Pasquale Totaro-Ziella

 

 

Gatta MIRASCKA
da un cunto di zio Francesco

 

 

Una volta c’era una signora che aveva una bella gatta chiamata Mirascka e la teneva tanto custodita, c’era tanto affezionata e la teneva tanto cara, ma tanto cara che era più cara della vista degli occhi.

Gatta Mirascka era una bella Gatta, bella tonda tonda, bella piena piena, bella cresciuta e bella pasciuta. Era tanto bella, Gatta Mirascka, che le luceva il pelo. Gatta Mirascka aveva la coda lunga lunga ch’addrizzava e alzava quando la signora l’accarezzava. Mirascka camminava con la testa alta, nella casa, più di una reginella. Aveva due baffi che se ne volava, se li lisciava e se li lisciava nell’inverno al focolare quando doveva cambiare il tempo, al fuoco, nella cenere, nelle vampelere del fuoco, la mattina quando doveva piovere.

La signora teneva gatta Mirascka bella, pulita, non le faceva mancare niente, e le voleva tanto bene, tanto ma tanto bene.

La signora se ne andava di capo per gatta Mirascka.

Gatta Mirascka era la passione, era tutto il bene della signora.

La signora e gatta Mirascka andavano sempre unite, stavano sempre unite, una nell’altra; dove andava l’una andava l’altra, che faceva l’una faceva l’altra; non si muoveva l’una se non si muoveva l’altra.

Gatta Mirascka e la signora stavano sempre insieme, una nell’altra: s’alzavano insieme, insieme mangiavano, andavano a dormire insieme, insieme erano contente, camminavano insieme.

La signora e gatta Mirascka vedevano con gli stessi occhi, con lo stesso respiro respiravano, camminavano con le stesse gambe, parlavano con la stessa voce.

La signora padrona aveva pure una serva che si chiamava Carmela.

Carmela voleva tanto bene alla signora e faceva tutto quello che piaceva alla signora. Carmela stava sempre ai comandi della signora, pendeva dalle labbra della signora, sentiva solo le parole della signora, la capiva al moto delle labbra, non era necessario che la signora parlasse.

La signora l’aveva allevata, l’aveva fatta mangiare, l’aveva cresciuta, l’aveva vestita e perciò Carmela era tanto legata alla signora. Quando la signora teneva il mal di capo, pure Carmela si teneva il capo; quando la signora piangeva, pure Carmela aveva le lacrime agli occhi; quando la signora era scontenta, pure Carmela era scontenta. Quando la signora doveva sfogarsi, si sfogava con Carmela; quando la signora doveva rimproverare, sgridava Carmela; quando la signora doveva comandare, comandava Carmela.

La serva Carmela era tanto affezionata alla signora, Carmela voleva tanto bene alla signora, ma tanto bene che per lei si sarebbe buttata nel fuoco senza pensarci.

La serva Carmela era gli occhi della signora, tutto quello che vedeva la signora vedeva Carmela. Carmela era le mani della signora, tutto quello che faceva la signora lo faceva Carmela. Carmela era l’orecchio della signora, tutto quello che sentiva Carmela lo sentiva la signora. Carmela era la bocca della signora, tutto quello che diceva la signora lo ripeteva Carmela.

Ha detto una mattina, una mattina di domenica, la signora alla serva Carmela. «Carmela! Oggi è domenica. E’ festa. E’ festa e dobbiamo preparare una bella cosa al padrone che si deve leccare i baffi.

Vai alla macelleria e vai a prendere un poco di carne.

Fattela dare buona. Che la dobbiamo far trovare al padrone quando viene a mangiare. Gli dobbiamo fare proprio una sorpresa, una bella sorpresa.

E mi raccomando, fattela dare tenera la carne e guarda il peso; guarda bene il peso! Il peso guardalo bene!»

«Sì, signora padrona! Sì, signora padrona! Come vuole signoria, signora padrona! Mò, mi aggiusto un poco i capelli, mi tolgo il mantesino e vado; quando me lo levo, mi aggiusto la capa un momento e vado.»

Ha risposto la serva Carmela contenta del servizio che doveva fare alla signora e ha lasciato quello che stava facendo, quello che stava sbrigando.

