alberi del monte Tabor, alle cui pendici fu sepolto Adamo a cura
del figlio Set, fra le labbra del padre morto egli aveva collocato tre
semi perché germogliassero dando vita a tre alberi per ombreggiare la
tomba. I tre alberi sacri erano un cedro, un cipresso ed un ulivo. Con
il tempo quegli alberi popolarono il monte Tabor.
Un vecchio albero di ulivo scavato dal tempo, a parte il mito e la
leggenda, porta con sé la carica di mistero e di magia di un monumento
vivente che impone rispetto. In realtà, infatti, tutti i monumenti delle
grandi civiltà ci ispirano rispetto, ma essi purtroppo ci parlano di
cose già morte, mentre un ulivo millenario ci fa sentire il profumo di
una vita che continua ancora oggi. Questa sensazione è tangibile per chi
sosta nella valle dei Templi di Agrigento, oppure nei pressi del
Partenone, dove i tronchi dispersi di antiche colonne sono adagiati ai
piedi di vecchi ulivi che, sfidando il tempo, sembra siano rimasti vivi
e vegeti sul posto per proteggere i segni di un'antica bellezza che non
c'è più.
Se poi allarghiamo il raggio di osservazione, curiosamente ci accorgiamo
che ogni sito archeologico delle nostre civiltà occidentali è
"presidiato” da un albero di ulivo.
Quale e quanta importanza fosse attribuita fin dalla più remota antichità
all'ulivo è dimostrato non soltanto dal fatto che le sue foglie ed i
suoi frutti entrarono a far parte nelle più solenni cerimonie civili e
religiose — le corone di ulivo date in premio ai vincitori, l'olio usato
nei sacrifici ecc. — ma anche, e prima ancora, dalla predilezione dello
stesso Giove.
Narra la mitologia che, nella gara sorta tra Nettuno e Minerva per
ottenere la signoria dell'Attica, avendo Giove decretato che tale
signoria sarebbe stata conferita a chi gli avesse fatto il dono più
utile, la preferenza venne data a Minerva per avere offerto l'ulivo,
mentre Nettuno aveva offerto il cavallo.
Le origini di questa pianta sono remote ed immerse nel mito: gli storici
fanno risalire l'origine dell'ulivo sulle aride colline asiatiche che si
trovano fra il Pamir ed il Turiernenistan, dove era certamente coltivato
6.000 anni fa. È altrettanto certo che la propagazione di questa pianta
si è sviluppata verso l'occidente, nelle zone settentrionali della
Persia e della Mesopotamia, fino alla Siria. Gli Miti e gli Assiri
facevano uso corrente di olive e di olio, che, già nel 2000 a. C.,
rappresentavano beni di largo consumo in tutto il Medio Oriente.
Al di là della presenza antichissima di una Olea sylvestris possiamo, con
ipotesi accreditate, affermare che l'Olea sativa abbia avuto quindi il
centro di origine nella regione compresa tra l'acrocoro armeno ed il
Turkestan, da dove si sarebbe diffusa verso le aree mediterranee.
Accertato, ormai, che la coltivazione dell'ulivo risale ad almeno 6000
anni fa, ne fanno fede racconti tradizionali, testi religiosi e
rinvenimenti archeologici; probabilmente la pianta ebbe il suo habitat
originario in Siria ed i primi che pensarono a trasformare una pianta
selvatica in una specie domestica furono senza dubbio popoli che
parlavano una lingua semitica. Dalla Siria il percorso del cultivar
(termine tecnico che deriva da cultivated variety ed indica le varietà
di piante coltivate) fu relativamente semplice fino alle isole dell'Egeo
e alle assolate colline dell'Anatolia.
La coltivazione dell'ulivo nell'antica Palestina fu assai più estesa ed
importante di quella della vite; tanto da formare una delle principali
ricchezze di questa regione. L'ulivo prosperava e prospera generalmente
su un terreno calcareo, secco, pietroso, esposto al sole: ricordiamo
tutti che di fronte a Gerusalemme la tradizione pone il celebre Monte
degli Olivi — com'era in quasi tutte le campagne intorno alle città
della Galilea. Noi sappiamo che il bacino del Mediterraneo è stato
colonizzato (e civilizzato) a partire da Est e sappiamo che i grandi
navigatori Fenici, che venivano dalle sponde orientali, iniziarono oltre
mille anni avanti Cristo ad aprire fiorenti scambi commerciali fra le
sponde del Mediterraneo. Essi stabilirono le condizioni ideali per la
comunicazione e la conoscenza reciproca fra popoli molto diversi fra di
loro, ponendo le basi della cultura mediterranea, molto prima che Atene
e Roma prendessero la scena in questa magica culla di civiltà. Sarebbe
dunque provato che la pianta dell'ulivo fu introdotta nel Mediterraneo
proprio dai Fenici: certo è che l'attecchimento è stato eccellente, sia
sul terreno che sulla cultura dei popoli, conquistando un posto centrale
nell'agricoltura, nell'alimentazione e nel rituale religioso, dalla
Palestina alla penisola Iberica, radicandosi poi nella civiltà ellenica
e romana. Questo attecchimento, che potremmo definire culturale, oltre
che colturale, ha finito per identificare l'area mediterranea come
"luogo di nascita" della pianta dell'ulivo.
Il suo trapianto in Grecia trovò un'inaspettata fortuna e applicazione che
la resero, poi, indispensabile ai popoli antichi del Mediterraneo. Con
ogni probabilità piantarono uliveti in quel vasto territorio assolato e
fertile che fu la Magna Grecia, le terre costiere della Puglia, della
Calabria, della Sicilia, della Campania; nonostante il grande uso che si
fece dell'olio d'oliva nell'antichità classica, c'è ancora chi sostiene
che la prima regione italiana dove attecchirono le coltivazioni d'ulivo
fu la Liguria: qui le piante sarebbero state portate dai Crociati dopo
il Mille, avendole conosciute in Palestina. Probabilmente questo
episodio si riferisce soltanto a quella particolare specie di ulivo
(varietà Taggiasca), che cresce così favorevolmente sulle coste aspre,
battute dal vento, sia a ponente, sia a levante del golfo di Genova.
È, tuttavia, indubbiamente vero che nel nostro Paese, per circa un
millennio dal suo attecchimento, l'ulivo non conobbe una diffusione come
già aveva avuto in Anatolia occidentale e in Grecia (isole comprese), e
fu certamente limitato a piantagioni promiscue con altre piante.
L'ulivo è stato considerato sacro da molte popolazioni, non solo per il
suo apporto calorico, ma soprattutto per la sua stessa natura di pianta
resistente e longeva. Sappiamo che ad Atene fu sacro alla dea Athena (un
ulivo — da sempre — si trova accanto all'Eretteo sull'Acropoli; ulivi
crescono da millenni nel recinto sacro di Olimpia come sulla collina del
Philopappos, dedicata alle Muse); nelle antiche monete ateniesi, accanto
alla civetta c'è un rametto di ulivo. L'olio spremuto dalle olive non
era soltanto, nell'antichità, una risorsa alimentare, ma era usato anche
come cosmetico e come coadiuvante nei massaggi. Inoltre gli atleti, in
particolare coloro che si dedicavano alla lotta, usavano cospargere i
muscoli di purissimo olio, sia per il riscaldamento degli stessi, sia
per contrastare la presa degli avversari. I Cinesi non conoscevano
l'olio e si limitarono ad importarne poche piante d'ulivo (ciò accade
anche in tempi moderni); mentre i Romani fecero un grande uso d'olio (3),
essi, infatti, non usavano burro (la parola butirum è di origine greca,
è riportata da Ippocrito e da Plutarco, ma ha il significato di
"unguento").
3 - Si discute
ancora se ad importare la coltivazione dell'ulivo in Italia siano stati
i Fenici o se i Romani ne scoprirono i benefici usi dalla Magna Grecia
Nell'economia
etrusca la coltivazione dell'ulivo occupava un posto di rilievo sin dal
VII secolo a. C: la tecnica della spremitura delle olive era stata
importata dai Greci, ma l'olio era usato per l'illuminazione e la
cosmesi e scarsamente per l'alimentazione, poiché questo popolo
ricorreva soprattutto a grassi animali.
Il ricordo della colomba che, secondo la leggenda biblica, portò a Noè il
ramoscello di ulivo per significargli che il diluvio era cessato e che
la pace era tornata sulla terra, può dirsi rimasto nella memoria di
tutti i popoli, allo stesso modo che quel ramoscello verdeggiante fece
conoscere ai ricoverati nell'arca, che la natura, sconvolta dalla
collera divina, aveva ripreso il suo andamento normale e tornava a
sorridere. Presso le popolazioni delle coste mediterranee, divenne e
rimase simbolo dei supplicanti, salvaguardia degli ambasciatori, emblema
di pace, e questa tradizione, perpetuata di secolo in secolo attraverso
molti millenni, è giunta fino a noi.
Infatti, fin dai tempi più remoti il ramo di ulivo fu adoperato sui campi
di battaglia come simbolo di pace tra i belligeranti, ovvero come
invocazione di pietà da parte degli sconfitti.
DIFFUSIONE
Si sono trovati,
negli scavi di Samaria, in Palestina, degli elenchi scritti su tessuti o
incisi su frammenti di terracotta, riferiti all'ulivo, custoditi nel
palazzo di Achab (re d'Israele del IX secolo a. C.). Che l'ulivo fosse
per gli Ebrei un simbolo è chiarito anche dall'episodio della colomba
dell'arca di Noè. Nel "Deuteronomio" — l'ultimo dei cinque libri di Mosè
— l'olio è l'immagine della prosperità, della gioia e dell'amicizia; è
anche considerato simbolo di forza e di saggezza: ma — si avverte nel
libro dei "Proverbi" — tenere con sé una donna litigiosa è come avere le
mani unte di olio: niente può avere una presa salda. Nella Bibbia le
citazioni dell'ulivo sono circa una settantina, esso, infatti, con la
vite e il fico è uno degli alberi caratteristici della Palestina.
Esistono reperti che assicurano la coltivazione dell'ulivo a Creta
nell'età minoica (3000-1500 a. C). La ricchezza dei re di Creta era
certamente basata, almeno in parte, sull'esportazione dell'olio d'oliva
in Egitto e nei paesi del litorale orientale del Mediterraneo, da dove
si propagò lentamente verso Occidente. La coltivazione dell'ulivo
raggiunse Roma dalla Grecia, attraverso l'Italia meridionale, dopo il
580 a. C., quando anche la vite arrivò sui colli dell'alto Lazio e
dell'Etruria; nel periodo classico era conosciuta in tutte le regioni
della costa mediterranea.
in Egitto, intorno al 2000 a. C., in Palestina e Libia, l'olivocoltura fu
introdotta dal Fenici nel 900-800 a. C. per passare poi in Sicilia e
Spagna con le correnti commerciali fenicie e greche nel V secolo a. C.
Nella regione italica si sviluppò, tra il VI e il IV secolo a. C., nel
Lazio, poi in Sabina, nel Sannio, nel Piceno, nel Veneto e in Liguria;
in seguito le colture di olea si svilupperanno in Sardegna e nella
Gallia, per essere completamente fiorenti in tutto il bacino del
Mediterraneo al termine dell'era repubblicana romana.
Esistono comunque altre ipotesi da prendere in considerazione, come
quella, ad esempio, che il Sud d'Italia, ed in particolare tutto il
territorio della costa Enotria, fu il punto di approdo dei coloni greci,
intorno al 720 a. C., quando appunto nacquero le colonie greche ioniche
di Sibari, Crotone, Metaponto ecc; da qui l'ulivo avrebbe iniziato la
sua diffusione anche negli altri paesi costieri del Mediterraneo.
ARCHEOLOGIA
DELLA DIFFUSIONE DELL'OLIO
A parte la leggenda
mitologica, i botanici sono di parere che la vera origine dell'ulivo
debba ricercarsi in Oriente, e precisamente a sud dell'Asia, da dove i
semi dell'ulivo selvatico, ovvero olivastro che dir si voglia, sarebbero
passati in Europa e nell'Africa del nord, trasportati dagli uccelli al
pari dei semi del fico e della vite; mentre la trasformazione
dell'olivastro, mediante apposita coltivazione, sembra essere stata
opera delle antichissime popolazioni della Siria.
Non è possibile precisare quando per la prima volta l'ulivo, sia pure allo
stato selvatico, abbia fatto la sua prima apparizione in Europa; ma è
fuori di dubbio che ciò debba essere avvenuto in epoche assai remote.
A differenza degli antichi Babilonesi ed Assiri, i quali non
conobbero affatto l'olio e si servirono unicamente dell'olio di sesamo,
esso fu ben conosciuto dai popoli semitici, dagli Armeni e dagli
Egiziani, e nei libri dell'Antico Testamento, assai spesso si trova
fatta menzione dell'ulivo e più ancora dell'olio, sia perché normalmente
usato come alimento, sia perché adoperato nei sacrifici, tra cui la
famosa offerta di panatica, consistente in fior di farina stemperata con
olio.
Secondo l'opinione di G. Schweinfurth, l'ulivo sarebbe stato importato
dalla Siria in Egitto al tempo della XIX dinastia, tuttavia esso trovasi
già raffigurato sui monumenti della XVIII che celebrano le vittorie dei
Faraoni e, più tardi, dalla XXII alla XXV, si trovano mummie anch'esse
ornate di corone di ulivo; e se gli egiziani si servirono dell'olio di
ricino per la preparazione degli unguenti e per alimentare le lampade,
utilizzarono altresì l'olio di ulivo per profumarsi, per la celebrazione
dei sacrifici e come alimento.
Le vestigia di un frantoio in pietra di lava, rinvenute tra i monumenti
preistorici esumati a Santorini, la presenza di alcuni noccioli di
olive, trovati nelle rovine del palazzo di Tirino, nelle case e nelle
tombe di Micene, le decorazioni di ramoscelli di ulivo, raffigurati sui
vasi d'oro di Vasio e su un frammento di vaso di argento di
Micene, provano che, assai prima dell'epoca omerica, l'ulivo passò
dall'Asia Minore nelle isole dell'Arcipelago ed in Grecia e che ivi se
ne conobbe non soltanto la coltivazione, ma anche l'arte di estrarre
l'olio.
Spesso nei poemi omerici si parla dell'ulivo verdeggiante, dalle foglie
allungate, benefico e sacro, il cui legno serve a fare il manico delle
asce e delle clave, come pure dell'olio odoroso e scorrevole con il
quale gli dei e gli eroi si ungono le membra per renderle profumate e
più agili; che se i popoli orientali importavano presso i Greci i loro
oli profumati, di cui custodivano gelosamente i segreti di
fabbricazione, ciò non implica che i Greci non conoscessero l'arte di
estrarre l'olio dagli ulivi che coltivavano.
Nelle epoche successive, troviamo l'olio diffuso ovunque nella Jonia
e nelle isole e le antiche tradizioni poetiche e religiose che lo
ricordano sono prova che esso era stato introdotto in quelle regioni da
molto tempo. Così in Efeso era in grande venerazione l'ulivo sacro,
presso il quale Latona aveva partorito Apollo e Diana; la stessa
leggenda esisteva a Delo, dove sorgeva anche un ulivo sacro, e a Lindo,
nell'isola di Rodi, presso il tempio di Minerva si trovava un antico e
celebre bosco di ulivi. Nella Grecia continentale, la prima regione dove
apparve l'ulivo fu l'Attica, il cui suolo si presentò assai propizio
alla sua coltivazione, favorita e disciplinata anche da apposite leggi
fin dai tempi di Solone, il quale, allo scopo di intensificarne la
coltivazione, proibì ai proprietari, sotto pena di una ammenda, di
tagliarne più di due piante all'anno. L'ulivo fu, come è noto,
particolarmente sacro a Minerva e sull'Acropoli di Atene si conservava
con religiosa cura l'albero che la dea aveva fatto germogliare
miracolosamente al momento della sua disputa con Nettuno. Durante tutta
l'antichità, l'ulivo rappresentò la più importante produzione e dalla
Grecia, probabilmente, passò in Sardegna, nella Sicilia e nell'Italia
meridionale, e successivamente venne introdotto a Roma dai Greci della
Campania. I principali centri di cultura dell'ulivo in Italia furono
quelli della Magna Grecia (nell'Italia centrale in primo luogo il
territorio di Venafro, Cassino, la Sabina, il Piceno, nell'Italia del
nord le coste della Liguria e le rive orientali dell'Adriatico e
nell'Istria).
Le prime piantagioni di ulivi nella Gallia apparvero nei pressi di
Marsiglia; nella Spagna, lungo tutta la regione mediterranea;
nell'Africa furono i Fenici che ne diffusero la coltivazione lungo il
litorale, tanto che all'epoca dell'Impero l' "olea europaea"
aveva occupato tutte le regioni adatte alla sua coltivazione. La
religione cristiana, riferendosi all'ulivo e al suo olio, citati nei
Vangeli, estese il dono dell'olio benedetto a tutta la comunità dei
credenti e così questo è presente, come simbolo, in tutte le cerimonie
religiose, dal battesimo alla consacrazione dei neosacerdoti, oleum
eatechumenorum, alla cresima, sacro crisma, ed in fine all'estrema
unzione per i morenti, oleum
infirmorum.
L'ulivo è una pianta longeva: sembra che esistano esemplari plurimillenari
come l'ulivo di Platone ad Atene, quello di Ulisse nell'isola di Djerba
in Tunisia, quello dell'orto di Getsemani, e l'«albero della
spada» presso Tivoli. A Fibbianello vicino a Magliano, in provincia di
Grosseto, è ancora vegeto un ulivo detto «della strega», su una collina
riparata, soleggiata ed asciutta, che si favoleggia abbia duemila anni.
È chiamato l'Ulivone per le sue proporzioni gigantesche: alto
ventidue metri, dà ogni anno sei quintali di olive. La raccolta si fa in
tre tempi: prima dai rami fino ai sette metri di altezza, poi da quelli
fino a quattordici metri e, in fine, si raccolgono le olive dei rami più
alti. Assistervi è come essere presenti alla celebrazione di un rito.
