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GIUSEPPE NICOLA MOLFESE |
“Ricordi”. Ho un paese a me caro, tanto caro, dal quale non sono fuggito. Era troppo stretto, ma largo di affetti, molti dei quali purtroppo scomparsi. Ci ritorno con la fantasia, con il ricordo. Adoro il mio paese, la mia casa, la mia masseria. G. Molfese A Carmen Timone Ancora Vela
Dove vuoi che cresca gioia devi seminare amore (G. N. Molfese). Il dialetto è la lingua che non si apprende, ma nasce con la persona; è un dono innato che ogni bambino impara con l’impiego di tutti i sensi. Con la parola, il bambino che vive in una determinata società dove si parla il dialetto, assorbe con tutto il corpo l’idioma, che poi porterà con sé per tutta la vita, e lo trasmette. Non solo con l’udito e con la vista si apprende il linguaggio, qualunque esso sia, ma anche con il tatto, il gusto e l’olfatto. Per il tatto, è significativa la parola in dialetto fridde, dove tutto il corpo, ma specialmente il volto della persona che pronuncia la parola è attraversato da brividi, reazione naturale ed immediata per contrastare questa sensazione-condizione. Lo stesso vale per il gusto, quando il bambino, dopo aver assaggiato un cibo che trova molto appetitoso, pronuncia le parole “Agge, quant’è sapurite!” e, nello stesso tempo, distende il suo apparato digerente ad accogliere le magnifiche sensazioni gustative che traspaiono inequivocabilmente dal volto. Altro senso interessato al dialetto è l’olfatto. Anche in questo, in presenza di un cattivo odore, la parola “Agge, che puzze!” chiude la via dei cattivi odori a penetrare nel corpo con l’esclusione dei sensi. Il dialetto nasce con la persona e l’accompagna per tutta la vita. Anche se la scuola, ci spinge, durante il corso di apprendimento, ad imparare a leggere e scrivere l’italiano, la nostra lingua ufficiale, in ogni manifestazione della vita, specie nel quotidiano, continua ad essere il dialetto. Le imprecazioni, le sensazioni di stupore e di gioia e tutte le altre manifestazioni naturali della vita, belle o brutte, vengono accompagnate da parole dialettali, che abbiamo assimilato nella nostra crescita e che all’occasione, poi, esterniamo. Nell’immediatezza è la parola dialettale che anticipa ed accompagna o segue un atto improvviso, qualunque esso sia, compiuto dall’uomo. L’utilizzo della lingua con espressioni corrette, apprese giustamente nella scuola, necessitano dell’impegno della mente ad elaborare il concetto e pronunciare l’espressione. Vi è qualche tempo di ritardo, anche se infinitesimale, tra l’evento e l’espressione gestuale o verbale che lo accompagna. Era naturale quindi che la scuola dell’obbligo insegnasse l’italiano, fin dall’unità, una lingua comune per tutti, in quanto l’uso dei differenti dialetti avrebbe reso difficile convivere nello stesso paese. Immaginate voi come una stessa parola d‘uso comune venga pronunciata nelle varie regioni. L’Italia sarebbe diventata una Babele dove sarebbe stato impossibile vivere. La lingua italiana, quindi, appresa da tutti i cittadini, ha permesso di avere una lingua ed un scrittura identica dalla val d’Aosta alla Sicilia. Nello stesso tempo il dialetto deve connotare ogni regione e deve essere mantenuto vivo in quanto patrimonio essenziale del territorio, degli usi e costumi. Ben vengano le canzoni dialettali che spingono, specie i giovani, a non trascurare l’uso del dialetto nei momenti gioiosi della vita. Il problema però della conservazione del dialetto è legato a numerose difficoltà che elenchiamo. La pronuncia in dialetto è difficile e solo se si sente numerose volte l’espressione si può sperare di imitare al meglio coloro che te la insegnano. Anche il disinteresse o la non voglia delle persone anziane a usare le parole dialettali fa sì che l’idioma si vada sempre più perdendo in ogni parte d’Italia. La scrittura del dialetto, opera di valenti glottologi, spesso aiuta gli studiosi a penetrare nel contesto delle parole ed imitare la pronuncia originale con l’uso di vocali messe al contrario, accenti e riferimenti a lingue ufficiali di come porre l’apparato vocale per emettere quel dato suono. Lo osserviamo spesso in televisione quando gli attori pronunciano una parola nel loro dialetto, con quanta facilità questa esce dalla bocca! Il problema del dialetto è anche legato al fatto che molte parole, non usate, diventano desuete, cioè scompaiono dal vocabolario. Questo è il motivo per cui, prima che l’oblio scenda sui nostri dialetti, persone capaci hanno il dovere di raccogliere singole parole, espressioni, frasi del dialetto del proprio paese, affinché venga conservata anche su carta la loro memoria, dal momento che le giovani generazioni preferiscono giustamente imparare il cinese piuttosto che avvicinarsi al dialetto della propria terra. Questo è il motivo che ha spinto l’autore, profondo conoscitore degli usi costumi e tradizioni popolari, a tentare di conservare in un vocabolario parole, espressioni e frasi che altrimenti andrebbero irrimediabilmente perdute. Malauguratamente una morte inaspettata non ha permesso allo scrittore di portare a compimento l’opera, faticosamente completata dal fratello Antonio, con la speranza di aver interpretato a pieno l’intento dell’autore, chiamato dai compaesani Don Geppino.