Si è tolto il mantesino Carmela, si è aggiustati i capelli ed è uscita per andare a comperare la carne alla macelleria.

E subito Carmela è uscita fuori ed è andata alla macelleria a comprare la carne.

Carmela ha comprato la carne dal macellaio, un bel fagotto di carne, un bel cartone di carne, ed è tornata a casa, dalla signora.

Si è ritirata a casa la serva Carmela con la carne, l’ha fatta vedere alla signora che è rimasta contenta.

Po' Carmela, la serva, ha preso due manatine di ramagliette di sarmenti secchi e di frasche, ha spezzato due ramaglie di fico secche e ha preso due pezzi di legna di quercia; così, li ha inciarmati, li ha ammussati nel focolare.

Po’, Carmela ha levato i carboni da sotto la cenere. I carboni sotto la cenere l’aveva messi la sera, prima di andare a dormire.

Carmela ha attizzato i carboni con l’addumafuoco. Ha addumato, ha fatto il fuoco. Ha fatto il fuoco.

Un fuoco grande grande che le vampelere andavano per l’aria e scintillavano nel nero della ciminiera del focolare.

E ha fatto fare la brace, per arrostire la carne, Carmela, tanta tanta brace che scintillava; una brace ardente e viva viva che crepitava nella ciminiera del camino.

Po’ Carmela ha preso e ha steso larga larga la brace, bella bella, e, con la brace stesa bene bene, ha preso la carne, l’ha girata e voltata, e l’ha salata.

Po’ Carmela ha preso la gratiglia, ha apparecchiato la gratiglia e ha messo la carne, bella bella, sulla gratiglia. Ha riempito la gratiglia, ha fatto la gratiglia piena piena, con bei pezzi di carne, con bei bocconi, tutti polpa e niente ossa.

Sulla carne la serva Carmela ha messo l’odore dell’olio, dell’aglio; il pepe; ha spruzzato con un mazzetto di origano due gocce di aceto e olio e ha messo la gratiglia sulla brace.

Carmela ha messo tutto come piaceva alla signora e al padrone, come sapeva che piaceva

al padrone e alla signora. Ha fatto tutto come piaceva a loro.

Era contenta Carmela, si apriva il cuore quando spandeva la carne sulla gratiglia, si sentiva il cuore allegro, il cuore se ne cadeva dal petto e Carmela rideva sola sola, sola sola rideva intratanto che metteva la gratiglia sulla brace.

Intratanto che arrostiva la carne, la signora ha smesso di fare i servizi, s’è affacciata sulla porta della camera e ha chiamato la serva.

«Carmela! Carmela! Vieni qua! Vieni un’altra volta qua!

Che devi andare a un’altra parte!»

E l’ha comandata.

«Vai alla cantina e vai a prendere una forma di cacio, che lo dobbiamo grattare e mettere sui maccheroni.

Oggi è festa, è domenica, e dobbiamo cuocere proprio i maccheroni degli zili, che piacciono tanto al padrone, con tanto cacio sopra e tanto cacio che deve essere la sua contentezza, la contentezza del padrone.

Il formaggio ci vuole! Ci vuole il formaggio! Il padrone ne mette tre o quattro pugni alla volta, tre o quattro lettiere alla volta.

Il cacio lo fa a lettiera! A lettiera lo fa!

Quando mangia il padrone, è più il formaggio che i maccheroni.»

La signora, dopo che ha comandato la serva Carmela, va in camera a fare le sue faccende, a fare i suoi servizi; come piaceva a lei. Carmela si lava le mani, si asciuga le mani, si toglie il mantesino, prende la chiave sopra il focolare, e s’avvia alla cantina.

La serva va alla cantina a prendere la pezza di formaggio.

La carne l’hanno lasciata sola sulla gratiglia e la gratiglia è nel focolare.

La carne arrostisce sulla gratiglia, sulla brace. La serva Carmela arriva alla cantina, infila la chiave nel buco della porta, gira la chiave tre o quattro volte e apre.