L'ULIVO IN
GRECIA
La prima apparizione
dell'ulivo in Grecia si ricollega al mito della disputa sorta tra
Nettuno e Minerva, la quale lo fece miracolosamente germogliare, come
abbiamo già detto, sull'Acropoli di Atene. La terra di Colono, di un
bianco lucente, perché composta di ghiaia, coperta di un denso strato di
sabbia e di creta, era in particolar modo favorevole agli splendidi
ulivi che la coprivano fin dai primi tempi e di cui fu ben presto
riconosciuta ed apprezzata la grande importanza, come è facile rilevare
dalle pitture su antichi vasi. Sono essi forse i più antichi documenti,
relativi alla storia dell'ulivo e dell'olio; e le loro figure, dipinte
in nero, per quanto semplici e primitive, ci fanno assistere alle varie
operazioni necessarie per la raccolta delle olive, la fabbricazione
dell'olio e la vendita di esso. Essendo l'Attica ottimamente propizia,
per la sua posizione geografica, alla coltivazione degli ulivi, ciò
venne ad aggiungere un nuovo elemento di ricchezza e di prosperità a
quella regione privilegiata, dove la vigna e gli uliveti si disputavano
il suolo e dove furono emanate, fin da quei tempi antichissimi, apposite
leggi per regolare e stimolare la produzione dell'olio.
L'olio d'oliva fu ben presto in Grecia uno dei prodotti principali
dell'agricoltura ed uno dei più importanti generi di commercio; anzi fu
la sola merce che il legislatore Solone permise di scambiare con gli
stranieri e ciò, senza dubbio, perché il paese ne produceva più di
quanto ne abbisognava al suo consumo. A tale proposito sappiamo che il
grande filosofo Platone, approfittando di questo permesso, allorché
intraprese un viaggio in Egitto, non sdegnò di portare con sé un carico
di olio, nella certezza di poterlo vendere a buone condizioni; come pure
è noto che, più tardi, gli agenti dell'imperatore Adriano, convinti che,
in ragione della sua abbondanza, l'olio di oliva fosse, come il sale,
una delle sostanze che avrebbero potuto rendere maggiormente al fisco,
non tardarono a tassano in Atene. Al pari dell'Attica, il resto della
Grecia fu dedito alla coltivazione dell'ulivo.
L'OLIO NELLA
PENISOLA ITALICA E SULLA VIA DI ROMA
Secondo i più
antichi autori, Ariste°, figlio di Cirene e di Apollo, dopo avere
insegnato ai Greci l'arte di estrarre l'olio dall'oliva, sarebbe passato
in Sicilia dove avrebbe insegnato agli abitanti di quell'isola il modo
di trarre profitto dall'albero provvidenziale; da qui ben presto si
diffuse nell'Italia continentale. Tenuto conto delle numerose colonie
greche, le quali in breve popolarono le rive della Magna Grecia, è
verosimile ammettere che vi importassero subito la coltivazione
dell'albero così intimamente legato alla loro storia, alla loro
religione e così facile ad acclimatarsi nella loro nuova patria, anche
perché i suoi prodotti erano per i Greci di prima necessità, in quanto
rappresentavano un elemento ed un alimento indispensabile.
L'ulivo, in tempi romani, attecchì, come abbiamo detto, in Sabina, nel
Sannio, nel Piceno, nel Veneto, lungo il lago di Garda (olio del Benaco,
molto pregiato presso i Romani contemporanei del poeta Catullo) e in
Liguria: in quest'ultima regione giunse verso il V secolo a.C., un'epoca
molto precoce. In epoca imperiale, le colture dell'ulivo giunsero anche
in Sardegna e, ancora più tardi, furono conosciute oltre le Alpi, lungo
le coste assolate della Provenza; una mano alla diffusione
dell'olivicoltura la diedero indubbiamente anche gli Etruschi, che erano
abilissimi contadini. Quando le legioni romane giunsero nelle valli
della Puglia, del Chiana, dell'alto Tevere, verso Chiusi, Cortona e
Perugia, alla fine del IV secolo a.C., uscendo dalle foreste del Lucus
Feroniae e dei monti Cimini, scoprirono davanti a loro, a perdita
d'occhio i "campi opulenti" dell'Etruria: vigneti, campi di grano e
uliveti. Alla fine del periodo repubblicano romano — all'incirca al
tempo della nascita di Cristo — l'ulivo aveva attecchito in tutti i
paesi del Mediterraneo; superato il periodo misto di dipendenza
alimentare dalla caccia, dalla raccolta spontanea dei frutti e da una
primitiva agricoltura, i Romani si dedicarono dal VI secolo a.C. a
un'orticoltura intensiva e alla coltivazione dell'ulivo e della vite.
Queste due "nuove" colture si debbono in ugual misura ai contatti che
gli abitanti del Lazio ebbero con i Greci della Campania e con gli
Etruschi. Nell'anno 505 a. C. a Roma, sotto il consolato di Appio
Claudio e di Lucio Giunio, dodici libbre di olio di oliva non costavano
che un asse. Nei monumenti e nelle monete dell'antichità romana si
trovano scolpite o incise le foglie di ulivo, a volte associate al
lauro, a volte alla quercia, a volte all'acanto, come pure
nelle antiche pitture murali il fogliame di ulivo costituisce l'elemento
principale dei vari motivi di decorazione.
Per i Romani l'olio di oliva era notoriamente un prodotto pregiato per
l'alimentazione, per la cosmesi, per la medicina e per l'illuminazione.
Si è stimato che il consumo medio di olio a Roma nell'età imperiale
superava i 22 Kg. pro capite per anno; se paragoniamo tale stima con la
media di circa 30 Kg. pro capite/anno, attualmente rilevata in Italia
per il consumo totale di grassi, sia animali che vegetali, possiamo
avere ulteriore conferma dell'importanza dell'olivicoltura mediterranea
al tempo dei Romani.
Allorché l'imperatore Settimio Severo (193-211 d. C.) accordò a Leptis
Magna il diritto italico e l'esenzione dall'imposta fondiaria, con forti
presidi militari garantì i confini della Tripolitania dalle incursioni e
devastazioni dei popoli nomadi e gli abitanti di Leptis, per dare
una prova della loro riconoscenza all'imperatore, si imposero di inviare
ogni anno a Roma una certa quantità di olio, che in parte veniva
distribuita al popolo, in parte conservata come riserva per far fronte
ai bisogni nelle annate di cattivo raccolto. Tale riserva raggiunse in
breve un quantitativo così considerevole che, alla morte di Severo,
avvenuta nel 211 d. C., dopo diciotto anni di regno, l'olio
immagazzinato a Roma poteva bastare per cinque anni non solo ai bisogni
della città, ma a quelli di tutta l'Italia, dove la coltura dell'ulivo
era stata abbandonata. Gli imperatori in Roma, al pari dei municipi
nelle province, facevano assai spesso le loro distribuzioni gratuite di
olio al pubblico non altrimenti che le distribuzioni di grano, pane e di
altri commestibili, di cui la liberalità imperiale gratificava di tanto
in tanto la plebe nei famosi "congiari" per assicurarsene il
favore.
COLTURA DEGLI
ULIVI
In questo periodo
storico un'attenta e minuziosa legislazione vigila sul buon andamento
dell'economia agraria. Il proprietario che dà in affitto il fondo ad un
colono deve anche pensare alla fornitura di «boves domiti» per
arare, di «pecus stercolandi causa parata» per la concimazione,
di «vasa utilia culturae» come aratri, falci per il lavoro
quotidiano.
Per quanto riguarda l'olio il proprietario deve approntare il «trapetum
instructum funibus» e le «regulae», cioè i singoli strumenti
per la pressione e la raccolta del prodotto, l' «aenum» , ossia
il recipiente per il lavaggio delle olive, ed infine i «vaso olearia»
per la conservazione del prodotto.
Presso i Romani l'olio di oliva era conservato in colossali anfore di
terracotta, rese impermeabili da una speciale verniciatura.
L'agricoltura repubblicana a Roma si trasformò presto dalla piccola
proprietà del fondo familiare all'azienda rustica, che fu definita al
meglio (da Catone) nell'estensione di mo iugeri, cioè di circa 25
ettari; il grande lavoro degli schiavi consentiva in primo luogo la cura
del vigneto e degli appezzamenti a frumento, in secondo luogo quella
dell'uliveto. Esistevano, tuttavia, anche aziende dedicate solamente a
una sola coltura: era questo il caso degli uliveti della Sabina,
dell'Umbria, della Campania, dell'Etruria meridionale: ci sono pervenute
notizie di uliveti di 6o ettari che prevedevano la presenza di uno
schiavo — fattore con la sua famiglia e con una dozzina di L'operai". Il
lavoro era particolarmente intenso quando ci si disponeva alla
bacchiatura delle olive, la cui raccolta veniva eseguita esclusivamente
a mano; in gran fretta, poi, si portava il raccolto al frantoio —
generalmente questo era attrezzato nei dintorni della casa colonica o al
centro dell'uliveto. La fattoria classica di epoca repubblicana,
infatti, prevedeva una casa per colui che conduceva il fondo (nei casi
del fattore di un uliveto, Plauto usa l'espressione olearius),
magazzini, stalle e un frantoio.
Gli antichi coltivatori giudaici affermavano che bisognava attendere quasi
dieci anni per avere un buon raccolto abbondante, ma addirittura
trent'anni per ricavarne il massimo. Gli Ebrei poterono gustare i frutti
e l'olio soltanto dopo essere divenuti un popolo sedentario e con gli
uliveti ebbero la ricchezza, perché gli alberi d'ulivo sono longevi,
possono raggiungere un'altezza fino a 12 metri, fornire tutti gli anni
120 chilogrammi di olive, il che, a quei tempi, significava almeno 25
litri d'olio. La raccolta dei frutti veniva effettuata prima della loro
piena maturità, in settembre — ottobre, a mezzo di lunghe pertiche con
cui si percuotevano i rami; le olive che rimanevano attaccate all'albero
erano lasciate ai poveri. La raccolta delle olive in Palestina veniva
generalmente effettuata prima della completa maturità, scotendo i rami
degli alberi, ovvero battendoli con lunghe pertiche; e per l'estrazione
dell'olio, si faceva uso di grossi mortai di pietra, nei quali le olive
erano schiacciate grossolanamente, in modo da spremere soltanto il primo
olio, che rappresentava il più puro e più stimato e come tale era
l'unico prescelto per tutte le cerimonie del culto. La seconda
estrazione veniva fatta sottoponendo al frantoio le olive, già in parte
spremute, ed ottenendo in tal modo una qualità di olio meno puro, meno
dolce e meno stimato, e del quale si faceva normalmente uso, sia per
l'alimentazione, sia per altri bisogni comuni; rimangono tuttora in
Palestina molti frantoi scavati nella pietra, anche nei luoghi dove gli
ulivi non esistono più. Questi frantoi, che dimostrano la vasta coltura
dell'ulivo nell'antichità, erano generalmente formati di due pietre, di
cui una concava per ricevere le olive, l'altra che vi girava sopra per
schiacciarle e spremerne l'olio.
Affinché le piante potessero crescere in piena libertà, senza ostacolarsi
e danneggiarsi reciprocamente, in Grecia, come accennato, Solone
prescrisse che gli ulivi fossero piantati a nove piedi di distanza gli
uni dagli altri; come pure ordinò che nessuno potesse tagliarne sul
proprio fondo più di due piante all'anno, a meno che ciò non fosse per
qualche lavoro autorizzato dalla religione; chiunque avesse violato
questa legge era tenuto a pagare, per ogni albero tagliato, cento dracme
all'accusatore ed altre cento al fisco, dalla quale somma veniva
prelevata una decima parte per il tesoro di Minerva. Il racconto della
fecondità dell'ulivo nel portare i suoi frutti e nell'essere circondato
da numerosi ramponi, che germogliano vigorosi attorno al tronco
principale, non mancò di suscitare felici immagini; ed è così che i
figli numerosi, attorno alla tavola del padre di famiglia, sono
poeticamente paragonati ai germogli dell'ulivo che vegetano folti e
rigogliosi attorno al tronco principale, i cui rami, perennemente
ricoperti di verdi foglie, simboleggiano la continuità della vita e
rendono l'idea del vigore sano e fecondo, associato ad un concetto di
serenità e di pace.
PRODUZIONE E
DIFFERENTI TIPOLOGIE DI OLIO
La parola "olio"
nelle lingue occidentali può essere fatta risalire, attraverso la parola
latina oleum e quella greca elaion, fino alla più antica
parola semitica ulu; tutti questi termini stanno ad indicare
l'olio di oliva.
Secondo i più illustri naturalisti romani, esistevano ben dieci varietà
diverse di ulivi e l'olio prodotto veniva classificato in cinque
categorie. Il più pregiato era l'oleum ex albis ulivis,
ottenuto da olive verde chiaro, cui seguivano il viride, ottenuto
da olive che stanno annerendosi, il maturum, frutto della
spremitura di olive mature, il cadueum, ottenuto da olive
raccolte da terra e il eibarium prodotto con olive bacate e
destinate agli schiavi.
Con la parola "oleum" gli antichi Sabini indicarono inizialmente
soltanto l'olio d'oliva, cioè l'olio per eccellenza, anche perché fu la
prima sostanza oleosa da essi conosciuta ed usata. Indipendentemente
dalle località più rinomate per la finezza dei loro oli, l'Italia
produceva delle qualità molto diverse, a seconda dei diversi sistemi
adottati per l'estrazione e lo stato di maturità delle olive portate al
frantoio:
1) l' "oleum
acerbum", conosciuto anche sotto il nome di "oleum aestivum","oleum
spanum" "oleum crudum", corrispondente all' "omphacion" o "omotribes"
dei Greci, che si estraeva dalle olive acerbe, spremute senza
riscaldarle.
2) l' "oleum strictivum", destinato all'uso esterno,
corrispondente all'olio verde dei Greci, che si otteneva dalle olive
semiacerbe.
3) l' "oleum cativum", denominato anche "oleum romanicum",
ovvero "oleum comune", estratto dalle olive nere e corrispondente all'
"oleum maturum" dei Greci.
4) l' "oleum cibarium",che era la qualità più scadente e si
otteneva dalle olive nere, ammaccate ed anche guaste, spremute dopo
qualche tempo dal raccolto. Era questo l'olio che veniva distribuito
agli schiavi e naturalmente usato anche dall'infima plebe.
I commercianti di
olio ebbero senza dubbio a Roma una notevole importanza, sia perché qui
affluivano i prodotti dell'Italia ed anche dell'estero, sia per l'enorme
consumo, non soltanto per gli usi domestici, ma soprattutto nei bagni e
nelle palestre; l'emporio commerciale dove si accentravano i prodotti
oleari fu, a quanto sembra, il Velabro, ai piedi del monte Aventino.
I prezzi di vendita erano regolati da apposite norme, di cui ci fornisce
una sicura prova il celebre Calmiere di Diocleziano, mentre in
precedenza il commercio era stato libero; se dobbiamo tener conto di una
testimonianza di Plauto, i mercanti di olio all'ingrosso, per imporre
alti prezzi di vendita e per impedire la reciproca concorrenza, ai tempi
della Repubblica, si erano stretti in lega.
Organizzarono razionalmente la distribuzione ed il commercio dell'olio e
costituirono fin d'allora 1' «arca olearia», una sorta di borsa
dell'olio di oliva, dove collegi di importatori, negotiatores olearii,
trattavano prezzo e quantità. Nei grandi depositi l'olio era conservato
entro colossali anfore di terracotta, rese impermeabili da una accurata
verniciatura, come si rileva dai numerosi esemplari riportati alla luce
dalle esplorazioni archeologiche.
Negli scavi di Pompei è stato ritrovato un intero magazzino, in cui ci
sono otto enormi anfore capaci di contenere dieci ettolitri ciascuno e
nei Musei Vaticani si può ammirare l'anfora romana di Celi che illustra
una compravendita di olio di oliva. Per quanto concerneva poi la vendita
al minuto, essa era fatta in appositi locali, tenuti con molta pulizia o
anche con lusso per richiamare l'attenzione del pubblico; una di queste
botteghe, scoperta a Pompei, in via dell'Odeon, ci mostra come era
disposto l'ambiente, come era confortevole il banco di vendita,
rivestito all'esterno di porfido e con la sua tavola di marmo per
raccogliere le gocce di olio, affinché non fosse insudiciato il
pavimento. In quella bottega, oltre all'olio, si vendevano le olive
commestibili, contenute entro otto vasi di argilla. Ogni casa benestante
aveva inoltre le sue provviste particolari: in una dispensa presso la
cucina, sono state scoperte delle anfore di olio disposte sopra un
banco; e, tra gli utensili di cucina di quell'epoca, sono state trovate
l' "apulare" e la "trua", due specie di cucchiaie piatte e forate per
friggere le uova e servire le olive, intere, nere o verdi che fossero.
PREPARAZIONE
Per ottenere olio di
prima qualità (quello che noi oggi chiamiamo "extra — vergine") in
Palestina, nei tempi antichi, si evitava la pressatura: le olive erano
semplicemente depositate in una cesta da cui l'olio cadeva goccia a
goccia in un recipiente, oppure la quantità raccolta era sistemata in un
vano roccioso a forma di cupola da cui l'olio colava attraverso un foro
praticato in basso (in questi due casi era lo stesso peso delle olive
che le "spremeva"). Un altro sistema ancora era quello che prevedeva
vari annaffiamenti con acqua calda su cui l'olio andava raccogliendosi
in superficie; quest'olio, considerato di prima qualità, alimentava le
lampade dei santuari, come è descritto nei libri biblici dell'"Esodo" e
del "Levitico", serviva alla preparazione delle offerte e riempiva le
bottigliette usate nelle unzioni come pure le giare nelle cantine dei
potenti (gli orci pieni d'olio erano la vera ricchezza dei re).
Nonostante l'assoluta mancanza di tutte le nozioni scientifiche, messe
oggi a profitto dall'industria olearia, e pur disponendo di mezzi
meccanici assai semplici ed imperfetti, in confronto di quelli
attualmente in uso, la lavorazione dell'olio raggiunse nell'antichità un
notevole sviluppo, sia per quanto concerne la utilizzazione della
sostanza fornita dalle olive, sia per il quantitativo della produzione,
sia per quanto riguarda la preparazione delle diverse qualità di olio,
dalle più fini e ricercate alle più dozzinali e scadenti. Queste diverse
qualità di olio non dipendevano soltanto dalle diverse specie di olive
adoperate, ma anche dal loro differente grado di maturità; e mentre
l'olio verde "Oleum viride", che era il meno abbondante e più stimato,
si estraeva dalle olive non del tutto mature, quello ordinario invece
era dato dalle olive a maturità avanzata ed anche cadute spontaneamente
dall'albero. Inoltre, gli antichi facevano pressare ripetutamente — fino
a tre volte — la stessa massa di sansa "sampsa", e i diversi prodotti
che se ne estraevano, e che venivano raccolti e conservati in recipienti
diversi, rappresentavano tre diverse qualità tanto per finezza e gusto,
quanto per prezzo.