Introduzione
I dialetti delle varie regioni,
dall’unità ad oggi, hanno compiuto passi da gigante nonostante
all’inizio fossero visti come un ostacolo alla realizzazione di
un’Italia unita. La preoccupazione dei governanti era anche quella che
la frammentazione dialettale fosse di ostacolo all’unità linguistica del
Paese. La lingua comune si affermava più naturalmente anche in altri
modi imprevisti: non pensiamo tanto al servizio di leva obbligatorio,
che metteva a diretto contatto giovani con diverse esperienze
dialettali, che dovevano trovare un punto comune di inter comprensione
linguistica, quanto alla funzione assunta dal loro incontro durante il
periodo non breve della prima guerra mondiale, che avvicinò milioni di
Italiani, provenienti da ogni regione in un territorio per la
maggioranza estraneo. A rafforzare l’assoluto predominio della lingua
italiana concorse con la scuola la capillare diffusione delle
trasmissioni radiofoniche, che davano continui e ripetuti esempi di
lingua italiana a tutte le categorie sparse nell’intero territorio
nazionale. Durante il periodo fascista, nonostante una grande massa di
lavoratori fosse stata spostata nelle zone da bonificare (veneti e
friulani nelle paludi pontine), i dialetti furono ridimensionati, dal
momento che la lingua ufficiale era quella italiana, anche se nei vari
dialetti locali parole venete e friulane hanno avuto diritto di essere
assimilate. Un settore particolare di scritti sul dialetto fu quello dei
testi scolastici che, nei decenni postunitari fino agli anni Venti,
furono compilati come sostegno all’insegnamento della lingua, secondo le
prospettive di volta in volta indicate nei programmi ministeriali. I
dizionari dialettali di uso didattico, che si diffusero tra la fine
dell’ottocento ed inizio del Novecento, avevano naturalmente lo scopo di
favorire negli alunni il passaggio dal lessico dialettale a quello
italiano: ci si proponeva di imporre ai discenti le nuove parole
italiane cercando di sradicare dalla mente dell’alunno ogni ricordo del
parlare materno. Dopo la seconda guerra mondiale, che ripete il
rimescolamento dei dialetti della prima guerra, altri imponenti
movimenti di massa contribuirono a mettere in contatto larghe fasce di
popolazioni di parlate diverse: durante il boom economico milioni di
lavoratori delle zone depresse (meridionali, soprattutto, ma anche dalle
Tre Venezie) si trasferirono nel cosiddetto triangolo industriale tra
Torino, Milano e Genova, spesso insediandosi definitivamente in aree
d’altra lingua. I nuovi venuti e la gente del luogo furono costretti a
trovare una comune intesa linguistica, che non poteva essere che
nell’italiano, approssimativo e incerto fin che si vuole, ma destinato a
correggersi nelle successive generazioni, superando definitivamente
l’esperienza delle barriere dialettali sperimentate dai padri. Anche gli
stessi emigranti, quando si recavano all’estero, parlavano un linguaggio
,“la parlesia” ,una specie di esperanto usato dai magliari e dagli
orchestrali della” bassa Italia”. La parlesia era un gergo basato in
gran parte su vocaboli napoletani variamente costruiti e pronunciati, su
cui sarebbe interessante fare uno studio approfondito. Inoltre, il
successo generale di un altro straordinario strumento di comunicazione,
quale la televisione, favoriva l’accesso alla lingua comune, tanto che,
a distanza di poco più di un secolo, quel famoso 10% di italofoni
arrivava alla soglia almeno del 25% (Doxa’79). Altre analoghe
statistiche dislocate nei due decenni successivi confermano la tendenza
di un graduale regresso dei dialetti di fronte all’italiano, sia pure
con un ritmo più rallentato di quello che ci si aspettava. Alle soglie
del terzo millennio constatiamo ancora una forte vitalità del dialetto,
specialmente in certe aree della Penisola, ma è indubbio che
l’espandersi inarrestabile dell’italiano parlato stà insidiando la
resistenza dialettale, preparando l’affermazione di un tipo di italiano
locale, contraddistinto da caratteristiche regionali, maggiormente
evidenti nell’intonazione e nell’uso di lemmi particolari. Questo lento
tramonto del dialetto sembra contrastare però col successo che riscuote
la poesia dialettale, ma soprattutto la canzone dialettale, nonché i
“dizionari” come quello che presentiamo. Come non si possono spegnere le
tradizioni e i costumi che hanno radici millenarie, così non è possibile
estirpare l’uso del dialetto, - quello santarcangiolese chiamato
sciascione -,(sciascione/a erano chiamati il fratello o la sorella)
perché il popolo non può, d’un tratto, cessare di esprimere se stesso.