Nella cantina c’era tutto il bene di Dio: botte e barili, botticelle e barilotti, a destra e a sinistra; c erano spase di mele cotogne sui ripiani, carrozze di pomodorelli appesi, mazzi di granate, sette di peperoni e di diavolicchi, meloni invernali nella paglia, vesciche di sugna e di mozziconi di salsicce, verghe di soppressate e di salsicce, mazzi d’alloro e di origano e, in fondo in fondo, una rastrelliera, appesa al cielo della grotta, piena di formaggi, di provoloni e di caciocavalli.

La serva Carmela, con la luce del giorno, va in fondo alla cantina, prende una scala e si allunga sulla rastrelliera e con le dita tasta, sente con il naso, l’odora, le pezze di formaggio e sceglie quella fatta, quella matura.

Gli odori andavano ai celesti e Carmela si ricreava, già pensava alle parole del padrone, alla contentezza del padrone, alla soddisfazione del padrone.

Carmela scende dalla scala, pulisce la forma di cacio con uno straccio, asciuga l’unto, toglie la polvere attorno attorno, pulisce, bene bene, la forma e l’odora di nuovo.

L’odore del cacio è ancora più forte, è più forte ancora, e Carmela chiude gli occhi.

Carmela pensa alle parole della signora, vede già gli occhi contenti della signora ed ~ contenta. Con la pezza passa e ripassa il formaggio, lo gira e lo volta, Io rigira e lo rivolta e lo torna a passare e lo torna a girare sino a quando la forma è pulita pulita, bianca bianca, che si vedono i segni della ginestra, della fiscella.

E la serva Carmela è contenta e con contentezza pulisce il formaggio per il padrone intratanto sente l’odore a ogni passata.

Intramentre che la signora era nella camera e la serva Carmela era nella cantina, è entrata gatta Mirascka nella casa.

Entrando la gatta ha sentito subito l’odore della carne, ha visto subito il fumo e l’odore della carne che veniva dal focolare ed è andata al focolare.

Intratanto che andava al focolare, Gatta Mirascka si girava e si voltava, si girava e si voltava, un occhio alla porta della casa, un occhio alla porta della camera, una volta sentiva la via, una volta sentiva la camera. Non vedeva nemmeno l’angelo del purgatorio, del pregatorio; non sentiva nessuno, nemmeno un rumore, nemmeno un respiro.

Gatta Mirascka ha chiamato, gatta Mirascka ha richiamato e non rispondeva nessuno e si è avviata al focolare, volpigna volpigna.

Gatta Mirascka aveva fame; quell’odore aveva fatto venire fame a gatta Mirascka che si scarminava l’anima, l’anima si faceva a poco a poco.

Gatta Mirascka andava leggera leggera, zitta zitta; inarcava la schiena per essere più leggera; non voleva far sentire neanche il fiato, tanto andava silenziosa e tanto andava leggera.

Quando ha visto sulla gratiglia quei bei bocconi di carne, la canna di gatta Mirascka faceva il saliscendi, saliva e scendeva, scendeva e saliva; le gambe s’affrettavano; il naso s’arricciava; il collo s’allungava; i baffi s’attesavano; la bocca si spalancava e si lamentava; la lingua andava da una parte all’altra della bocca, da una parte all’altra a pulire le labbra, come se avesse già mangiato.

E’ arrivata al focolare gatta Mirascka, sopra la gratiglia, catatruppete e catatrappete, catatruppete catatrappete, così così, catatruppete catatrappete, catatruppete catatrappete, e, per farla breve, la carne, l’ha mangiata in un boccone, tutta quanta in un boccone, in un boccone solo, l’ha ingoiata sana sana.

Pure se la carne scottava, gatta Mirascka l’ha mangiata lo stesso; l’ha presa in quei denti e in quelle brancelle e l’ha straziata, l’ha fatta lenza lenza.

Gatta Mirascka l’ha tirata dalla gratigha con la brancella, l’ha fatta cadere nella cenere e l’ha mangiata in un boccone, in un solo boccone e, po’, s’è avviata alla porta.

Intramentre che usciva, la carne saliva e scendeva nella canna di gatta Mirascka. Gatta Mirascka allungava la testa, chiudeva gli occhi e stendeva le brancelle, allargava le dita e cacciava le unghie per fare scendere i bocconi di carne, per ingoiare la carne.