VARI SISTEMI
DI MOLITURA
Come si rileva dalle
notizie forniteci dagli scrittori, confermate ed illustrate dagli
antichi monumenti — sculture, pitture, mosaici — i Greci ed i Romani
incominciarono assai per tempo a fare uso della "mola olearia" — molino
ad olio — che, mentre in principio fu assai semplice e rudimentale, andò
in seguito perfezionandosi grazie ai progressi della meccanica; il
"trapetum" — frantoio o tappeto, come è detto in alcuni paesi — che,
secondo la leggenda, fu inventato da Ariste°, non solo fu descritto
minutamente in tutte le sue parti da Catone, ma è altresì tornato alla
luce nel suo stato primitivo e con tutto il suo macchinario al completo
nei diversi scavi archeologici di Stabia, di Pompei e dell'Africa
romana. Da alcune antiche iscrizioni risulta che gli operai, addetti ai
diversi lavori nei frantoi, erano organizzati in collegi o corporazioni,
la qual cosa dimostra che gli oleifici dovevano essere numerosi e di
tale importanza da richiedere il lavoro di numerose braccia, il che del
resto si spiega facilmente se si tiene conto del largo uso fatto a quei
tempi dell'olio, soprattutto nei paesi meridionali, dove rapidamente si
diffuse la coltivazione dell'ulivo.
Le pitture sui vasi di terracotta dimostrano come le olive venissero prima
saggiate per controllarne lo stato di maturazione e la qualità: questo
avveniva spremendo il succo di alcuni frutti attraverso un imbuto in una
piccola bottiglia e controllando il sapore e l'odore dell'olio così
estratto. L'estrazione dell'olio era meglio effettuata dopo la raccolta;
ciononostante le olive venivano talvolta immagazzinate sul pavimento del
frantoio: come prima operazione, la polpa doveva essere separata dal
nocciolo; dato che la buccia dell'oliva è abbastanza tenace, la
separazione era effettuata mediante lo schiacciamento del frutto, che
veniva in seguito pressato. L'operazione di schiacciamento era eseguita
in maniera molto semplice, facendo rotolare una pietra cilindrica avanti
e indietro sopra le olive poste in un contenitore; il mulino a rulli,
conosciuto dai Romani come mola olearia, consisteva in due pietre
cilindriche fissate allo stesso asse orizzontale che era imperniato
verticalmente tra esse. Quando il perno centrale veniva fatto ruotare, i
rulli giravano rapidamente a una distanza regolabile sopra il recipiente
piatto, che conteneva le olive: la polpa era in tal modo separata senza
schiacciare i noccioli.
Un modello perfezionato — secondo quanto ci tramanda lo storico Plinio —
era stato inventato ad Atene ed era chiamato trapetum: tra le mole e il
bacino intercorreva la distanza fissa di un pollice romano (cm 1,8).
Nella regione greca di Olinto (in uno scavo i cui reperti risalgono al V
secolo a. C.) furono trovate cinque mole, la cui forma e sistemazione
chiarirono molti dei dubbi che si erano presentati alla mente degli
archeologi; gli antichi, comunque, conobbero anche un sistema di
pressatura che potremmo definire "a trave", di probabile origine egea.
Nelle isole di questo mare, infatti, la coltivazione delle olive risale
agli inizi dell'Età
del Bronzo, ma le testimonianze riguardanti l'attrezzatura per
schiacciarle appartengono a epoche più recenti.
I resti più antichi conosciuti a tutt'oggi di una pressa da olive e di un
bacino per schiacciarle furono trovati a Creta e si riferiscono al
periodo Minoico Medio (1800 — 1500 circa a. C.); una pressa "a trave"
per olive risalente circa al 1500 — 1400 a. C. fu trovata anche in una
delle isole Cicladi. La costruzione di presse di questo tipo è
chiaramente indicata su molti vasi dipinti, soprattutto quelli a figure
nere eseguiti dai ceramisti ateniesi nel VI secolo a. C; la pressa "a
trave" applica il principio della leva: una estremità è appoggiata al
vano di un muro, o fra due pilastri di pietra; l'altra viene tirata giù
e spesso caricata con pesanti pietre. Il frutto, sistemato in sacchi o
fra tavole di legno, viene schiacciato sotto la parte centrale della
trave; il liquido estratto è lasciato riposare in tini, affinché l'acqua
possa essere eliminata attraverso cannelle sistemate in fondo ai tini
stessi. La buona separazione dell'olio dal liquido acquoso era
essenziale, in quanto quest'ultimo conteneva una sostanza amara (4)
che avrebbe potuto rovinare il buon sapore dell'olio; successivamente,
si poteva effettuare una seconda e terza pressatura, ognuna di qualità
inferiore alla precedente, dopo aver fatto inzuppare la polpa di acqua
calda. Generalmente in tal modo si avevano tre qualità di olio: la
prima, per cucinare, le altre per uso di cosmesi e preparati da
toeletta.
4 - Oleuropeina
VENDITA E
COMMERCIO DELL'OLIO
I ricchi romani
ricavavano il loro olio dalle proprie terre, raccogliendone in casa
grandi provviste, sia per sopperire al notevole consumo quotidiano, sia
per averne in caso di cattivo raccolto; dalle Commedie di Plauto
rileviamo che il traffico dell'olio non era esercitato soltanto dai veri
commercianti, ma anche da coloro i quali, trovandosi indebitati e a
corto di risorse, comperavano la merce a credito e la rivendevano in
contanti per realizzare con tale espediente le somme di cui avevano
bisogno.
Nelle circostanze, assai frequenti, delle distribuzioni gratuite, fatte
dagli Imperatori romani al popolo, l'olio raggiungeva prezzi addirittura
favolosi, come si verificò nel 773 a Roma, quando vi fu tale carenza che
per una misura di olio si giunse a pagare ben seimila denari, mentre nei
tempi normali i prezzi erano generalmente molto bassi.
Diocleziano, nell'Editto che calmierava i prezzi alimentari (alle soglie
del IV secolo) fissava i prezzi precisi per le varie denominazioni di
olio, che variavano dai 12 denari fino ai 40 denari al sestario (5-6-7-8).
5 - Tenendo presente che un
sestario, cioè 1/6 di congio, era pari a poco più di mezzo litro e che
un denaro romano di quell'epoca aveva un valore paragonabile ad alcuni
centesimi di curo, possiamo stimare che il prezzo di un litro d'olio
romano, convertito nella nostra moneta corrente, doveva essere
nell'ordine di 2 euro circa.
6 - Questa stima non ci sorprende più di tanto, anzi ci conferma il
concetto, già espresso in precedenza, secondo il quale l'olio d'oliva ha
conservato il suo valore, e quindi il suo prezzò, praticamente immutato
nei secoli. La cosa sorprendente è l'attualità della legge romana in
difesa del consumatore. Infatti, se oggi fosse in vigore l'Editto di
Diocleziano, varato nel 301 d. C. (Edictum de pretiis venalium rerum),
fatti salvi gli arrotondamenti e gli aggiornamenti del caso, avremmo una
"disciplina commerciale" sui prezzi di consumo dell'olio d'oliva, con un
minimo di 2 euro circa ed un massimo di io euro/litro. Il che sarebbe
molto prossimo ad un'equa realtà, eliminando l'attuale arbitrio e
confusione sui nomi e sui prezzi.
7 - A proposito del prezzo, se facciamo un ulteriore passo indietro nel
tempo, di quasi 2000 anni prima di Diocleziano, possiamo affermare che,
dai reperti archeologici dell'antica città di Mari in Mesopotamia (fra
l'attuale Irak e la Siria) alcuni testi dimostrano che l'olio d'oliva
veniva scambiato ad un prezzo che era cinque volte superiore a quello
del vino e due volte e mezzo superiore a quello dell'olio di semi di
quell'epoca, che era di sesamo o di lino. Per noi estimatori del vero
olio d'oliva questo antichissimo rapporto dei valori dovrebbe essere
ancora valido (come grosso modo lo è ancora nella piccola economia
rurale), ma dobbiamo ammettere che il mercato moderno, per le produzioni
di tipo industriale, stabilisce un rapporto molto diverso, a tutto
svantaggio dell'olio d'oliva.
8 - Venendo ai giorni nostri (XXI secolo d. C.) ed osservando la grande
varietà di prodotti, che attualmente sono messi sul mercato con le più
svariate denominazioni, si potrebbe concludere che il moderno
consumatore di olio d'oliva potrebbe sentirsi meno protetto di quanto
non lo fosse un antico romano. In realtà, le norme sulla classificazione
ci sono, ma è probabile che il consumatore medio non le abbia ancora
recepite e non sia in grado di servirsene per difendersi dalle frodi.
9 - Corrispondente a 2 euro circa al litro.
Dal calmiere di
Diocleziano, infatti, rileviamo che per l'olio di prima qualità,
evidentemente l' "oleum acerbum", quello che si estraeva delle olive
verdi e perciò in minore quantità, era fissato il prezzo di 40 denari al
sestario (9),
per quello di seconda qualità, ottenuto dalle olive semiacerbe, il
prezzo massimo era di 24 denari al sestario,, per il terzo, prodotto
dalle olive completamente mature, 12 denari al sestario.
Come ben si vede la differenza tra le diverse qualità era assai rilevante
e tale differenza, come abbiamo accennato, si spiega facilmente, non
tanto per il processo di lavorazione, quanto per la qualità delle olive
impiegate e per il rendimento che se ne otteneva, oltre che per la
finezza ed il gusto dell'olio ricavato, essendo il primo, a differenza
del terzo, di sapore assai più delicato.
Il Calmiere di Diocleziano non contempla, a quanto pare, il prezzo della
quarta qualità, quella cioè ottenuta dalle olive guaste e fermentate,
dalle quali si estraeva, come abbiamo detto, l'olio consumato dagli
schiavi, che evidentemente era venduto ad un prezzo molto basso e,
perciò, forse non era commercialmente neppure considerato. Comunque sia,
per la verità storica, dobbiamo ricordare che tale Calmiere, sebbene
giudicato perfetto e completo in ogni sua parte, in quanto contemplava e
disciplinava non soltanto i prezzi di tutti i prodotti, ma anche di
qualsiasi prestazione di opera, sia manuale che intellettuale, nella sua
applicazione pratica si rivelò insufficiente e irrealizzabile; e perciò
finì ben presto per essere abolito, anche perché la vastità dell'Impero
e le diverse condizioni locali non potevano essere governate da una
norma generale.
Non per questo però il commercio dell'olio andò esente da vincoli e da
restrizioni, perché malgrado il primo esperimento generale, tentato da
Diocleziano, di disciplinare i prezzi, riuscisse insufficiente, per non
dire inutile, pure molti dopo di lui vollero ripeterne la prova; gli
innumerevoli calmieri, emanati dal Governo pontificio, per quanto
tutelati da molte e severe sanzioni, finirono tutti per naufragare
contro gli insuperabili scogli della realtà, né raggiunsero altro scopo
all'infuori di quello di ostacolare il libero movimento commerciale.
COMMERCIO E
MARKETING
Nonostante l'ulivo
vegetasse facilmente in tutti i paesi bagnati dal Mediterraneo, tuttavia
la coltivazione di esso variò notevolmente da un luogo all'altro per le
circostanze più o meno favorevoli a tale coltura, come pure variarono i
diversi sistemi, più o meno perfezionati, per la produzione dell'olio.
Da ciò trasse origine il commercio o meglio la necessità dei primi
scambi, che si intensificarono e divennero sempre più attivi e più
estesi man mano che il consumo dell'olio andò assumendo più vaste
proporzioni per i molteplici usi cui venne adibito. Non soltanto la
quantità, ma anche la qualità dei prodotti influì a dar vita ed
incremento al commercio: dall'Africa veniva esportato l'olio di uso
comune per il consumo dei poveri, l'Italia e l'Attica producevano ed
esportavano oli molto rinomati per la loro finezza e limpidezza (i
popoli orientali si specializzarono nella fabbricazione e nella vendita
degli oli aromatici e dei profumi).
I vasi, le bottiglie e le minuscole anfore di alabastro, che contenevano
le preziose essenze, stemperate nell'olio e spesso destinate a viaggiare
per lungo tempo ed in paesi assai lontani, uscivano dai laboratori della
Fenicia, dove il commercio dei profumi era già assai sviluppato fin dai
tempi omerici, e dove continuò a rimanere e a conservare la sua
rinomanza anche ai tempi dell'impero romano. In Grecia i mercanti che
esercitavano il traffico dell'olio trasportavano la loro merce dai
luoghi di produzione a quelli di vendita entro grandi anfore di
terracotta, stampigliate e spesso decorate di disegni o pitture; il
considerevole numero di questi vasi greci, rinvenuti per ogni dove,
anche nei paesi più lontani, è prova molto evidente della grande
estensione del commercio oleario del mondo ellenico. Le marche di
fabbrica, impresse su questi recipienti, ci fanno conoscere la
provenienza esatta del loro contenuto: mentre Corinto esportava
soprattutto piccoli vasi di profumi, o meglio unguenti ed oli profumati,
gli abitanti di Calcide e di Atene spedivano oltre mare le grandi anfore
piene d'olio o di vino, essendo questi i prodotti che costituivano le
principali ricchezze naturali di quei luoghi; come del pari sulle anse
di altre anfore si leggono i nomi di Rodi, Cnido e Tapso.
Anche le decorazioni pittoriche, di cui erano ornate le anfore,
contribuiscono in qualche modo a farci conoscere curiosi particolari
relativi alla storia del commercio oleario: un'anfora rinvenuta a Ceri
in Etruria, ed oggi esistente nel Museo Vaticano, ci presenta in due
quadri la scena caratteristica di un contratto d'olio (le iscrizioni,
segnate presso i due contraenti, ci dicono le riflessioni di essi). Da
un lato si vedono due uomini, seduti di fronte a destra e a sinistra di
un ulivo, ed innanzi a ciascuno un'anfora posata a terra: l'uno versa
olio in una ampolla, l'altro ha un bastone nella mano destra e stende la
sinistra verso un cane che gli sta di fronte e lo guarda, tra le due
persone si leggono le parole: "O Giove, possa io arricchirmi".
Sull'altro lato si vede un uomo seduto che con la destra indica un' anfora
e con le dita della sinistra vicine al viso è in atto di contare; di
fronte a lui sta un altro uomo in piedi, appoggiato ad un bastone, con
una mano distesa e con il solito cane vicino. Tra i due individui corre
la scritta: "Il vaso è pieno e trabocca". All'infuori dell'Attica, i
migliori oli del mondo ellenico erano quelli di Sicione nel Peloponneso,
di Tiborea nella Focide, dell'Eubea, di Cipro e di Cirene ed in quanto
ai prezzi di vendita, già riportati, sappiamo che lo stato percepiva un
discreto diritto di dazio; questi prezzi però variavano
considerevolmente da un paese all'altro, anche in relazione al tempo.
In quanto ai paesi occidentali il primato fu incontestabilmente tenuto
dall'Italia,
dove l'olio più stimato e che godeva la preferenza su tutti gli altri era
l' "oleum Licinianum" del territorio di Venafro, in secondo luogo veniva
l'olio dell'Istria e quello della Spagna. Verso la fine della
Repubblica, in seguito alla trasformazione dei terreni ed alle numerose
piantagioni di uliveti, la produzione dell'olio in Italia fu talmente
abbondante che non solo se ne poté fornire a tutte le province, ma con
soli pochi centesimi si poteva averne anche una dozzina di libbre. Per
quanto concerne il commercio al minuto, negli scavi di Pompei, come
abbiamo già detto, è tornata alla luce nella "Strada Stabiana", la
bottega di un commerciante d'olio dove, sul bancone di argilla, con la
faccia rivolta sulla via e ricoperto da una lastra di cipollino, erano
interrati otto vasi di terracotta che, al momento della scoperta,
contenevano ancora qualche residuo d'olio e d'olive; una "taverna" —
bottega — analoga si vede raffigurata su un bassorilievo del Museo
Vaticano. Una delle pitture murali della celebre casa dei Vetti ci
presenta la scena di un torchio da olio, manovrato da alcuni Amorini,
mentre altri sono intenti a pesare e a vendere l'olio.
A cominciare dal secondo secolo dell'impero, cessa l'esportazione
dell'olio dall'Italia e ne incomincia l'importazione e ciò a causa del
continuo accentuarsi dell'abbandono dei campi, il cui lavoro, affidato
unicamente agli schiavi, finì per essere del tutto trascurato,
determinando così la disastrosa mancanza dei cereali, dell'olio e degli
altri prodotti agricoli in genere. Poiché, in particolar modo in
quell'epoca, Roma sentì il bisogno di una maggiore quantità di olio per
fronteggiare le distribuzioni gratuite, fatte dagli imperatori e che si
moltiplicavano senza misura, fu necessario rivolgersi alle province ed
in particolare modo alla Spagna e all'Africa, come si rileva dai nomi
dei paesi di provenienza delle anfore, i cui frammenti, raccolti sul
monte Testaccio (10)
in Roma, portano i nomi di Leptis in Tripolitania, di Tupusuchu in
Mauritania, di Sagunto, di Cordova ecc. e se molte anfore non sono
contrassegnate con nomi spagnoli, tuttavia la loro conformazione e la
loro struttura ne attestano egualmente la provenienza. Del florido
commercio dell'olio nell'antichità ci sono state tramandate notizie
dagli scrittori greci e latini: ma, in tempi ancora più remoti, esso era
già esercitato nei paesi orientali, perché il famoso codice babilonese
di Hammurabi, il più antico che si conosca e che risale al 2300 avanti
Cristo, all'articolo 104 parla di tale commercio e detta le norme per
regolare i rapporti tra negoziante e commissionario per il collocamento
dei prodotti.