Inoltre, il dialetto deve essere considerato come la radice della lingua
alla cui vita è necessario, perché solo attingendo direttamente dal
popolo, la lingua si può rinnovare con parole vive e può anche
arricchirsi senza imbarbarirsi, avendo, in fondo, la stessa natura della
fonte a cui attinge. La scienza dialettologica ha accumulato negli
ultimi decenni un numero così elevato di studi e ricerche da rendere
necessaria una elaborazione dei risultati raggiunti, che esperti del
settore vorranno compiere. Se il numero dei vocabolari dialettali, opera
sia di appassionati dilettanti sia di esperti del settore, e degli
atlanti linguistici, elaborati con nuove tecniche sofisticate, è
notevolmente aumentato, ottime monografie di scuole differenti hanno
completato il quadro illustrando debitamente situazioni dialettali
particolari. Dialetti di piccoli territori sono ampiamente descritti e
divulgati, mentre ad altri molto più importanti è stato riservato uno
spazio in proporzione modesto; il criterio comunque prescelto è stato
quello di allargare le conoscenze di situazioni finora trascurate,
privilegiando le regioni dialettologicamente poco note e meritevoli di
approfondimenti nei confronti di altre più conosciute. I profili
dialettali regionali della Basilicata hanno affrontato problemi
metodologici e pratici della ricerca dialettale, e si sono soffermati
proprio sui complessi rapporti che i dialetti hanno intessuto con la
vita culturale, in senso esteso con l’intero Paese. Il lavoro che
presentiamo vuole essere un contributo determinante a che il dialetto di
Sant’ Arcangelo possa, come hanno fatto già altri autori, continuare ad
esistere almeno sulla carta, dato che la giovane generazione, per
mancanza di stimoli da parte anche degli anziani, è propensa ad usare
terminologie straniere piuttosto che il termine dialettale che in una
sola parola alcune volte racchiude concetti ponderosi. Spesso capita a
noi anziani di usare qualche espressione dialettale che, dal momento che
non viene capita, suscita uno sguardo nel giovane che ascolta che
vorrebbe dire: “che lingua parla questo straniero?”.
Antonio Molfese * * *
Nel dare alle stampe il presente volume
è doveroso citare la persona che più di ogni altra è stata partecipe
della sua realizzazione: la dottoressa Carmen Coco moglie dell’avvocato
Molfese che ha aiutato a raccogliere i primi vocaboli, le prime parole,
i detti e a trascriverli, così da rendere corposa questa raccolta di
parole dialettali e di detti santarcangiolesi. La figlia dell’Autore,
l’Avv. Alessandra Molfese, ha rivisto i testi e le numerose note. Tante
persone del popolo hanno aiutato l’Autore a ricordare, ricostruire e a
riportare la parola dialettale al suo giusto significato: Carmene a
monache, Maragarite a celestre, Resarie a vitarelle, Maria a
sciumentare, ’Ndreie curletane, Luigi u sitonne, e tanti altri
sconosciuti dei quali è difficile indicare il nome, a causa della
perdita prematura ed inaspettata dell’ Autore. Comunque, questo insieme
di parole dialettali, di motti ed anche qualche proverbio farà sì che
passeranno molti anni fino a quando l’espressione dialettale sarà
interamente sostituita dal “parlare civile”, come era chiamato
l’italiano. Quante volte da bambini al nostro discorso in dialetto
eravamo sollecitati dai nostri genitori e dalle persone più grandi a
parlare “allu civile”. Sono ricordi che sbiadiscono!