Dal focolare alla porta, gatta Mirascka si tricava alle gambe delle sedie e del tavolo, andava rasente rasente il muro e ripa ripa la cascia per alleggerire la carne e per poter entrare nel buco della porta.

Quando è arrivata al buco della porta, gatta Mirascka ha infilato le brancelle, ha infilato la testa e con la pancia è passata appena appena, a malapena, è andata stretta stretta, s’è risentita nella pancia, ma è passata. con sforzo, ma è passata.

E se n’è uscita dalla casa della signora, gatta Mirascka, sazia sazia, leccandosi i baffi, come se non era successo niente, e s’è andata a mettere a una spara di sole a dormire, s’è andata a stendere sulle chianche calde di uno stalluccio.

Gatta Mirascka s’era saziata e se ne usciva liffandosi i baffi e leccandosi le labbra, leccandosi le labbra e liffandosi i baffi.

Quando è uscita la signora dalla camera, è andata per vedere al focolare e non ha trovato niente, non ha trovato la carne sulla gratiglia. La gratiglia era vacante.

La signora sentiva l’odore, ma la carne non c’era; vedeva la gratiglia sulla brace pulita pulita, ma la carne non c’era.

La signora c’è rimasta malamente; è diventata, una volta, bianca bianca; è imbiancata; un altro poco e si torcevano gli occhi; ha ingoiato vacante.

C’era rimasto solo l’odore e il fumo nella focagna, c’era l’odore, il fumo e la gratiglia, ma niente arrosto, dell’arrosto solo il fumo, dell’arrosto nemmeno l’ombra.

La signora vedeva la cenere tutta rivoltata nel focolare, vedeva tutta la cenere sparpagliata, ma la carne non c’era.

Allora la signora si è urtata, si è alterata, è diventata rossa, è fatta una brace, si è infuriata. L’è preso come una specie di fuoco, un vampore, un focore. S’è tutta arrossicata la signora e teneva le labbra asciutte e la bocca amara.

Po’ la signora si è ripresa e ha pensato, ha sospettato che la carne l’avesse mangiata, l’avesse presa la serva e s’era preparata già a rimproverarla e a bastonarla, a gettarla in mezzo alla via con l’ombelico all’aria, a cacciarla dalla casa come l’aveva fatta la madre.

La signora non ci ha visto più e ha chiamato. Ha chiamato la serva «Carmela!... Carmela!... Carmela!» con tutto il fiato che poteva.

La signora s’è spolmonata a chiamare la serva Carmela, che era nella cantina e non sentiva.

La serva Carmela, sentita la voce alterata della signora, sentito il richiamo, è corsa come il lampo dalla cantina, tutta indaffarata, spaventata, tutta affannata, con il sopraffiato.

«Che c’è? Ch’è successo? Signora padrona, ch‘è successo? Ch‘è successo, signora mia!»

«La carne! Dove l’hai messa? Dove hai messo la carne? La carne dove l’hai messa? La carne non c’è più! La graliglia è vacante e la carne non c’è! Dove hai messo la carne? Che n’hai fatto della carne?»

Ha gridato la signora tutta urtata e avvelenata, rossa rossa in faccia.

La signora si mangiava le mani per la rabbia. La signora pensava che doveva dire al marito a mezzogiorno quando tornava a casa a mangiare.

Carmela, con gli occhi fuori per lo spavento e le braccia larghe con la pezza del formaggio, è rimasta senza parola, muta alle parole della signora, stupefatta.

Era una bella pezza di formaggio; bella, tonda tonda; era bella, grande grande; era bella, piena piena; bella curata.

Per l’odore la pezza del formaggio se ne volava, se ne volava per l’odore. Il formaggio aveva riempito la casa di odore. La casa era già tutta un odore di formaggio.

Po’, la serva Carmela si è ripresa, ha preso coraggio e ha risposto.

«E signora padrona! E signora padrona! Era sopra la gratiglia! Sopra la graliglia era! Era sopra la gratiglia!»

Diceva intratanto che prendeva fiato e andava a vedere, a sincerarsi al focolare.