10 - Testaccio si
trovava in prossimità del porto fluviale del Tevere, dove venivano
scaricate e svuotate le anfore che trasportavano liquidi (vini, oli,
ecc.); quelle che si rompevano durante lo scarico venivano lasciate come
rifiuti: nel corso degli anni se ne accumularono tanti da costituire un
monte che recava il nome di Testaccio.
Un' altra
circostanza particolare, che merita di essere qui ricordata, ce la
fornisce il filosofo Platone, il quale, mentre si manifestò apertamente
ostile ad ogni attività commerciale, dichiarando che "la professione del
commerciante non è né onesta né onorata, poiché quelli che vi si
dedicano non conoscono alcun limite nella ricerca del guadagno", d'altra
parte, egli, approfittando dello speciale permesso accordato da Solone
per il commercio dell'olio tra la Grecia e gli altri paesi, allorché
fece un viaggio in Egitto, colse la propizia occasione per portare con
sé un carico di olio per venderlo a vantaggiose condizioni, sapendo che
tale prodotto era ivi molto ricercato.
Oltre ad essere oggetto di scambi commerciali, l'olio, per la sua
importanza e per il suo pregio, fu anche oggetto di transazioni fiscali,
sia sotto forma di decime e tributi normali, sia sotto forma di
contribuzioni straordinarie, imposte dai vincitori in guerra.
IL TRASPORTO
Peri! trasporto
dell'olio si costruivano le «marciliane» apposite navi a fondo piatto,
larghe otto metri e lunghe diciotto, capaci di trasportare fino a 5.000
botti di olio di oliva.
Ai tempi dei Romani la maggior parte delle navi che solcavano i mari erano
navi olearie, cariche di anfore ripiene del prezioso liquido fino
all'inverosimile: quel carico eccessivo fu causa, talvolta, di naufragi
col mare grosso. Il carico era spesso misto; si trasportavano anche
blocchi di marmo o di granito o plinti di colonne, ma nella stiva
c'erano quasi sempre, ben allineate (e così sono state ritrovate),
centinaia di anfore piene di olio d'oliva. I reperti di Giannutri,
Miseno, Taormina, Marzameni, Isola delle Correnti, Pantano Longarini,
Gallipoli e altri parlano molto chiaro: d'altronde, la produzione
dell'olio d'oliva nell'antichità era molto diffusa e Plutarco, nel
lodare Cesare, segnalò che egli aveva procurato tante terre a Roma da
ricavarvi 3 milioni di litri d'olio all'anno.
UTILIZZO
DELL'OLIO E DEL LEGNO D'ULIVO
Per chi abitava in
Palestina, l'ulivo era veramente una fonte di ricchezza, perché non
soltanto si consumavano i suoi frutti, ma anche il suo olio eccellente.
Ancora oggi l'olio d'oliva è abbondantemente usato nella cucina del
Vicino Oriente — dove rimpiazza il grasso e il burro -, ma è anche
largamente impiegato nell'igiene personale e nella preparazione di
prodotti di bellezza. L'olio era d'uso normale in medicina, nelle
"unzioni" dei sovrani e dei potenti (ricordiamo che la parola ehristos,
usata come appellativo di Gesù, non significa altro che "unto"); ogni
sacrificio alimentare doveva essere accompagnato da una libagione
d'olio, cioè il liquido veniva fatto colare sulla pietra del santuario.
Il legno d'ulivo, giallastro venato di bruno, era resistente, suscettibile
di una buona politura e quindi molto ricercato; le statue dei cherubini
nel Tempio di Salomone a Gerusalemme erano di ulivo selvatico che servì
anche alla costruzione delle porte dell'edificio (così si afferma nel
libro dei "Re"). L'ulivo era coltivato nel territorio palestinese sia in
pianura sia in montagna; chi se ne occupava sapeva che le piantagioni
non necessitavano di grandi cure, se non per difenderle dagli
infestanti. Nel "Talmud" (la raccolta delle discussioni degli antichi
rabbini) sta scritto che è più facile far crescere un uliveto che
allevare un figlio di Israele.
Né mancano esempi dell'olio adibito ad usi industriali nella fabbricazione
di certi tessuti di lino per renderli più morbidi e per garantirne la
conservazione, come pure è noto che i tintori e fulloni greci
rinfrescavano con l'olio a Susa nel 331 a. C. stoffe di porpora, tessute
da oltre centonovanta anni e che tuttavia avevano l'aspetto di
nuovissime, come se fossero state lavorate allora, perché erano state da
poco immerse in una miscela di miele e d'olio.
L'OLIO
NELL'ALIMENTAZIONE. GENERALITÀ
I pastori latini si
nutrivano con il puls, una polentina a base di orzo, farro, verdure
cotte, cipolle, aglio, il tutto frullato nell'olio di oliva. Il rancio
dei soldati romani, il moretum, era una piccantissima insalata composta
da erba ruta, sedano, formaggi di capra, aglio, cipolla, ed olio di
oliva.
I legionari romani venivano inoltre retribuiti giornalmente con il sale, i
cereali, una testa d'aglio, cipolle e molte olive. Orzo, pesce, cipolle,
fichi e olive era il compenso dei lavoratori egiziani alle piramidi. Ed
anche, agli inizi del 1800, un contadino pugliese riceveva come vitto,
quotidianamente, un rotolo ed un terzo di pane che mangiava con acqua,
sale ed olio.
Oltre a ciò l'olio d'oliva, come sostanza alimentare, fu con l'aceto, col
sale e col pepe uno dei condimenti di maggior consumo: già nell'epoca
classica era adoperato per cucinare il frumento, il miglio, i legumi, il
pesce e la carne non soltanto nelle case private, ma anche negli
alberghi e nelle cucine pubbliche.
L'OLIO NELLA
CUCINA GRECA
Quale e quanta fosse
la venerazione degli antichi Greci per l'olivo è facile rilevarlo dal
fatto che la coltivazione di esso era affidata unicamente alle vergini e
agli uomini puri; in alcuni distretti dell'Attica si esigeva anche un
giuramento di castità da parte di coloro i quali si occupavano della
raccolta delle olive. L'ulivo non fu per i Greci un semplice albero
ornamentale, essi, infatti, non tardarono a trarne notevoli vantaggi nel
campo della vita pratica e dell'economia domestica, principalmente per
quanto riguarda l'alimentazione: al pari della farina e del vino,
l'olio, infatti, si annoverava, fin dai tempi più remoti, tra i generi
indispensabili alla vita; sul reale valore pratico ed i pregi di questi
elementi o meglio alimenti, sono pienamente concordi tutti gli scrittori
dell'antichità.
L'olio d'oliva fu il condimento più largamente usato dagli antichi Greci;
una delle salse più comuni, adoperate in Atene, per condire il pesce
lesso, si componeva di olio di oliva, di rosso d'uovo, di porri, di
aglio e di formaggio: forse una specie dell'attuale maionese, con
l'aggiunta degli altri ingredienti per renderla più piccante e più
gradita ai loro gusti, che furono, senza dubbio, assai diversi dai
nostri.
Tra i vari cibi, raccomandati dai medici ai malati, ai convalescenti ed ai
deboli di stomaco, troviamo: una specie di focaccia molto sottile,
impastata di farina e miele, cotta su un ferro caldo e mangiata con
olio, lenticchie lessate e condite con sale e con olio, alcune verdure
lessate e condite parimenti con olio. I lassativi blandi erano preparati
con una specie di purè molto liquido, fatto di farina di fave con
formaggio e con olio d'oliva; questo veniva anche adoperato per tutte le
varie fritture, perché la cucina greca, in quanto a fritture, non fece
uso di altre sostanze all'infuori dell'olio.
A questo proposito va ricordato che gli antichi medici non disdegnavano di
occuparsi anche di gastronomia; e se non esercitarono direttamente e
personalmente in cucina il mestiere del cuoco, raccolsero nelle loro
opere e nei loro trattati di medicina le più accreditate norme culinarie
allora in uso. Infatti il celebre Oribasio, che tra i suoi innumerevoli
clienti ebbe non soltanto i più illustri personaggi del suo tempo, ma
anche gli stessi imperatori, ci ha tramandato con le varie ricette di
medicina, anche le opportune istruzioni per preparare e cucinare delle
squisite fritture, come è dimostrato in alcuni passi delle sue opere.
L'OLIO NELLA
CUCINA ROMANA
Il primo uso che gli
antichi Romani fecero dell'olio fu senza dubbio per la cucina; al pari
degli altri popoli dell'antichità e già da allora, uno dei condimenti
più comuni per le diverse verdure commestibili fu rappresentato
dall'olio associato con l'aceto. I due liquidi erano tenuti in due
apposite ampolline, non molto diverse dalle attuali, come si rileva
dagli esemplari pervenuti fino a noi, con la semplice differenza che
tali ampolline non erano staccate e indipendenti l'una dall'altra, ma
formavano un corpo unico, per cui il versamento del contenuto di esse
doveva avvenire contemporaneamente ed in parti uguali, a meno che gli
orifizi dei due recipienti fossero di diverse dimensioni, oppure che,
all'atto del versamento, venissero chiusi alternativamente. Di questa
specie di condimento si trova più volte menzione negli scritti di molti
antichi autori, tra cui il poeta Orazio, che, da vero buongustaio,
poneva la massima diligenza affinché l'olio della sua cucina fosse di
ottima qualità, sia per l'insalata, sia per le fritture, né mancò di
dare anche delle ricette in materia gastronomica.
L'olio, ottenuto per spremitura, fu uno degli alimenti principali, e pian
piano entrò a far parte della cucina romana, come ripetutamente
confermano le ricette lasciateci da Apicio nel suo "De re coquinaria" —
l'autore antico raccomanda l'olio liburnico (della Dalmazia), descrive
metodi per conservare verdi le olive o come mescolare salsa di pesce,
ruta e olio. L'olio era usato nella cottura di molte vivande e come
condimento delle pappe di farro e di miglio insieme al sale (ci viene in
mente il "filo d'olio" che i Toscani versano nelle minestre di fagioli e
di verdura). Tuttavia, l'olio, come il vino, del resto, rimase pur
sempre un alimento raro e raffinato che non tutti potevano permettersi.
Gli scrittori di epoca imperiale romana (ed anche quelli più tardi) ci
riferiscono che, nelle regioni settentrionali d'Italia (la cosiddetta
Gallia Cisalpina, cioè l'attuale pianura Padana), l'olio d'oliva era
consumato soltanto dai ricchi. La gente dei campi, i lavoratori e gli
artigiani della città consumavano olio di semi di ravizzone, olio di
colza e olio di lentischio, insieme al grasso di bue e al lardo di
maiale. Il burro — come già detto — era tenuto in scarsissima
considerazione, ma nonostante ciò veniva prodotto dai campagnoli in
sempre maggiori quantità, sebbene il suo prezzo risultasse troppo alto
per la gente comune — e per questo non raggiunse la loro tavola se non
molto più tardi.
Un uso curioso che si fece dell'olio d'oliva fu il suo impiego per la
preparazione del sapone (11).
11 - La parola
antica sapo fu usata da Plinio per descrivere una pomata inventata dai
Galli: in un primo tempo essa veniva preparata con grassi animali, ma
presentava un odore molto sgradevole; si ovviò a questo inconveniente
con la scoperta che si poteva usare l'olio d'oliva. Da quel momento gran
parte del commercio del sapone passò alla Spagna e ai territori del
Mediterraneo occidentale.
12 -Gli oli medicati saranno oggetto di una prossima pubblicazione.
L'OLIO IN
MEDICINA
L'olio d'oliva,
adoperato come farmaco, sia da solo, sia combinato con altri
ingredienti, ebbe nell'antica medicina un consumo assai più vasto di
quanto oggi si possa immaginare, non solo per la complessa farmacopea
fin d'allora in uso, ma anche per la mancanza di oli e di lubrificanti
minerali, di cui oggi disponiamo. Esso fu usato largamente dagli antichi
come medicina, sia al suo stato naturale, sia associato con altre
sostanze (oli medicati (12)),
sia come parte integrale di più o meno complesse composizioni.
L'olio d'oliva era inoltre ritenuto come un eccellente controveleno e,
assunto con l'acqua addolcita con miele, o mediante un decotto di fichi
secchi, neutralizzava ogni sorta di veleno, come pure preso assoluto, e
poi vomitato, annientava gli effetti nocivi di varie sostanze velenose.
Un'idea più completa del largo uso dell'olio nella antica farmacopea ce la
fornisce il vasto e complesso laboratorio farmaceutico, istituito in
Roma dal celebre medico Ila che, per soddisfare le molteplici richieste
della sua numerosa clientela, aveva raccolto nei suoi magazzini un
ricchissimo assortimento di erbe e droghe medicinali d'ogni genere,
capaci di soddisfare alle esigenze dei casi più disparati e disperati.
Il vasto
Stabilimento Farmacologico di Ila, non soltanto poteva contenere tutto
il complesso armamentario di medicinali occorrenti, ma anche accogliere
tutti i malati e le donnicciole che, ogni mattina, vi affluivano per
consultare l'autorevole discepolo di Esculapio e per confabulare delle
notizie del giorno e della politica, nonché per sparlare del prossimo
(una vera farmacia, adibita alla vendita dei medicinali ed a luogo di
convegno degli sfaccendati). L'edificio si componeva di due ambienti
principali: il laboratorio ed il magazzino, il quale, per l'enorme
quantità e per le innumerevoli qualità di olio che vi si trovavano
accumulate nelle anfore di colossali dimensioni, addossate alle pareti,
si presentava come una vasta cella olearia. In un cortile, uno stagno
artificiale conteneva ranocchi, tartarughe e lumache; una grande gabbia
racchiudeva topi d'Africa e sorci grigi, i quali saltellavano senza
tregua; entro un boccale sonnecchiavano un groviglio di vipere; e due
volpi, imprigionate entro una botte, chiusa sul davanti da una
inferriata, seguivano instancabilmente con gli occhi i movimenti dei
passi di tutte le persone che andavano e venivano.
I vasi esposti nel magazzino erano allineati, con un certo ordine, su
apposite assi e divisi a seconda del loro contenuto e cioè: ceneri
ottenute dalla cremazione di rettili di varie specie, ceneri di teste di
cani morti di idrofobia, di escrementi di cane, di teste di pesci, di
lombrichi, di donnole bruciate vive ecc. Seguiva a fianco lo
scompartimento degli escrementi sia disseccati, sia conservati nell'olio
d'oliva: escrementi di polli, di piccioni, di vitelli, di porci, di
cani, di asini ecc. e dopo di essi un ricchissimo assortimento di
prodotti minerali e vegetali. Tutte le mattine i numerosi fornitori
abituali portavano dalla campagna latte di donna, di pecora e di capra,
urine fresche di varie qualità e piante necessarie per le molteplici
ricette della giornata, che venivano preparate nell'apposito laboratorio
dal numeroso personale ivi adibito.
Tutti i prodotti elaborati nello Stabilimento Farmacologico di ha erano a
base di olio, che non soltanto entrava a far parte nella composizione
dei cataplasmi, delle unzioni, dei rimedi propinati per bocca, ma veniva
anche adoperato in quantità rilevanti per la preparazione dei bagni.
Senza passare in rassegna tutto il suo ricchissimo e complicato
ricettario, possiamo in una parola dire che la intera farmacopea di Ila
era a base di olio, sia associato con foglie e fiori vegetali, sia con i
più svariati prodotti animali, sia terresti che acquatici, oppure
combinato con le feci stesse, ridotte in cenere o allo stato naturale e
diligentemente custodite sotto olio entro appositi vasi. Desta
ripugnanza pensare che queste sostanze venissero adoperate per la
preparazione di cataplasmi, di unguenti e cose simili: ma l'incredibile
è che gli antichi, sebbene di gusto tanto raffinato in fatto di
gastronomia, non esitassero ad ingoiarle tranquillamente.
Democrito di Abdera, il quale visse in ottima salute più che centenario,
soleva ripetere che per stare bene e arrivare alla sua età bisognava
nutrirsi di miele ed ungersi di olio; Pollione, alla domanda rivoltagli
da Augusto con quale mezzo si potesse vivere a lungo in salute e
raggiungere una invidiabile vecchiaia, diede una risposta analoga con le
parole: "intus mulso, foris oleo" cioè facendo uso internamente di vino
condito con miele (mulsum) ed esternamente di olio. Il grande
naturalista Plinio fu dello stesso parere, perché, a suo giudizio, la
vigna e l'ulivo forniscono all'uomo i due liquori più deliziosi: l'uno
per uso interno, l'altro per l'esterno; anzi l'olio è ancor più
necessario del vino, perché di esso non è possibile fare a meno.
LE VIRTÙ
TERAPEUTICHE DELL'OLIO E DELLA PIANTA DELL'ULIVO
L'olivo coltivato,
non meno di quello selvatico, ha le sue notevoli virtù curative, perché,
secondo lo stesso Plinio, le foglie sono astringenti e purgative al
massimo grado; masticate ed applicate sulle ulcere, le raddolciscono:
mescolate con olio, calmano i dolori di testa; il decotto di tali
foglie, mescolato con miele, è eccellente per curare le parti
cauterizzate e le infiammazioni delle gengive, o anche per arrestare le
emorragie; mentre il succo è usato a scopo terapeutico per le ulcere,
per le pustole rosse degli occhi e per la lacrimazione cronica.
I fiori — sosteneva lo stesso Plinio — posseggono virtù non meno efficaci
delle foglie e la cenere, ottenuta dalla combustione dei giovani rami ed
aspersa di vino, si applica con molto giovamento sugli ascessi e sui
tumori; mescolata con farina di polenta è un buon cataplasma per gli
occhi.
Oggi si denominano i vari cultivar dell'ulivo con nomi diversi e Plinio,
da parte sua, tratta l'argomento dopo aver parlato a lungo del vino,
perché riconosce all'ulivo un'importanza seconda soltanto a quella del
quasi miracoloso succo dell'uva. Fin dal principio afferma che le foglie
dell'ulivo sono cicatrizzanti, depurative e astringenti; che in decotto,
con aggiunta di miele, curano le parti cauterizzate dai medici; che con
le ceneri ottenute da fiori e foglie si suppurano le piaghe; che l'olio
è efficace come collutorio e contro il mal di denti; che con la scorza
abrasa dalla radice di un albero d'ulivo giovane si curano l'emottisi e
le espettorazioni. Plinio si dilunga molto sui benefici che sia le
olive, sia l'olio da esse estratto, procurano.