PD Dr. habil. Rainer Bigalke, M.A. Terminologia dialettale
Nella trascrizione dei termini
dialettali si è cercato di far uso di simboli fonetici o segni
diacritici soltanto nei casi in cui un suono non poteva essere reso con
i normali mezzi ortografici della lingua italiana standard. Le
convenzioni adoperate in tali casi sono le seguenti: - Con il simbolo ∂
rappresentiamo il suono di e indistinta, articolata molto debolmente
(quel suono che i grammatici francesi chiamano “e muet”); il valore di
questo suono può andare dalla vocale debole (come nel francese brebis,
croire, ils demandent) fino alla perdita completa. Tale simbolo sarà
usato con particolare frequenza in fine di parola poiché, nel dialetto
di Sant’Arcangelo, come nella maggior parte dei dialetti meridionali, le
vocali finali di parola non sono pronunciate con chiarezza, ma si
riducono ad un suono molto fugace ed indistinto, che spesso si
percepisce appena. - j rappresenta la i consonantica (come in ieri,
aiuola); questo simbolo, quando si trova in finale assoluta di parola,
come in mij, o anche seguito da un’altra vocale, come in mijә, sta ad
indicare un suono simile a quello della cosidetta “l mouille” francese,
in parole quali fille, feuiton. - Con la sequenza di lettere gghi si
cerca di rendere quel suono (palatale) proprio del siciliano figgiu, e
presente anche nel toscano volgare, es.: fogghia per foglia. - Quando un
inizio di parola, e più raramente all’interno, si trovano scritte due
consonanti uguali, si intende che la consonante in questione ha una
pronuncia più intensa, più forte, come se si trattasse appunto di una
consonante doppia. - In alcune parole in cui compare la sequenza scu,
sca, la s rappresenta il suono che la grafia italiana rende con sc, come
in scena. In tal casi si adotta la grafia sc ad indicare solo la s, di
conseguenza l’intero gruppo italiano scu-sca sarà trascritto sc-ca,
sc-cu es: scuppetta = sc-cuppetta. - Moltissimi vocaboli presentano
l’elisione del suono iniziale, sia esso vocalico o consonantico; tale
elisione è stata resa naturalmente con un apostrofo premesso al vocabolo
stesso. Frequentemente soggetti a tale elisione sono gli articoli
determinativi singolari lo, lu, la, che quindi rendiamo con ‘o,’u, ‘a,
come pure i pronomi accusativi singolari, (lo vedo, la vedo) che
talvolta suonano appunto lu, lo, la, a volte ‘o, ‘u, ‘a, esattamente
come gli articoli. Tuttavia per facilitare la lettura e la comprensione
del testo, abbiamo preferito trascrivere i pronomi ‘o, ‘u, ‘a senza
apostrofo cioè o, u, a, così che si possa immediatamente distinguerli
dagli articoli omofoni. L’articolo determinativo plurale suona quasi
sempre o, sia per il maschile, sia per il femminile, sebbene non sia
raro trovare a in questo ultimo caso. Quando invece si troverà una a e,
meno frequentemente, una e senza apostrofo e seguite immediatamente da
un verbo all’infinito, tali a, e stanno a rappresentare voci del verbo
dovere, o avere da. Anche nel dialetto di Sant’Arcangelo, come in altri
dialetti meridionali, è frequente l’occorrenza di una a, che non ha
alcun valore funzionale, tra il verbo ed il suo complemento oggetto
(aggә vistә a Maria = ho visto Maria). Sempre a proposito
dell’apostrofo, le sequenze ‘nu, ‘na, ‘no stanno ovviamente per uno,
una, mentre nu, na, no senza apostrofo sono delle varianti dei pronomi
accusativi singolari; il pronome accusativo plurale femminile e maschile
(li vedo, le vedo) e per lo più reso con o, come per l’articolo
determinativo plurale; ma talvolta anche con li o con la. Quest’ultima
forma funge anche da pronome dativo singolare e plurale maschile e
femminile, (a lui, a lei, a loro), cosicché ad es.: lә venә ‘n ‘mmendә
potrebbe significare: le viene in mente, o gli viene in mente, oppure
viene in mente a loro. - Con la sequenza ngi rappresentiamo una forma
rafforzata del pronome ci (ci vado, ci sono), quindi la sequenza ng’e
non sarà altro che l’italiano standard: c’e. - La terza persona del
verbo essere suona quasi costantemente jè,, raramente è, o ghiè. -
L’imperfetto dei verbi ha spesso una terminazione in auә, o aguә:
truvauә (la 2a, 3a persona singolare), truvauәnә, truvaguәnә (3a plurale
= trovavano). - Le terminazioni dell’infinito: are - ere - ire
dell’italiano standard vengono spesso elise: in tal caso l’accento cade
sull’ultima sillaba del verbo: noi segnaleremo ovviamente anche queste
elisioni con un apostrofo, tralasciando tuttavia di segnare l’accento:
truva’ significherà dunque trovare e sarà accentato sulla a. - I gruppi
ndo, ndu, nda esprimono, nel, nello, nella.
ISBN 978-88-99520-34-2 Zaccara Editore - Lagonegro © Copyright febbraio 2017
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