La carne non c’era veramente sulla gratiglia. La gratiglia era vacante e la carne era sparita. Carmela, quando ha visto la gratiglia vacante, si voleva dare animo, s’è data animo e ha detto.

«Signorìa m’ha comandata e sono andata alla cantina come il lampo.

Signorìa m’ha comandata e sono andata alla cantina a prendere il formaggio. Signorìa m‘ha comandata e sono andata alla cantina.

Po’ non so più niente, non ho visto più niente, non ho sentito più niente.

Io sono andata a prendere il fòrmaggio sotto, in cantina, e voi mi avete chiamato.» La serva Carmela ingoiava a stento la saliva e parlava a stento. Era incitrinita, era fatta bianca bianca per lo spavento, per la paura. «Vossignorìa è andata nella camera e io sono andata alla cantina.

Io sono andata alla cantina e vossignorìa è andata nella camera.

Vossignorìa è entrata nella camera, io sono uscita per la cantina e la carne era sulla gratiglia.

La carne l’abbiamo lasciata sulla gratiglia. Sulla gratiglia era la carne!

Quando sono andata, sotto, alla cantina la carne era sulla gratiglia!»

Po’ ha pensato e ha detto Carmela, che tremava pari pari.

«Fosse entrato qualcuno in casa?

L ‘avesse rubata qualcuno la carne?

Uno è entrato ... ha sentito l’odore ... non ha visto nessuno ... ha visto la gratiglia, bella, piena piena, con tanta carne ... e andato al focolare e l’ha presa.

Tanto con la porta aperta, accostala com‘era, non c e voluto assai!

In un attimo e la carne è sparita.»

Faceva Carmela per confortare la signora che intratanto si disperava.

«Fosse stato qualche gatto?

L ‘avesse mangiata qualche gatto? Fosse stato qualche gatto?»

Ha detto la serva Carmela.

La serva Carmela s’è avvicinata al focolare, ha guardato e ha spiato e ha visto nella cenere le pedatine di gatto, chiare chiare. Le pedatine di gatto erano tali e quali, si vedevano nette nette, pulite pulite, non c’erano dubbi e sospetti.

La cenere era tutta pedatine pedatine.

Lo scalino del focolare era pedatine pedatine. Dal focolare alla porta la casa era tutta pedatine pedatine. Raso raso la cascia era tutto pedatine pedatine. Per sotto il tavolo e per sotto le sedie era tutto pedatine pedatine. Una pedatina davanti l’altra, una pedatina dietro l’altra.

Rasente rasente il muro era tutto pedatine pedatine.

Pedata dopo pedata sino al buco della porta era tutto pedatine pedatine.

«Ah!... Questo c’è! Ah.’... Questo c’è! Ah!.. C’è questo?»

Ha fatto la signora minacciosa con la testa e con le mani.

«Se l’è mangiata il gatto, allora?

Il gatto se l’è mangiata la carne!

Il gatto è gatta Mirascka?

Solo lei poteva essere! Lei solo poteva essere! Un’altra gatta non si permetteva, nella casa mia, di mangiare la carne!

Solo gatta Mirascka può essere stata!

E’ lei la disgraziata! E’ lei la traditora! E’ lei la leccuccia! E’ lei la mangiatrice! E’ lei la corpodibontempo! E’ lei che stracqua il tempo!

Dal focolare si leva e al sole si mette, dal sole si leva e al focolare si mette, la corpodibontempo.

La devo prendere nelle unghie, la mangiatrice!

La devo graffiare come un’ora di notte. M’ha avvelenato la giornata, m‘ha distrutto la vita. Tutti i rimproveri mi prendo per lei. Non ha acchiappato nemmeno un sorcio nella sua vita! La ladra traditora!»

Faceva la signora tutta amareggiata e avvelenata. Non si poteva capacitare la signora che gatta Mirascka avesse mangiato la carne. «Come devo fare mò? Che devo fare mò! Mò come devo fare ?

Che devo dire a mio marito quando viene! Che devo dire a mio marito?»

Diceva la signora. «S’è stata lei la devo sciancare! Come una rospa la devo squartare!

S’è stata lei la devo scuoiane, la devo scorticare come un ranocchio!