Afferma che le olive verdi giovano allo stomaco (con mare grosso è
opportuno mangiare olive e acciughe per vincere la nausea - questo lo
sappiamo anche noi, oggi-); che l'olio d'oliva, mescolato con vino, cura
non solo le affezioni della bocca, ma anche quelle delle orecchie. In un
passo successivo l'antico naturalista dice che l'olio deve essere
giovane, fine, odoroso ma non aspro: l'olio molto giovane manterrebbe
addirittura bianchi i denti. Se riscaldato e con una manciata di ruta in
aggiunta, calma le coliche e distrugge i dannosi parassiti intestinali.
Un'ultima considerazione, tratta sempre da Plinio, potrebbe riscaldare
il cuore di chi è oppresso e stressato per la caduta dei capelli: uno
shampoo con germogli giovani, cotti e trattati con miele, arresterebbe
la caduta dei capelli e rinforzerebbe i superstiti.
A prescindere dalle esagerazioni nelle quali incorsero gli antichi medici,
è innegabile che il tannino abbonda in tutte le parti dell'ulivo e ciò
basta per assicurargli un posto nel campo della medicina moderna
rigorosamente scientifica. Né ciò è tutto perché, come dimostrò nel XIX
secolo il dottor De Luca, professore di Chimica presso l'Università di
Napoli, le foglie ed i fiori dell'ulivo contengono in abbondanza la
mannite, che si estrae per mezzo dell'alcool dai fiori prima della
fecondazione, perché dopo scompare, mentre cresce nelle foglie fino al
momento del loro perfetto sviluppo per poi diminuire.
Le proprietà febbrifughe delle foglie di ulivo avevano richiamato già da
lungo tempo l'attenzione degli empirici; ed i medici spagnoli di
provincia, nelle le febbri intermittenti, che erano endemiche, le
impiegavano in polvere, somministrandole quotidianamente in varie dosi,
a seconda delle circostanze.
Parimenti il dott. Faucher propose come febbrifugo l'estratto idro —
alcolico di foglie d'ulivo; il dott. Hoste compose con foglie di ulivo
selvatico un estratto idro — acido — "oleasterium" — che egli preconizzò
come succedaneo del solfato di chinina; in Provenza spesso si faceva uso
di gargarismi astringenti, preparati essi pure con foglie di ulivo.
Le foglie e la corteccia dell' ulivo, in estratto idroalcolico, in cui si
trova il glucoside oleuropeina, erano usate, con azione molto dubbia,
come febbrifughe. La W Edizione della Farmacopea Italiana, riporta il
linimento oleo-calcareo (acqua di calce e olio di oliva in parti uguali)
usato per la frizione nelle parti dolenti per lenire il dolore.
I VARI
CULTIVAR DELL'ULIVO
Gaio Plinio Secondo
nella sua "Naturalis Historia" affermava che esistono quindici specie di
ulivo, e ne elencava pregi e difetti, mentre altri scrittori antichi
parlavano genericamente di olea calabrica, cioè di quella pianta che
cresceva in Calabria, e di callistephanos, con tutta probabilità per
indicare quella pianta che produceva le grosse olive di provenienza
greca, così popolari a Roma.
L'OLIO PER
L'IGIENE DEL CORPO (UNZIONE)
Nelle preparazioni
cosmetiche troviamo con grande frequenza l'impiego di olio di oliva. Gli
oli al basilico, al garofano, irto e salvia erano usati come deodoranti.
Un portentoso unguento, utilizzato per la nutrizione della pelle e
principalmente come antirughe, era a base di olio, vino bianco e rossi
d'uovo e l'olio emulsionato al rosmarino, in estratto acquoso, fungeva
da antiforfora e contro la caduta dei capelli.
Per comprendere l'enorme consumo di olio fatto dagli antichi, occorre
tener conto che non solo essi lo usarono come condimento e come
medicinale, che se ne servirono a profusione per le unzioni e per i
massaggi nelle palestre, nei bagni, sui campi di battaglia o nei viaggi,
ma che tali unzioni furono un'abitudine, anzi una vera necessità
quotidiana, alla quale nessuno avrebbe potuto rinunziare, la cui
privazione equivaleva presso a poco alla mancanza del pane.
Le unzioni non potevano praticarsi ad arbitrio di ognuno, ma dovevano
essere disciplinate da apposite regole, a seconda del sesso, dell'età e
del temperamento delle varie persone. Così alle donne venivano
prescritte le frizioni moderate, fatte dall'alto in basso; ed anche
quelle preparatorie per le loro esercitazioni ginniche dovevano essere
praticate con moderazione; in quanto poi alle donne incinte, durante il
primo periodo di gravidanza, era prescritto di sostituire ai bagni le
unzioni ed i leggeri massaggi. Il bambino appena nato veniva sottoposto
ad un'unzione oleosa condita con sale ed il giorno successivo era unto
di olio dolce, con delicate frizioni sulle diverse parti del corpo; in
seguito tali frizioni erano fatte allorché si destava. Quando più tardi
il fanciullo incominciava a correre e a trastullarsi, doveva, prima di
ricevere il vitto, essere sottoposto al massaggio oleoso e
successivamente al bagno; tale pratica durava fino al quattordicesimo
anno.
Unzioni ristoratrici furono designate dagli antichi medici con il nome di
"Apoterapia", che, come sistema di cura, non solo preventiva, dissipava
la stanchezza e, come allora si diceva, smaltiva gli umori superflui
che, dopo esservi riscaldati e alterati, rimanevano ancora
nell'organismo. Allorché un viaggiatore, dopo lungo cammino, arrivava ad
un albergo, il primo dovere di ospitalità dell'albergatore era di fargli
una unzione di olio per ristorarlo dalla stanchezza del viaggio.
Ulisse e Diomede, secondo la narrazione omerica (Iliade X), di ritorno dal
campo dei Troiani, dove erano penetrati di nascosto a scopo di
spionaggio, per rendersi conto delle forze dei nemici e dei loro segreti
di difesa, abbattuti per l'emozione dei pericoli corsi e sfiniti per la
stanchezza, prima ancora di ristorarsi col cibo, pensarono a lavarsi ed
ungersi di olio e poi si posero a mensa; ciò dimostra che già fin
d'allora le unzioni ed i massaggi con olio erano ben conosciuti per
fortificare e rinfrancare le stanche membra.
CURA DEL CORPO
CON L'OLIO
Si è già detto che
nell'antichità era buona norma, dopo un bagno ristoratore o prima di una
gara atletica, farsi massaggiare con olio misto ad altre sostanze
"essenziali"; questo per rinvigorire e, nello stesso tempo, per
rilassare i muscoli. Anche oggi, seppure in poche località e consigliato
da pochi medici, viene praticato quello che può ben chiamarsi il "metodo
aromaterapico" per la salute e la bellezza del corpo. Sono necessarie,
tuttavia, alcune pratiche complementari: i) il massaggio con oli
essenziali (essenza delle foglie e dei frutti dell'ulivo, mescolata, di
volta in volta, e secondo i pareri del medico, con estratto di
bergamotto, basilico, camomilla, canfora, eucalipto, ginepro, lavanda,
melissa, menta piperita, rosa, rosmarino, sandalo e altro); 2) bagni,
inalazioni e vapori; 3) uso delle erbe in cucina e negli infusi o nel
tè. In questo tipo di massaggio l'olio viene applicato sulla pelle e
fatto penetrare nel corpo usando le tecniche neuromuscolari, che si
accentrano sul sistema nervoso e sugli invisibili canali di energia,
chiamati "meridiani" dai medici e i guaritori orientali. Quando la pelle
risponde a questo tipo di massaggio, le terminazioni nervose comunicano
con gli organi interni, le ghiandole, i nervi e il sistema circolatorio
che è connesso con parti vitali del cervello, con quelle destinate a
controllare il battito cardiaco, la pressione del sangue, la
respirazione, il comportamento riproduttivo e la reazione agli stress.
Gli oli puri — perfino con l'aggiunta di sola acqua — stimolano la
pelle, rilassano e forniscono energia; gli amanti dei rimedi naturali
considerano, infatti, l'olio extravergine d'oliva non soltanto come un
alimento. Le insalatiere di legno, ad esempio, vanno lavate in acqua
tiepida senza detersivo e quindi unte leggermente di olio: perfino
pedule e scarponi possono essere ammorbiditi e impermeabilizzati con un
batuffolo di cotone intriso d'olio; le padelle di ferro, in cui si cuoce
il cibo, andrebbero sempre unte d'olio prima di riporle. Ma si può
aggiungere olio all'acqua calda per un bagno rilassante (semmai
mescolandovi estratto di lavanda o camomilla): chi ha le unghie fragili
può rafforzarle tenendo la punta delle dita immerse in olio tiepido.
Massaggi di olio d'oliva leniscono anche i dolori artritici.
LAMPADE AD
OLIO
A parte per
l'alimentazione, per la medicina e per la cosmesi, oltre che per la
liturgia, sappiamo che l'olio d'oliva era largamente usato per
l'illuminazione e le chiese cristiane ne sono state grandi consumatrici.
Durante il Medioevo, ogni residenza importante, come ogni comunità
religiosa, disponeva di propri uliveti con lo scopo primario di
assicurarsi non solo un componente essenziale della dieta, ma l'elemento
base per i propri sistemi d'illuminazione.
Quanto all'uso per illuminazione, possiamo ricordare che la prima e più
solenne descrizione di una lampada ad olio è riportata nell'Esodo,
secondo libro del Pentateuco, quando Dio incaricò Mosè di fabbricare un
candelabro a sette bracci d'oro (il sacro Menorah degli Ebrei), e di
utilizzare l'olio d'oliva più puro per accenderlo. Da questo episodio,
che si colloca nel periodo storico stimato nella seconda metà del
secondo millennio a. C., fino al secolo scorso, le lampade ad olio hanno
assunto le forme e gli stili più diversi che tutti conosciamo, da quelle
povere in terracotta a quelle sontuose in bronzo.
Mentre la "lux perpetua" funziona quasi automaticamente, purché si paghi
alla scadenza la relativa quota di consumo, senza neppure il bisogno di
visitare la tomba sulla quale arde, la lucerna ad olio, per essere
perennemente alimentata, ha bisogno dell'assistenza quotidiana; e
questo, è superfluo rilevarlo, richiede un'assiduità di pensiero di cui
nell'altro caso non vi è affatto bisogno. In altri termini, di fronte al
culto dei morti, se la "lux perpetua" risponde ai diversi requisiti
formali di eleganza, di economia di tempo e di modernità, il modesto
lumicino ad olio, per quanto fumoso e untuoso, ha il requisito
sostanziale di un più elevato sentimento, e questo potrebbe fargli
perdonare il suo sistema troppo antiquato e anche il fumo e l'odore non
sempre gradevole. La storia ultra millenaria della semplice, ma pur
meravigliosa invenzione della lampada ad olio, potrebbe fornire ampia
materia per un grandioso poema, se per un attimo si pensi che essa è
stata per lunghi secoli muta testimone di tutte le gioie e di tutti i
dolori della vita umana, che ha visto nascere e morire milioni di
uomini, che ha rischiarato le notti insonni e le veglie affannose dei
filosofi immortali e dei grandi pensatori, i quali, al lume di essa, nel
silenzio della notte, hanno meditato e risolto i più difficili problemi,
hanno indagato e scoperto le più astruse verità. Sebbene i personaggi
dei tempi omerici per rischiarare le tenebre durante la notte si
servissero della fiamma delle legna o delle torce resinose, non
conoscendo ancora le lampade ad olio, tuttavia queste furono conosciute
e adoperate dagli Egiziani, i quali, come scrive Erodoto, mettevano sale
e olio nelle scodelle e lo facevano bruciare per l'illuminazione; furono
però i Fenici i primi a far conoscere le lampade di argilla o di bronzo
ai Greci, dai quali l'uso passò nelle colonie dell'Italia meridionale e
successivamente a Roma, dove, come si rileva dagli innumerevoli
esemplari rinvenuti, l'uso della lucerna ad olio dal lucignolo fumoso fu
assai comune.
Se dobbiamo credere a ciò che scrive S. Clemente Alessandrino, le lampade
ad olio sarebbero state inventate dagli Egiziani, i quali, come narra
Erodoto (lib. II), festeggiavano la ricorrenza di alcune solennità, con
grandi luminarie notturne, preparate mediante innumerevoli vasi ripieni
di olio e sale e muniti del relativo lucignolo; è opportuno però
rilevare che nessuna lampada di questo genere è stata fino ad ora
scoperta in Egitto; e perciò la notizia tramandataci dal "padre della
storia" rimane sempre in attesa di una positiva conferma. Furono però
senza dubbio i Fenici che portarono dall'Africa in Europa e per primi in
Grecia l'uso della lampada ad olio, la quale in seguito, attraverso le
colonie greche dell'Italia meridionale, giunse a Roma e si diffuse in
tutto il mondo romano; che la priorità dell'invenzione spetti ai Fenici
è dimostrato anche dalla scoperta di numerose lampade in forma di
scodelle o di conchiglie, sia nei paesi che essi abitarono, sia in
quelli da essi colonizzati, come Cartagine, Cipro, la Sardegna.
Per indicare l'ora vespertina, ossia quando incominciano a calare le
tenebre, Erodoto spesso fa uso dell'espressione: "al momento in cui si
accendono le lampade"; e questa frase, malgrado il volgere di tanti
secoli, è giunta, come tutti sanno, integra e completa fino a noi. A
Roma, come in Grecia, l'uso della lampada entrò relativamente tardi; in
precedenza, gli antichi Romani non avevano conosciuto altro che la
"candela"; e secondo Varrone il vocabolo "lucerna" venne adottato
posteriormente a quello di "candelabrum"; a tal proposito è bene
rilevare che prima della parola "lucerna" i Romani adoperarono il
vocabolo greco "lychnus"; termine che si trova più volte ripetuto dai
poeti latini anche in tempi posteriori. Le scoperte archeologiche
confermano quanto abbiamo accennato; infatti le più antiche lampade,
fino ad ora rinvenute a Roma, sono quelle trovate nella necropoli
dell'Esquilino e, a giudizio degli archeologi, non risalgono al di là
del V secolo avanti Cristo. Una volta introdotte a Roma, le lampade ad
olio si diffusero rapidamente in tutto il mondo romano; ai tempi
dell'impero le troviamo usate ovunque, come è dimostrato dall'enorme
quantità di lampade in terracotta dell'epoca imperiale, rinvenute in
ogni regione. Astraendo dalla varietà dei dettagli e dai diversi motivi
di decorazione, le antiche lampade orientali, greche o romane, erano
formate da un serbatoio, destinato a contenere una maggiore o minore
quantità di olio, e di uno o più becchi, dai quali spuntava il lucignolo
unico o i lucignoli multipli, che, imbevuti di olio, producevano la
fiammella. Generalmente il becco, o i becchi, si trovavano sullo stesso
piano orizzontale del serbatoio, il quale a volte era scoperto, a volte
coperto; in questo caso la faccia superiore era forata con uno o più
orifizi di varie dimensioni, attraverso i quali veniva versato l'olio;
altre volte, invece di questi orifizi, la parte superiore era provvista
di un coperchio mobile. Un sottilissimo foro era spesso praticato nella
parete superiore del recipiente: è probabile che questo foro servisse a
lasciar passare nella lampada l'aria quando l'orifizio, per il quale si
versava l'olio, era chiuso.
Di solito alla lampada era adattato un manico oppure un'ansa in forma di
anello; in quanto alla denominazione delle varie parti, i Romani che in
origine, come abbiamo detto, chiamarono l'insieme "lychnus" e poi
"lucerna", denominarono "nostrum" o "myxus" il becco e "ellychnium" il
lucignolo; tali vocaboli non furono altro che la latinizzazione delle
corrispondenti parole greche.
DALLE LAMPADE
AD OLIO A QUELLE ELETTRICHE
La prescrizione
dell'uso dell'olio per le lampade dedicate al culto non si è mai
affievolita nel tempo: nonostante la scoperta di tanti nuovi
combustibili, quali il petrolio, il gas, i numerosi prodotti ottenuti
dai vari semi oleosi, e naturalmente la luce elettrica, la fioca luce
della lampada ad olio di oliva continua tuttora ad ardere innanzi agli
altari, dove si conservano le reliquie più sante e più venerate, come
arse pallida e silenziosa nei santuari dell'epoca biblica. È vero che in
questi ultimi tempi anche le chiese cattoliche hanno di buon grado
spalancate le porte alla luce elettrica, la quale, specie nella
ricorrenza di grandi solennità, inonda i "sacri recinti" non solo al di
fuori ma anche nell'interno, e soffoca in certo modo il fioco lume delle
candele e delle lampade ad olio; è altrettanto vero che, mentre quello
sfolgorio straordinario ed abbagliante è di breve durata, come una
fugace e clamorosa manifestazione di gioia, la modesta luce della
lampada rimane solitaria e silenziosa a diradare le dense ombre notturne
anche quando la turba dei fedeli si allontana ed il tempio resta vuoto e
silenzioso. Dal momento che abbiamo parlato delle lampade ad olio,
alimentate dalla devozione dei fedeli nelle chiese per onorare le sacre
immagini o le reliquie dei santi, ci sia consentito di aggiungere ancora
poche parole per ricordare, o meglio per far conoscere a chi lo ignora,
che precisamente da questo sentimento religioso, di accendere le lampade
innanzi alle sacre immagini, ha tratto origine l'illuminazione notturna
delle vie e delle piazze delle nostre grandi città e particolarmente di
Roma e di Napoli.
Al principio del Secolo XIX Roma, di notte, era ancora completamente al
buio; nel 1838 non aveva più di 1500 fanali ad olio; e bisogna proprio
riconoscere che quei fiochi lumicini dovevano essere assai povera cosa,
perché si potesse parlare di una vera e propria illuminazione.
Allorché verso la metà del XVIII secolo il Governo pontificio, avendo
concepito il disegno di illuminare la città eterna, tentò l'introduzione
dei fanali, i buoni Quiriti protestarono energicamente, perché ritennero
tale innovazione un grave attentato alla libertà notturna fino allora
goduta. Per non urtare la suscettibilità dei nottambuli, interessati a
mantenere l'incognito, durante le avventurose peregrinazioni al chiaro
di luna, fu necessario ricorrere ad un espediente che, senza provocare
proteste, potesse tuttavia contribuire a diradare, sia pure in misura
quasi insensibile, le tenebre; e l'espediente fu ben presto trovato.
Esistevano già in poche vie di Roma alcune minuscole lampade ad olio,
che la pietà dei fedeli accendeva devotamente alla sera per richiamare
l'attenzione dei passanti sulle sacre immagini ivi poste; il governo
pontificio, insinuando e provocando la moltiplicazione di quelle
immagini, particolarmente nei crocevia, ben presto raggiunse lo scopo
desiderato di vedere aumentate le lampade e, nello stesso tempo, ebbe la
singolare soddisfazione di ottenere dalla pietà dei fedeli il contributo
spontaneo per realizzare quella parvenza di illuminazione.
Fatto il primo passo, non fu difficile, come si può bene comprendere,
intensificare il numero e la potenzialità delle lampade per cui,
allorquando l'amministrazione francese, agli inizi del i800, iniziò un
vero sistema di illuminazione delle principali vie di Roma con mille
lampioni, sospesi a mezzo di fili di ferro nel centro delle strade, non
altrimenti di quanto si praticò con il collocamento delle prime lampade
elettriche, l'innovazione, a differenza di quanto era accaduto circa un
secolo e mezzo innanzi, non suscitò proteste e contrarietà.
I modesti lumicini dei secoli scorsi cedettero il posto alle potenti e
luminose lampade elettriche, le quali rischiarono le case, le piazze e
le vie, ma ciò non diminuì il merito dell'olio, che fornì il primo
combustibile per l'illuminazione pubblica e privata, rischiarando con il
fioco lume di una modesta e "fumosa lucerna" le notti insonni e
laboriose di tanti filosofi, di tanti immortali scrittori.
LA
SOPRAVVIVENZA DELLA COLTURA DELL'ULIVO NELLA PENISOLA E NEI MONASTERI
Gli uliveti
ripresero a diffondersi per tutta l'Italia e Firenze divenne un centro
importante per la coltivazione dell'ulivo ed il commercio dell'olio.
Mentre Venezia e Genova rivaleggiano per il controllo del commercio
delle derrate alimentari, Firenze, che dispone di incerti sbocchi al
mare, spinge al massimo la coltura dell'ulivo nelle proprie terre per
non dipendere dalle costose importazioni, come avvenne per l'Arte della
lana che nel 1347 importò 7.143 orcio- li di olio d'oliva per 15.936
fiorini, dando vita ad una massiccia esportazione delle sue preziose
derrate, il vino e l'olio d'oliva, verso il nord Europa. Firenze
gestisce la produzione e la commercializzazione con norme drastiche: è
assolutamente vietato vendere olio di oliva senza l'apposita licenza;
nessun venditore può tenere più di quattro orci di olio così come è
vietato trasportare fuori dal contado olio di oliva senza una precisa
autorizzazione.
Nel 1559 Parafran de Rivera, viceré spagnolo, fece costruire una strada
che collegava Napoli alla Puglia, alla Calabria e all'Abruzzo per
agevolare il trasporto dell'olio. Un altro viceré spagnolo, Juan Vivas,
nel 1624 sviluppò l'olivocoltura in Sardegna, concedendo la proprietà
degli ulivi a chi li innestava e facendo arrivare sull'isola cinquanta
maestri innestatori da Palma di Maiorca, a ciascuno dei quali affidò
dieci allievi. In questa epoca le tecniche di coltivazione e lavorazione
in Spagna erano particolarmente affinate grazie anche all'illuminato
indirizzo dato dagli arabi durante la loro dominazione. Nel solo
distretto della Siviglia musulmana funzionavano trentamila frantoi.
Nel 1830 una notificazione di Pio VII (13)
garantiva un premio in denaro, un paolo, pari al compenso di una
giornata lavorativa di un bracciante, per ogni ulivo piantato e curato
sino a diciotto mesi. In Umbria, allora facente parte dello Stato
Pontificio, dal 1830 al 1840 furono piantati ben 38.000 ulivi. Sempre il
Governo pontificio, sul cui territorio abbonda la produzione dell'olio
di oliva, stabilisce che le eccedenze degli anni di abbondanza non siano
del tutto vendute o esportate, ma immagazzinate presso monasteri,
abbazie e sedi pubbliche e dà l'esempio conservando il prodotto
necessario alla corte pontificia, in enormi anfore situate in Caste'
Sant'Angelo a Roma.
13 - Il pontefice
Pio VII nel 1820 emanò una serie di provvedimenti allo scopo di far
risorgere nello stato pontificio l'agricoltura; giudicò necessario, tra
le altre cose, di incoraggiare in particolar modo la coltivazione degli
ulivi ed a tale scopo dispose un premio di un paolo - cioè cinquanta
centesimi oro - per ogni nuovo albero di ulivo che fosse stato piantato;
in seguito a tale disposizione, ben presto l'Agro romano si arricchì di
oltre duecentomila nuove piante di ulivi.
Gran parte del
merito di aver fatto sopravvivere per tutto il Medioevo la coltura
dell'ulivo in Italia e la pratica attività dei frantoi, si deve ad
alcuni Ordini religiosi, fra cui, in particolare, i Benedettini e i
Cistercensi. I primi seguivano la Regola dettata da San Benedetto da
Norcia, che aveva fondato comunità che si ispiravano ai principi
evangelici, ma che trovarono anche nel codice del monaco umbro lo
strumento più efficace per l'edificazione di una "repubblica cristiana",
fondata sulla preghiera e sul lavoro. Contadini e operai agricoli
tendevano ad abbandonare le terre che avevano lavorato per secoli;
Benedetto e i suoi seguaci li persuasero a dedicarsi a colture
redditizie, come appunto quella dell'ulivo, che li avrebbero riscattati
dalla povertà. La Regola di San Benedetto trovò applicazioni pratiche a
Camaldoli, a Vallombrosa, a Montecassino, a Montefano di Macerata, a
Monteolivero (il nome è già indicativo) in provincia di Siena. In questi
monasteri le ore del giorno erano equamente suddivise fra i turni di
preghiera e i turni di lavoro: i monaci non disdegnavano di impugnare la
zappa per migliorare lo stato dei terreni calcarei sotto le mareggiate
di ulivi argentei: in alcune località ci sono ancora campi e
terrazzamenti di ulivi che risalgono al lavoro dei monaci, specialmente
nell'Italia centro — meridionale, come in Basilicata. Non si videro
forse mai tanti uliveti e vigne come dal Mille al Quattrocento — gli
anni d'oro dei monasteri benedettini e cistercensi.
Spetta soprattutto ai monaci il merito di aver fatto praticamente
sopravvivere l'ulivo. Seguendo le indicazioni di San Benedetto da
Norcia, monasteri e conventi furono cinti di grandi uliveti, consentendo
così il rilancio del prodotto. Da una memoria del monastero di Bobbio,
presso Piacenza, si apprende che il reddito tratto dalla vendita di olio
serviva per acquistare "vestamenta e ferro". Nell'area salentina furono
i monaci Basiliani all'inizio del XIII secolo ad impiantare estese
colture di ulivi. Negli archivi di Gallipoli si trova un diploma del
1327 del Re Roberto D'Angiò, che concede alla città la riscossione di
tutti i tributi per la molitura delle olive. Nell'Archivio di Stato di
Lecce si trovano conservate le autorizzazioni reali del 1371 per
l'attracco negli orti di Gallipoli e di Brindisi di navi ragusane per il
carico di olio di oliva, conservato in otri di pelle di capra, contro lo
scarico di spezie e di tele di lino.
Successivamente furono i conventi che ricrearono uliveti di grandi
dimensioni, dati in gestione a contadini con contratto «ad laborandum»,
secondo cui il proprietario dell'uliveto riceveva parte del raccolto e
alcune giornate di lavoro nelle proprie terre. Più tardi, nel XII
secolo, vennero stipulati contratti «ad infinitum», cioè senza limiti di
tempo, per cui i contadini si impegnavano alla coltivazione in cambio di
un fitto, sovente pagato in olio.
Nel secolo XV, ad opera dei frati Cistercensi ed Olivetani, le ampie zone
boscose di Capo Leuca furono messe a coltura e per ottenere una pronta
resa vennero risparmiati solo gli olivastri cresciuti spontaneamente ed
innestati ad ulivi. Nello stesso tempo periodo la Puglia divevne un
enorme uliveto e gli ulivi vennero piantati anche in Calabria, in
Basilicata, in Abruzzo, in Campania e in Sicilia.
L'OLIO
D'OLIVA: UN ALIMENTO PREZIOSO
Ai giorni nostri,
l'olio d'oliva è il Re dei condimenti, conservando una posizione
privilegiata, nonostante l'aggressivo avanzare di numerosi prodotti
alternativi. Gli oli vegetali appaiono ricchi di grassi "insaturi",
indispensabili all'organismo, in quanto rappresentano un fattore di
crescita e permettono al tessuto di assimilare altre sostanze di cui il
nostro organismo ha bisogno; per assumere la quantità ottimale di acidi
grassi insaturi, è bene consumare almeno 4 cucchiaini di olio d'oliva al
giorno.
L'utilizzo dell'olio crudo non ha controindicazioni; anzi, l'acido
linoleico, contenuto nell'olio vegetale, se assunto nella giusta
quantità, contribuisce a prevenire disturbi circolatori e
l'aterosclerosi.
È cosa fondamentale per il consumatore scegliere l'olio adatto ai diversi
tipi di condimento o di cottura: infatti, durante la cottura avvengono
nell'olio profonde alterazioni per effetto della presenza dell' ossigeno
e del calore: gli acidi linoleico e linolenico vengono trasformati in
polimeri e ossipolimeri, che sono dannosi per la salute. Per questa
ragione, ad esempio, quando si usa l'olio per friggere, è necessario (e
salutare) osservare alcune regole generali:
- la fiamma non deve mai essere troppo alta;
- l'olio non deve stare al fuoco per più di una ventina di minuti;
- l'olio non deve mai essere usato più di una volta.
L'olio d'oliva extravergine è il migliore e il più sano, perché viene
estratto per semplice pressione di olive mature e successivamente
filtrato. Le differenze di sapore e di colore fra i vari oli di oliva
dipendono dai rispettivi luoghi di origine, quindi, dal clima, dal tipo
di terreno, dalla temperatura dell'aria, dalla vicinanza o meno del
mare, dall'età delle piante e dalla loro esposizione al sole.
Sotto il profilo dietetico l'olio d'oliva extravergine è un alimento
preziosissimo, ricco di clorofilla, di carotene (che protegge il liquido
dall'ossidazione e dall'irrancidimento), di lecitina (antiossidante
naturale che stimola il metabolismo dei grassi, degli zuccheri e delle
proteine), di polifenoli (anch'essi antiossidanti) e di vitamine A e D.
L'olio d'oliva extravergine regge bene anche alle altre temperature.
VALORE
ALIMENTARE DELL'OLIO D'OLIVA
Malgrado una
campagna di disinformazione basata soprattutto su una pubblicità non
adeguata ai nostri tempi, l'olio ottenuto dalla spremitura delle olive è
in assoluto il miglior tipo di grasso in campo alimentare. Perfino gli
Americani (che non ne hanno una produzione importante) riconoscono il
suo valore alimentare e terapeutico: nel 1977 il professor Angel Keys,
dell'Università del Minnesota, riconobbe dopo lunghi studi l'efficacia
dell'olio d'oliva nella prevenzione dell'aterosclerosi e dell'infarto.
Egli fu, dunque, il primo — nei nostri tempi — ad affermare il valore
della "dieta mediterranea", nella quale l'olio d'oliva gioca un ruolo
primario. Innanzitutto l'olio d'oliva è l'unico olio ad essere prodotto
dalla semplice pressione di un frutto, senza manipolazioni fisiche, né
chimiche. Gli oli di semi, ad esempio, sono prodotti per estrazione, con
l'impiego fisico e quindi traumatico di apparecchiature speciali e di
materie chimiche come butano, propano ed esano. I grassi sono necessari
al nostro corpo per fargli mantenere una buona temperatura (valutata
intorno ai 379, ma tali grassi dovrebbero essere neutri; in realtà, sono
leggermente acidi; quelli per noi più essenziali sono l'acido oleico,
l'acido linoleico e l'arachidonico. Un tempo si affermò la superiorità
dell'olio di semi sull'olio di oliva per la maggior presenza in esso di
acido linoleico; recenti studi, però, hanno rilevato che il corpo umano
non può assimilare più del io — 12% di acido linoleico; inoltre, l'olio
d'oliva è monoinsaturo, mentre gli oli di semi sono più ricchi di grassi
polinsaturi — fatto essenziale nella cottura e frittura degli oli,
perché, portati ad alte temperature, gli acidi grassi insaturi assumono
ossigeno e recano danno all'organismo.
In breve, l'olio d'oliva resiste a più alte temperature prima di
deteriorarsi; non aumenta il tasso di colesterolo, anzi, l'acido
dell'oliva ha la proprietà di diminuire il contenuto del colesterolo
LDL, che è dannoso, e di conservare intatto il colesterolo HDL, che fa
diminuire il rischio di occlusione delle arterie. Non solo, l'olio
d'oliva riduce l'acidità gastrica e agisce favorevolmente sulla bile e
quindi diminuisce il rischio di calcoli: favorisce perfino la normale
crescita ossea nei più giovani.
Solo negli ultimi decenni del secolo passato, dal 1970 in poi, l'olio di
oliva è stato preso nella giusta considerazione, quasi fosse un vero e
proprio farmaco, da medici e nutrizionisti, con attente e documentate
ricerche, come vedremo in seguito. L'olio di oliva, con la sua
composizione equilibrata, che si oppone allo stress ossidativo
responsabile dell'invecchiamento, sarà forse uno degli elementi che
consentirà alla popolazione di assicurarsi questo primato.
Publio Viola a riguardo dice: «L'Italia si appresta a battere il primato
di longevità. Sarà forse l'olio di oliva che ci consentirà di arrivare
primi a questo ambito traguardo? Certamente non è l'unico fattore, ma
accanto a tante regole che ci costringono a vivere male per morire bene,
questo prezioso grasso vegetale è l'unico alimento che ci consente di
commettere un peccato di gola senza temere le conseguenze».
I grassi rappresentano un principio nutritivo indispensabile alla
nutrizione dell'uomo. Oltre a contribuire, come abbiamo detto,
all'apporto energetico della razione alimentare, esplicano altre
importanti funzioni. Sono, infatti, tra i costituenti delle strutture
cellulari, veicolano le vitamine liposolubili, sono fonti di grassi
essenziali, sia per la struttura delle cellule che per la formazione
delle prostaglandine, sostanze dalle multiformi attività per il nostro
organismo; in fine agiscono sul livello dei lipidi aromatici.
Il preoccupante aumento delle malattie metaboliche, quali l'obesità ed il
diabete, e delle patologie dell'apparato cardiovascolare, coronaropatie
ed aterosclerosi, riconosce come fattore causale un eccesso alimentare,
il più delle volte globale, ma spesso legato ad una introduzione troppo
elevata di lipidi.
In Italia, come nelle società ad alta industrializzazione, si è verificato
un profondo mutamento delle abitudini alimentari, cosicché mentre lo
sviluppo tecnologico ed industriale ha ridotto il dispendio energetico,
con le migliori condizioni socio-economiche sono notevolmente aumentati
i consumi di alcuni alimenti ed in particolare quello dei grassi, che,
rispetto a quello dell'inizio dello scorso secolo, si è quassi
triplicato. Riferendoci ad una pratica, anche se non soddisfacente,
classificazione che suddivide i grassi alimentari in grassi visibili ed
invisibili, essendo questi ultimi quelli non estratti dalle loro fonti
originarie e pertanto consumati come componenti dei tessuti, l'apporto
energetico dei grassi visibili alla razione alimentare giornaliera è
andato via via aumentando nel corso degli ultimi quaranta anni. Essi
rappresentano infatti circa il 20% dell'energia, mentre circa il 12%
deriva dai grassi invisibili e tra questi una vasta partecipazione è
data dai grassi animali.
Numerosi studi condotti in diversi Paesi hanno confermato l'esistenza di
una stretta correlazione tra il tasso di colesterolo totale del plasma
sanguigno ed il rischio di infarto coronarico. Sono infatti circa 80.000
ogni anno in Italia i nuovi casi di infarto ed i decessi per malattie
cardiovascolari rappresentano il 48% della mortalità totale. Gli studi
epidemiologici hanno appurato che la coronaropatia si associa a
caratteristiche personali come l'aumento della pressione arteriosa,
della glicemia, del peso corporeo, ad abitudini di vita come il fumo di
sigarette, la mancanza di esercizio fisico, il tipo di alimentazione e
soprattutto l'aumento di colesterolo nel sangue.
LA
COLTIVAZIONE MODERNA DELL'ULIVO E LA PRODUZIONE DELL'OLIO DOC
Riportiamo, per
inciso, che i Greci ebbero una speciale considerazione per l'ulivo, che,
secondo la tradizione, fu loro donato direttamente dalla dea Atena.
Pare che, quando i Persiani incendiarono Atene, si salvò solo il "sacro
ulivo", il che sarebbe come dire che, salvato l'ulivo, non tutto era
perduto e la città riprese ci vivere nello stesso posto.
ATTECCHIMENTO,
VARIETA' PROPAGAZIONE E DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA
a) ATTECCHIMENTO
L'ulivo predilige
terreni sciolti o di medio impasto, con reazione alcalina; questa
pianta, che la botanica definisce Olea europea, ha una grande
adattabilità ai diversi tipi di terreno, purché si tratti di zone
temperate ed asciutte. La fascia di attecchimento è compresa fra 30 e 45
gradi di latitudine e perché lo sviluppo della pianta dell'ulivo sia
regolare è necessario che avvenga alle seguenti fasce di temperatura: 15
- 18° C per la fioritura; 20 - 22° C per allegagione (trasformazione da
fiore a frutto); 15° C per l'invaiatura (comparsa della polpa oleosa);
5° C per la maturazione. La temperatura minima di sopravvivenza è di 7 -
8 gradi centigradi sotto lo zero.
Notoriamente l'ulivo ha una elevata resistenza alla siccità, tollerando la
piovosità media delle regioni italiane, espressa in mm/anno: ricordiamo
in proposito che la piovosità media delle regioni italiane, espressa in
mm! anno, varia da un minimo di circa 5oo per la Puglia, ad un massimo
di circa 1500 per il Veneto. Le condizioni climatiche per
l'attecchimento ed il benessere dell'ulivo, come si evince da quanto
detto, sono ancora più specifiche di quanto non possano esprimere i
gradi di latitudine, tanto è vero che abbiamo degli ottimi uliveti anche
in Italia del Nord, attorno al lago di Garda, che certamente non
appartiene all'area mediterranea.
Al Centro e al Sud dell'Italia, come nel resto dell'area mediterranea, le
condizioni climatiche sono naturalmente ideali per l'attecchimento e la
propagazione dell'ulivo. Ciò è avvenuto per secoli, anche su terreni
impervi e sassosi, dato che l'olivicoltura non poteva essere altro che
manuale, ed i terreni più comodi (spesso più umidi) venivano tipicamente
riservati ad altre colture. Durante l'ultimo secolo molti vecchi uliveti
collinari (14)
e montani sono stati abbandonati, sia per lo scarso reddito, che per le
difficoltà di accesso alle macchine agricole ed oggi non è raro trovare
monti boscosi dove i vecchi ulivi convivono incolti con il resto della
vegetazione spontanea. Possiamo anche ammirare molti nuovi impianti,
razionalmente coltivati e produttivi, che caratterizzano il paesaggio
collinare delle nostre terre.
14 - Nella
provincia di Lucca una piantagione di oltre 3000 piante d' ulivo, in
parte giacente e coltivato su terrazzi naturali ed artificiali, è stata
abbandonata per l'alto costo della manodopera.
b) VARIETÀ
Nelle famiglie degli ulivi esiste un vasto numero di cultivar che si è
andato affermando nel tempo, in funzione delle aree geografiche e del
frutto che si vuole ottenere; dal punto di vista pratico, a seconda
dell'attitudine delle drupe, possono essere: da olio, da mensa o a
duplice attitudine.
Fra le cultivar delle olive da olio, tanto per citarne alcune, le più
comuni sono: il Frantoio, il Leccino, la Carbonella, il Pendolino, la
Rosciola, la Coratina, la Ogliarola barese, la Ogliarola messinese, la
Maiatica.
Fra le cultivar da mensa abbiamo la ben nota Ascolana, la Santagostino e
la Gordal che, oltre alla Spagna ed al Nord Africa, si è affermata anche
negli USA. Per la duplice attitudine, figurano la stessa Ascolana e la
Gordal, oltre che la Tonda Iblea, la Nocellara e l'Oliva di Cerignola,
che ha un contenuto di olio più basso delle altre.
Le cultivar appena elencate sono solo le più conosciute ed esse
rappresentano solo una parte delle centinaia attualmente classificate
con vari nomi in Italia e negli altri Paesi di coltivazione.
c) PROPAGAZIONE E
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA
La pianta dell'ulivo si riproduce e si propaga per via sia gamica che
agamica. Durante gli anni, le tecniche per la riproduzione e
l'allevamento di questa pianta si sono evolute e raffinate, sia per
selezionare il prodotto che per aumentare la produttività dell'impianto.
La giovane pianta di allevamento può provenire da innesto su una base
ottenuta dalla semina del nocciolo oppure per talea prelevata dalla
pianta che si vuole riprodurre. La crescita e la produzione vanno
assistite con l'apporto di sostanze essenziali alla specie,
preferibilmente quelle organiche del letame ( la produzione di loo Kg di
olive richiede l'apporto di circa 900 g di azoto e un ettaro di uliveto
ne preleva dal suolo oltre 50 Kg per ogni anno). La potatura deve
seguire i criteri botanici, per assecondare la fisiologia della specie,
ed i metodi pratici, per consentire la meccanizzazione delle operazioni
colturali. La meccanizzazione, in questo caso, non ha ancora trovato una
standardizzazione che sia accettata da tutti. A seconda delle zone e
degli usi locali, possiamo infatti ammirare eccellenti uliveti
produttivi con potature molto diverse da caso a caso. Le potature più
diffuse sono con albero a vaso policonico (detto anche a candelabro), a
cespuglio, o a monocono.
Rivolgendo l'attenzione alla distribuzione geografica dell'ulivo, torniamo
dunque alla cultura (più che alla coltura). La migrazione dei popoli ha
portato, fra l'altro, un certo grado di propagazione verso terre lontane
dalla zona d'origine e, di fatto, esso è oggi presente in tutti i
continenti, sia per ornamento che per produzione, ovunque le condizioni
climatiche lo abbiano consentito (l'America, con i promettenti impianti
della California, la Nuova Zelanda, l'Australia, il Sud Africa ed anche
l'Asia Orientale) e questi territori, che, dal punto di vista olivi-
colo, possiamo definire emergenti, rappresentano tutti assieme una
frazione del 2 - 3 per cento dell'intera produzione mondiale di olio di
oliva (che è di oltre 2 milioni di tonnellate/anno), la quale rimane
concentrata nell'area mediterranea. Storicamente l'Italia è stato il
primo produttore in assoluto, seguito dalla Spagna e dalla Grecia.
Venivano poi le regioni del Medio Oriente, con in testa la Siria, poi il
Nord Africa, con l'Egitto ed il Magreb. Con il nuovo millennio il
primato è passato alla Spagna, seguita da Italia, Grecia, Medio Oriente,
Tunisia e Marocco. La distribuzione olivicola in Italia è predominante
in Puglia, seguita nell'ordine da Toscana, Sicilia, Liguria, Lazio,
Umbria e, in misura minore, da tutte le altre Regioni, fatta eccezione
di Piemonte, Lombardia e Valle d'Aosta, dove è totalmente assente. Per
motivi diversi l'olivicoltura recente presenta delle mutazioni
geografiche, sia all'interno dell'area mediterranea (come già detto
dall'Italia verso la Spagna), che verso nuove e remote zone di coltura
(che abbiamo definito territori emergenti). Potremmo dissertare sui
diversi motivi che determinano gli spostamenti geografici di questa
coltura, a partire dalle condizioni sociali degli addetti al settore,
alle politiche agrarie dei Governi, dalle dimensioni aziendali al
livello di meccanizzazione. Il motivo principale della migrazione,
limitandoci a due considerazioni elementari, è certamente quello
economico, perché, come avviene per ogni altro settore, la produzione si
sposta inevitabilmente verso i luoghi e le condizioni che minimizzano i
costi; il secondo motivo è dato dal consumatore (cioè dal mercato),
perché il consumo dell'olio d'oliva non è più un fatto regionale, ma si
sta avviando ad essere planetario.
A) I PRODOTTI
DELL'ULIVO
a) IL LEGNO
DELL'ULIVO
Molte sono le essenze pregiate che l'uomo ha selezionato nei secoli per
costruire i suoi manufatti; classico è il cedro del Libano, maestoso e
possente, da cui si ottenevano le grandi travi per l'edilizia e
l'alberatura dei navigli. La quercia è sempre stata la materia prima più
compatta e resistente per eccellenza; con il suo legno si alzavano
palizzate contro il nemico, si sagomavano i rostri e si centinavano le
corazzature delle navi da battaglia, si gettavano architravi al posto
del granito.
La foresta mediterranea ha iniziato la sua decadenza con il nascere dei
cantieri navali sulle sponde del Mare Nostrum e per il fatto che le
nostre strade ferrate poggiano, alcune ancora oggi, ma la maggior parte
non più, su molte migliaia di traversine di legno di quercia, per cui il
taglio è continuato fino a tempi recenti.
Altra essenza legnosa di maggiore utilizzazione è stato il castagno, molto
adatto alle palificazioni perché resistente all'umidità del terreno, e
l'acero, molto docile alla lavorazione; quando però si parla di
manufatti pregiati per arredi e decorazioni, tipicamente si fa
riferimento ai legni esotici, come il mogano e l'ebano, o ai nostri
legni speciali, come il noce, per la sua compattezza e la bellezza delle
venature, ed in modo particolare all'ulivo, che è raro e pregiato allo
stesso tempo.
Esso è raro perché un albero d'ulivo di regola non si abbatte e,
quand'anche ciò avvenga, la sua struttura consente una pezzatura molto
limitata rispetto alle altre essenze; è pregiato perché presenta una
grande ricchezza di venature e può essere agevolmente lavorato e
scolpito, anche se compatto e duro come marmo. Le caratteristiche
fisiche, unite al valore mitico dell'ulivo, rendono obiettivamente
pregiato ogni oggetto o manufatto che sia realizzato con legno d'ulivo.
Se poi dovessimo riferirci all'uso più vile che viene fatto del legno,
dovremmo aggiungere che l'ulivo, grazie alla sua essenza oleosa, è il
migliore combustibile per il nostro camino: facile accensione, lunga
durata di fiamma pura, alto potere calorifico (fino a 4.000 Cal/Kg),
minimo residuo di ceneri.
b) LE BACCHE
Le bacche, cioè le drupe, possono essere nere, verdi o violacee; hanno la
forma ovoidale oppure tonda, quasi sferica, con dimensioni molto
variabili che vanno all'incirca da 8 a 24 mm ed un peso che può variare
da 1 a io grammi. Tutte hanno un nocciolo durissimo ed una polpa
turgida, coperta da una pellicola lucida (il pericarpo) e naturalmente
tutte contengono olio, anche se in percentuali diverse. Le diverse
varietà di olive, e quindi delle piante di ulivo, cioè delle cultivar,
di cui si è già fatto cenno, hanno determinato nel tempo una spiccata
specializzazione agricola, con impianti destinati alla produzione di
olive da mensa oppure da olio.
Le olive sono un frutto invernale che cresce singolo, o in piccoli
grappoli, sui rami teneri di un ulivo; esse decorano le chiome degli
alberi luccicando con la rugiada; se mosse dal vento, hanno un aspetto
appetibile, ma non sono commestibili allo stato naturale, perché
sarebbero troppo amare. Opportunamente trattate, le olive costituiscono
un gradevole alimento energetico, molto apprezzato dai tempi remoti fino
ai giorni nostri.
Molti sono i tipi di trattamento che si sono tramandati nelle varie zone
dell'area mediterranea per ottenere le olive da mensa che oggi sono
disponibili su tutti i mercati del mondo; le possiamo avere affumicate,
farcite con spezie varie o semplicemente salate. L'uso certamente meno
antico (forse anche meno nobile) che tutti conoscono è quello di
guarnire un aperitivo con una turgida oliva verde (15).
15 - La
consuetudine è largamente diffusa in ogni continente ed in un contesto
totalmente estraneo al mondo agricolo, tanto estraneo che un
anglosassone, urbanizzato e di media cultura, potrebbe facilmente
pensare che l'impianto di un uliveto serva solo per alimentare una
fabbrica di Martini.
C) LA
COLTIVAZIONE NEI SECOLI
a) IL PRODOTTO
L'olio d'oliva è l'unico prodotto al mondo per il quale le fasi di
lavorazione sono rimaste praticamente immutate negli ultimi 2000 anni e
si potrebbe obiettare che tutta l'agricoltura in generale rappresenta il
settore produttivo più antico dell'uomo, il quale, da quando è divenuto
stanziale, non ha mai cessato di lavorare il terreno per ottenerne i
raccolti.
La singolarità del settore olivicolo è basata sul fatto che riteniamo sia
stato l'unico a rimanere quasi immune dalla straordinaria evoluzione
tecnologica che si è verificata nei tempi moderni. Un solo uomo,
manovrando una mietitrebbia, può raccogliere oltre 20 tonnellate di
cereali al giorno, mentre lo stesso uomo, in un giorno, può raccogliere
dai 100 ai 150 Kg di olive (non considerando la meccanizzazione ancora
sperimentale).
L'estrazione dell'olio si è certamente evoluta col tempo, non fosse altro
che per la forza motrice, ma occorre ammettere che la frangitura delle
drupe, per convertirle in pasta olearia, e la separazione dell'olio
dalla sansa e dalle acque vegetali costituiscono un ciclo lavorativo
stagionale (le olive non sono stoccabili come i cereali), che non è mai
cambiato nel tempo.
b) LA
MECCANIZZAZIONE
Accenniamo alla meccanizzazione agricola ed al progresso tecnologico che
le conoscenze botaniche hanno messo a disposizione dell'olivicoltura.
La preparazione del terreno per un nuovo impianto richiede uno scasso
totale o parziale ad una profondità di circa un metro, che viene
eseguito con aratri e trattrici di elevata potenza.
Ti mantenimento dell'impianto richiede vari tipi di lavorazioni sul
terreno, che vanno dal diserbo all'aratura superficiale, regolarmente
eseguite con trattore e relativi accessori.
La concimazione del terreno può essere definita come l'apporto artificiale
al terreno (si tratta dunque di una pura e semplice "alimentazione"
delle piante) di determinate sostanze allo scopo di restituire quelle
asportate dalle piante che vi sono coltivate. Fertilizzazione vuol dire
includere non solo l'apporto di sostanze che equilibrano e potenziano la
fertilità del suolo coltivato, ma anche l'aggiunta di sostanze
correttive che modificano le caratteristiche fisiche e chimiche del
terreno (troppo acido con PH inferiore a 6 oppure troppo alcalino con PH
superiore a 8,5, o semplicemente carente di alcuni elementi chimici
necessari alla fertilità, pregiudicando il buon esito di una coltura).
Si capisce che, per l'agricoltura moderna, la pratica di fertilizzare un
terreno non può essere empirica, ma deve partire da una base scientifica
che tiene conto dell'analisi del suolo e della pianta. Gli elementi
principali per la fertilità sono l'Azoto, il Fosforo ed il Potassio, i
quali sono normalmente presenti in quasi tutti i concimi destinati alla
olivicoltura.
La concimazione meccanizzata è largamente diffusa, sia per concimi
sintetici, con contenitori centrifughi a fondo rotante, che per letame o
liquami, con carrelli spanditori abbinati al trattore.
Un'altra operazione meccanizzata, complementare alla concimazione, è
l'irrorazione delle piante, sia a scopo antiparassitario, che a scopo
nutritivo, con concimi fogliari.
La potatura degli ulivi è un'operazione complessa e costosa, che richiede
competenza e manualità nell'operazione. La classica pianta a vaso
policonico viene potata quasi esclusivamente a mano e possiamo stimare
che, in una giornata lavorativa, si lavorano dalle 15 alle 30 piante, a
seconda dello stato e delle dimensioni delle piante stesse.
Molte sono le proposte di potatura meccanica, da eseguire con lame, dischi
o coltelli rotanti, montati su bracci meccanici a comando oleodinamico,
sia in abbinamento con trattori convenzionali, che con macchine
progettate ad hoc. Questo tipo di potatura, certamente più rapido di
quello manuale, tende a mantenere la chioma dell'albero entro i confini
ottimali, che assicurano aria, luce e nutrimento per tutti i rami,
eliminando sia i rami superflui che quelli di fuga. Poiché la forma
geometrica che meglio si adatta ad un trattamento di questo genere è il
cono, abbiamo appunto la potatura a monocono, che fa somigliare un ulivo
ad un cipresso ribassato.
D) RACCOLTA DELLE
OLIVE
La raccolta delle olive è un'operazione che ancora persiste nell'essere
manuale, nonostante le diverse proposte di meccanizzazione, e non ha
subito molte varianti nella storia. Prima si raggiungevano le singole
drupe per essere manualmente prelevate dai rami (16)
e raccolte in panieri da tenere a tracolla, poi si è accelerato il
processo con la bacchiatura delle drupe, tramite lunghe aste,
provocandone la caduta a terra, da cui comodamente (e sempre
manualmente) si raccoglievano. Questo metodo, con le due varianti di
bacchiatura, oppure di brucatura manuale, è tuttora largamente usato e
si è perfezionato con l'adozione di grandi teli disposti alla base delle
piante, accelerando di gran lunga la fase di raccolta a terra.
La raccolta meccanizzata parte dal concetto manuale di provocare la caduta
delle drupe entro un telo raccoglitore.
C'è chi propone di scuotere l'intera pianta (17)
con un braccio meccanico abbinato al trattore che fornisce l'energia per
la vibrazione, altri suggeriscono di agitare le sole chiome, con
rastrelli oscillanti montati su aste meccaniche, alimentate ad aria
compressa. Allo stato attuale, questi ultimi sembrano prevalere sui
primi ed il rendimento per ogni addetto alla raccolta delle olive si è
più che raddoppiato, rispetto ai metodi tradizionali, passando a 300 —
400 Kg di raccolto per giorno — uomo.
L'efficienza dei due tipi di abbinamento, uomo — macchina e macchina —
albero, dipende naturalmente dalle dimensioni e dalla forma degli alberi
su cui si lavora.
16 - Le
raccoglitrici di olive di un tempo erano pagate o a giornata più le
spese (colazione e pranzo) o con la divisione del prodotto raccolto
nella giornata.
17 - Trattata preventivamente con sostanze che rendono possibile il
distacco e l'allontanamento del frutto dal ramo.
E) IL FRANTOIO
a) IL FRANTOIO
NELL'ANTICHITA'
Per le olive che non sono da mensa la destinazione esclusiva è il
frantoio, che rappresenta il punto chiave nel mondo olivicolo, in cui,
da novembre a gennaio, si lavora 24 ore al giorno; esso è il luogo del
raccolto finale, dove si misura e si assapora il frutto di un duro e
paziente lavoro, è anche il luogo d'incontro fra gli addetti del
settore: produttori, estimatori, commercianti ed i consumatori più
esigenti che provvedono alle scorte domestiche.
Negli ultimi 2000 anni poco è cambiato nel mondo dell'olio d'oliva.
Tutti conoscono la macina di pietra e il torchio, o pressa a vite; è
altrettanto noto che l'olio è più leggero delle acque vegetali contenute
nelle drupe e basta dunque pressare la pasta olearia, raccogliere il
liquido che ne viene estratto ed attendere che l'olio "affiori" verso
l'altro, mentre le acque scendono verso il fondo di un bacino con i
residui solidi di sedimentazione.
Questo è l'olio d'oliva, detto anche il "fiore", che l'uomo produce da
millenni per i suoi molteplici usi. La separazione dell'olio per gravità
non può essere così netta, come avviene per l'acqua di un ruscello che
si separa dai ciottoli che riposano sul fondo. La miscela di olio con le
acque ed i residui legnosi si dispone in verticale dal basso verso
l'alto, in modo direttamente proporzionale al peso specifico dei diversi
componenti, dando luogo ad una spontanea graduatoria di leggerezza e di
purezza che parte dall'alto. Ecco dunque il concetto di prima scelta che
si riferiva all'olio raccolto per "sfioritura" dal bacino di raccolta
della massa liquida, ottenuta dalla pressa.
Tutte le operazioni fino ad ora descritte erano basate sul lavoro manuale,
con il solo apporto di lavoro animale, oppure di energia idraulica (18),
per quanto riguarda la rotazione delle pesantissime macine, che erano
appunto dei macigni. L'arrivo dell'energia elettrica ha naturalmente
rivoluzionato le cose anche nel frantoio, ammodernando le fasi
fondamentali di lavorazione che sono rimaste le stesse: frangitura (o
molitura), pressatura e separazione.
18 - In un
trappeto, posseduto da mia madre ultracentenaria, di recente scomparsa,
e di proprietà dei Camodeca de' Coroney di Castroregio (Cosenza), nobile
famiglia albanese, proprietaria, in contrada "Frangile", di un uliveto
con oltre 2000 piante, il torchio era mosso da una macchina a vapore
ricavata da una locomotiva ed adattata all'impianto.
Le nuove macine di
granito, normalmente in montaggio multiplo di due o tre elementi,
ruotano entro un bacino di acciaio e possono smaltire fino a io quintali
di drupe l'ora. Tramite paratoia, si preleva dal bacino la pasta
olearia, che viene disposta, tramite un dosatore, in strati sovrapposti
fra diaframmi filtranti (fiscoli) e dischi di acciaio, fino a formare
una torre alta circa un metro e mezzo poggiata su di un carrello. La
torre viene applicata ad una super pressa idraulica, la quale porta in
pochi minuti i circa due quintali di pasta olearia a 400 atmosfere. Il
risultato della spremitura passa poi ad una macchina centrifuga che ha
brillantemente superato l'antica separazione per gravità, erogando, in
modo rapido e sicuro, un ottimo olio di prima scelta, che non ha nulla
da invidiare al vecchio "fiore". Si tratta del ben noto "olio extra
vergine" di oliva.
b) FRANTOI
MODERNI
Abbiamo con ciò per sommi capi descritto un moderno frantoio di tipo
tradizionale. Solo sommariamente, perché bisognerebbe accennare al
preventivo lavaggio e alla ventilazione delle drupe, come, del resto,
occorrerebbe parlare della gramolatura, che è un'importante fase
intermedia, fra la macchina e la pressa, in cui la pasta olearia viene
amalgamata ed omogeneizzata da una sorta di impastatrice, allo scopo di
liberare l'olio, eliminando l'emulsione acqua — olio.
c) RESA IN OLIO
Occorre, infine, fare cenno alla resa in olio delle olive conferite
all'impianto: fatte le dovute distinzioni, per la qualità delle olive,
il terreno di provenienza e lo stato di maturazione, possiamo
considerare una resa media che è dell'ordine dei 20 Kg di olio per 100
Kg di olive. Sono frequenti le basse rese del 12%, come possiamo
registrare delle ottime rese che raggiungono il 25%.
F) QUALITÀ,
CONTENUTI E DENOMINAZIONI
a) QUALITA'
Per definire il concetto base di qualità dell'olio d'oliva, dobbiamo
rifarei alla chimica e alla biochimica.
Passeremo brevemente in rassegna le varie classificazioni merceologiche,
con l'intento di dare un contributo di chiarezza, sia a vantaggio dei
consumatori che dei produttori di questo prodotto.
Allo stato attuale della conoscenza e della normativa, possiamo affermare
che l'olio d'oliva è una nobile fonte di grassi pregiati che
arricchiscono e valorizzano la nostra dieta, e ciò è dovuto alla
presenza in esso di uno
straordinario equilibrio naturale fra acidi grassi, che da soli
potrebbero soddisfare il fabbisogno umano, con le seguenti proporzioni:
- monoinsaturi: 80%
- polinsaturi: 10%
- saturi: 10%
Ai grassi si accompagnano inoltre vitamine antiossidanti, fitoestrogeni,
che ne esaltano le proprietà dietetiche e salutari, nonché aromi e
fragranze, che lo rendono estremamente gradevole al gusto e all'olfatto.
Va inoltre sottolineata la stabilità nel tempo dei componenti dell'olio
d'oliva. Possiamo dunque dedurre che una equilibrata e peculiare
composizione chimica, connessa con le proprietà dietetiche, la
gradevolezza del gusto e la fragranza dell'aroma, determinano la "qualità
dell'olio d'oliva".
Occorre tuttavia precisare che alla qualità dell'olio contribuiscono
diversi fattori che non si limitano alla tipologia dell'ulivo, alla zona
di coltivazione, allo stato di maturazione e conservazione delle drupe,
ma comprendono tutte le operazioni che si svolgono a partire dall'albero
fino al frantoio, ivi inclusa la raccolta, la manipolazione ed il
trasporto, la molitura e l'estrazione finale.
Ognuna di queste fasi contribuisce alla qualità del prodotto finito.
b) CONTENUTI
Per definire i contenuti presenti nell'olio d'oliva bisogna far
riferimento alle normative emanate di recente.
Molti sono i tipi di olio, tutti definibili come olio d'oliva, ma
profondamente diversi l'uno dall'altro.
Per il consumatore mediamente informato, si tende ad identificare come
unico e vero olio extra vergine d'oliva, il prodotto estratto dalla
pasta olearia, con puro trattamento meccanico (separatore, oppure
pressa, sedimentazione e centrifuga), con grado di acidità inferiore al
limite massimo di 1%, senza alcun processo termico o chimico, e senza
l'aggiunta di sostanze che siano estranee alle drupe d'oliva. Questa
definizione, sia pure generica, non è lontana dalla classificazione
ufficiale, ma la conoscenza media del consumatore (e quindi
l'informazione diffusa) rimane ancora piuttosto carente.
Quanto alla difesa del consumatore, pensiamo sia utile dare qualche
ulteriore notizia sulle falsificazioni accennate sopra, confermando la
deplorevole presenza di fraudolente sofisticazioni del prodotto, che
potrebbero ancora sfuggire ai severi controlli che pure esistono e sono
efficaci. Possiamo citare le falsificazioni, che potremmo definire "poco
dannose"e che consistono nella miscelazione di vari oli vegetali,
riducendo drasticamente il costo all'origine di un prodotto che viene
ingannevolmente posto in commercio come olio d'oliva. Della stessa
natura sono le manipolazioni per simulare un olio fresco e genuino,
partendo da un olio d'oliva "lampante" (con acidità che va oltre il 3%)
oppure da un olio rancido, sottoponendo i prodotti di partenza a severi
riscaldamenti, al fine di saponificare e separare le parti indesiderate,
oppure ricorrendo alla distillazione sotto vuoto. Seguono poi le vere e
proprie adulterazioni, che, oltre alla frode commerciale, investono
l'area del crimine penale vero e proprio, ponendo in commercio dei
prodotti dannosi alla salute. Siamo nei deplorevoli casi di
esterificazione di grassi animali, colorazione con clorofilla,
insaporendo con betacarotene.
Le frodi e le adulterazioni sono naturalmente proibite dalla legge e solo
una vigilanza costante può fornire un'adeguata protezione del
consumatore. Dal momento che la qualità del prodotto finale dipende
anche dal tipo e dalla qualità delle olive di partenza, sarebbe molto
opportuno caratterizzare l'olio d'oliva specificando il luogo di
coltivazione dell'ulivo e della raccolta delle drupe, e non la località
del confezionamento del prodotto finale, come normalmente si legge sulle
bottiglie al consumo.
c) DENOMINAZIONI
Per quanto riguarda le denominazioni dell'olio d'oliva è stato introdotto
il concetto di Denominazione di Origine Protetta (DOP) anche per l'olio
d'oliva ed abbiamo una normativa che fa riferimento a dei parametri, che
sono tecnicamente riscontrabili e misurabili.
A difesa della qualità possiamo oggi disporre di metodologie di analisi
chimica, per lo più legate a sofisticate tecniche strumentali, che
consentono di rilevare la reale composizione di un olio di oliva, gli
eventuali additivi, le miscelazioni, fino ad arrivare, con l'impiego di
particolari sperimentazioni, a determinare il
suolo e la zona di coltivazione degli ulivi dalle cui drupe è stato
prodotto l'olio in esame. Occorre infine notare che la normativa attuale
prevede anche la valutazione organolettica degli oli vergini di oliva
attraverso il "Panel Test". Tale valutazione conferisce un punteggio
organolettico che è correlato con il tipo di olio di oliva sottoposto al
test.
La disponibilità di sofisticate tecniche analitiche ha permesso di avere
un'esauriente conoscenza della composizione chimica dell'olio d'oliva e
di definirne le diverse caratteristiche ed i vari parametri chimici,
ponendoci in grado di classificare ed identificare le diverse frazioni
di cui è composto.
G)
CLASSIFICAZIONE MERCEOLOGICA
La normativa vigente
sull'olio d'oliva fa riferimento al Regolamento CEE N. 2568/91
(aggiornato di recente), il quale ha classificato le diverse tipologie
merceologiche dell'olio d'oliva e ne ha fissato i requisiti chimici per
il loro riconoscimento ed il loro controllo sul mercato.
In questo capitolo viene riportata la classificazione merceologica degli
oli di oliva in commercio, secondo quanto previsto dal suddetto
regolamento, specificando le definizione tecnica delle varie frazioni
con i limiti dei parametri chimici che le caratterizzano e ne permettono
il controllo sul mercato.
Una prima classificazione è basata sulla tecnica di produzione dell'olio
d'oliva; le due grandi categorie sono:
a) - oli prodotti per solo pressione meccanica: Oli Vergini
b) - oli prodotti per raffinazione chimica di frazioni derivanti dalla
spremitura: Oli Raffinati
A - GLI OLI
VERGINI
Nel passato gli oli ottenuti per sola spremitura meccanica erano gli unici
oli di oliva che venivano commercializzati e la loro qualità veniva
classificata sulla base della loro acidità. Tale parametro, per un olio
di sola spremitura, costituisce infatti un buon indice generale della
qualità.
Ad un basso grado di acidità solitamente si associano i parametri di
gusto, di odore e di trasparenza, mentre ad un alto grado di acidità i
parametri caratteristici risultano più scadenti, sia dal punto di vista
organolettico che della composizione chimica.
Attualmente i parametri di qualità degli oli di pressione sono molteplici
e si basano su diverse caratteristiche chimiche che si diversificano a
seconda del tipo e della qualità delle olive di partenza, del tipo di
processo adottato per la produzione e dei trattamenti subiti dalla pasta
olearia
Gli oli vergini sono
classificati come segue (19)
A1) - Olio d'oliva extra vergine
A2) - Olio d'oliva vergine
A3) - Olio d'oliva vergine corrente
A4) - Olio d'oliva vergine lampante
19 - Nel
passato si avevano cinque gradi di qualità per gli oli vergini: extra
vergine, sopraffino vergine, fino vergine, vergine, vergine lampante. I
primi quattro venivano commercializzati come oli commestibili, mentre il
quinto non veniva classificato commestibile ed era normalmente destinato
ad usi domestici poveri o per illuminazione (per le lampade, da cui
lampante), con una possibilità di commercializzazione sempre meno
rilevante.
A1 — L'olio
d'oliva extra vergine è un olio superiore, di alta qualità, che
viene prodotto da olive mature e integre, che ha un tasso di acidità
inferiore all' 1%, espresso come acido oleico. Viene confezionato per il
diretto consumo. L'olio extra vergine di oliva mantiene il suo naturale
sapore, il suo aroma e tutte le componenti chimiche altamente pregiate
dal punto di vista dietetico. Esso ha un aspetto viscoso con colorazione
gialla o verde scuro e presenta un punteggio organolettico maggiore di
6,5.
A2 — L'olio d'oliva vergine viene prodotto con gli stessi criteri
dell'extra vergine, ma i suoi parametri di qualità sono inferiori, sia
per la tipologia delle olive di partenza, che per le modalità di
raccolta e conservazione delle stesse. Il suo grado di acidità è
inferiore al 2%. Si tratta dunque di un prodotto meno pregiato
dell'extra vergine, ma che presenta ottime proprietà dietetiche. Esso
viene confezionato per il diretto consumo ed ha un punteggio
organolettico superiore a 5,5.
A3 — L'olio d'oliva vergine corrente viene prodotto analogamente ai
precedenti, utilizzando olive di qualità più scadente, in relazione
anche al trattamento subito. E' un prodotto commestibile di gusto buono,
ma con parametri di qualità più bassi dei precedenti, che non sono
considerati sufficienti a garantire il soddisfacimento del consumatore.
Presenta un tasso di acidità inferiore al 3% ed un punteggio
organolettico superiore a 3,5. Esso non è ammesso al confezionamento per
il diretto consumo, ma può essere commercializzato a livello industriale
per essere utilizzato per la miscelazione con altri oli, ivi compresi i
raffinati.
A4 — L'olio d'oliva vergine lampante viene prodotto con metodi
simili a quelli per il vergine corrente, ma presenta parametri di
qualità molto scadenti. Il tasso di acidità supera il 3,3%, ed il
punteggio organolettico è inferiore a 3,5. Esso non è commestibile, si
presenta solitamente torbido e maleodorante, di pessimo gusto. Viene
commercializzato come materia prima per la produzione di oli raffinati.
B - GLI OLI DI
RAFFINAZIONE
Gli oli di raffinazione si ottengono per trattamento chimico e fisico
delle frazioni meno pregiate del processo di spremitura. Essi si
classificano come segue:
B1 - oli da raffinazione di oli di oliva vergini non commestibili (oli di
oliva lampanti)
B2 - oli da raffinazione degli estratti dalla sansa
B1 - Oli da raffinazione di oli d'oliva vergine lampante
L'olio d'oliva vergine lampante viene trattato chimicamente, attraverso
processi di neutralizzazione dell'eccesso di acidità con soda caustica,
e mediante trattamenti fisici di riscaldamento con aria calda e
filtraggio su terre decoloranti e/o carbone attivo, con eventuali
processi di raffreddamento per la eliminazione delle frazioni più
pesanti (cere).
Si ottiene così un prodotto neutro, incolore, insapore ed inodore,
chiamato "olio d'oliva raffinato". Questo prodotto è commestibile, ma
non può essere confezionato per la vendita al consumo diretto in quanto
è considerato un prodotto semilavorato, quindi intermedio, che, per
essere commerciabile, deve essere miscelato con olio vergine, che gli
fornisce i parametri necessari a definirsi "olio d'oliva".
Attualmente questi oli d'oliva vengono fortemente pubblicizzati come "Oli
light", di cui si esaltano le caratteristiche di "neutralità" e di
"leggerezza", tacendo il fatto che in quest'olio "leggero" mancano tutti
i componenti più pregiati dell'olio d'oliva, perché perduti durante la
raffinazione.
B2 - Oli da
raffinazione di oli di sansa
La sansa è il residuo solido proveniente dalla spremitura delle olive; è
un materiale ancora ricco di olio, non ottenibile convenientemente per
ulteriore spremitura, anche se condotta ad alta temperatura.
Nel passato la sansa veniva utilizzata come combustibile o come
integratore dei mangimi per gli animali. Attualmente essa viene trattata
a caldo con opportuni solventi, che permettono di estrarne l'olio
residuo. L'estratto che ne risulta (solvente + olio) viene distillato
per separare il solvente e recuperare l'olio, che si definisce "olio
greggio di sansa". Questo prodotto viene poi purificato con le stesse
tecniche già descritte per l'olio vergine lampante, ma le
caratteristiche chimiche ed organolettiche che ne risultano sono
peggiori e costringono il produttore ad utilizzare trattamenti
tecnologici più drastici. In particolare dall'olio greggio di sansa
bisogna eliminare le cere, grassi ad alto peso molecolare con struttura
microcristallina, che intorbidirebbero stabilmente il prodotto
raffinato.
Si ottiene così il prodotto denominato "Olio di sansa raffinato", molto
simile all'olio "di oliva raffinato", anche se di caratteristiche
diverse. Il prodotto ottenuto con il processo appena descritto non è
destinato al consumo diretto, perché dichiarato non commerciabile. Se
miscelato con olio d'oliva vergine, esso diviene commerciabile con la
denominazione di "Olio di sansa di oliva".
I diversi tipi di olio d'oliva, che abbiamo appena elencati, sono
riportati nella tabella che segue, unitamente alle rispettive
caratteristiche ed ai parametri chimici previsti dalla normativa vigente
(Reg. CEE 2568/91), che si applicano ad ogni classe merceologica di
prodotti provenienti dal trattamento delle olive.
Lo stesso Regolamento CEE 2568/91 annovera fra le determinazioni
analitiche per la classificazione degli oli d'oliva vergini anche il
"Panel Test", cioè una valutazione organolettica fatta da un gruppo di
esperti (da 8 a 12 persone) selezionati ed addestrati a tale
valutazione. La valutazione del "Panel Test" viene espressa in punteggio
organolettico, il quale varia a seconda della tipologia merceologica
dell'olio da maggiore di 6,5 (per l'extra vergine) a minore di 3,5 (per
l'olio lampante).
SCHEMA
RIASSUNTIVO DEGLI OLI D'OLIVA COME PREVISTO DALLA NORMATIVA VIGENTE
1. Olio d'oliva extra vergine, Commestibile e Commercializzabile
direttamente
2. Olio d'oliva vergine, Commestibile e Commercializzabile direttamente
3. Olio d'oliva vergine corrente, Commestibile, non Commercializzabile in
confezione per il consumo
4. Olio d'oliva vergine lampante, non Commestibile, non Commercializzabile
in confezione per il consumo.
5. Olio d'oliva raffinato da olio lampante, Commestibile, non
Commercializzabile in confezione al consumo
6. Olio d'oliva (ottenuto da 3 + 5), Commestibile e Commercializzabile al
consumo
7. Olio di sansa di greggio, non Commestibile, non Commercializzabile in
confezione al consumo
8. Olio di sansa raffinato, Commestibile e non Commercializzabile in
confezione al consumo
9. Olio di sansa d'oliva (ottenuto da 3 + 8), Commestibile e
Commercializzabile in confezione al consumo.
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