Le devo fare uscire il midollo da fuori, per la bocca!

Mi devo succhiare tutto il sangue! Tutto il sangue mi devo succhiare!» Farneticava la signora tutta astiosa e smaniosa. Sbatteva le mani sul tavolo e non si rassegnava.

«Gatta Mirascka ha mangiato la carne? Questo servizio m‘ha fatto gatta Mirascka! Gatta Mirascka mi ha fatto questo bel complimento!

Questo bel complimento m‘ha fatto gatta Mirascka!

Che bella festa m‘ha fatto passare oggi! La disgraziata! La disgraziatona! Ah! Che la vuole spartire il lampo!» Ripeteva la signora tutta risentita.

La signora aveva le smanie e non sapeva con chi se la doveva prendere; andava dalla porta alla finestra, dal focolare alla camera, da Carmela alla gratiglia; se la prendeva con le sedie attorno al tavolo che non stavano al loro posto e tirava avanti e indietro senza farle prendere requie.

«La disgraziata! La disgraziatona!

Ah! Che la vuole spartire il lampo!»

La signora ripeteva tutta sconvolta.

Po’, si è calmata un momento, la signora, un poco e ha detto.

«Be’! Mò glielo devo far togliene questo vizio. Questo vizio glielo devo far togliere io! Io glielo devo far togliere il vizio a quella ladricella, a quella leccuccella!» Diceva la signora tutta cantante. «E brava la gattarella mia, cucciola cucciola! E brava la gattarella mia, cucciola cucciola! Cucciola cucciola, la gattarella! La contegnosella!»

Faceva la signora sconsolata e sconfortata; e si contorceva le mani per la nervatura. La serva Carmela stava e guardava la signora che si disperava, che ballava sulla sedia, che faceva andare la sedia avanti e indietro e sbavava per la rabbia.

«Sa fare pure questi servizi! Pure questi servizi sa fare? Gatta Mirascka mia!

L’è mancata qualche volta qualche cosa! Qualche c’osa l’è mancata qualche volta?

Ah, gatta Mirascka!»

Faceva la signora sconsolata.

«E brava la gattarella mia, cucciola cucciola! E brava la gattarella mia, cucciola cucciola! Brava la cucciola cucciola del cuore mio!» La signora, tutta intrinsecata, si batteva i pugni in testa e nel ventre, s’attesava e sbatteva i piedi come se l’avesse morsa un serpente. «Tu statt zitta e fai finta di niente! Fai finta che non è successo niente! Che mò che viene te lo devo far vedere io! Carmela, io glielo devo far vedere a Mirasckella! A Mirasckella mia!»

Ha detto la signora alla serva Carmela che era rimasta petramarmo e non si muoveva. La serva Carmela aveva un tremore, ma un tremore nelle ossa che le veniva da piangere. Voleva aiutare la signora, ma non sapeva come fare. Un altro poco che faceva così la signora e Carmela si sarebbe voluta mettere lei sulla gratiglia per non sentire e per non vedere tutti quegli strepiti.

Non ha fatto altro la signora, ha chiamato gatta Mirascka.

L’ha chiamata

«Mùuusc... mùuusc... mùuusc! Musciarella! Mùuusc... muuusc... muuusc! Musciarella! Musciarella mia!»

accoratamente e affettuosamente, ma con tanto risentimento negli intestini.

Con gli intestini che s’intorcigliavano nel ventre, facevano nodi nodi, nodi intra nodi, nodi sopra nodi.

«Mùuusc... muuusc... muuusc! Gattarella mia, vieni qua!

Vieni qua, gattarella mia!

Gattarella mia malepatita!

Mùuusc... muuusc ... muuusc!»

La signora ha chiamato, con un bel bastoncino di salice nascosto dietro le spalle, la gatta con i nervi che si attorcigliavano e la pazienza che scappava.

«Mùuusc... muuusc.. muuusc! musciarella!

Vieni dalla tua padrona, che ti vuole tanto bene!

Che ti vuole tanto bene la padrona! Che te lo devo far vedere io!

Che io te lo devo far vedere!

Vieni qua che ti devo dare un altro poco di carne!

Che ti devo dare il resto della carne, musciarella mia! Malabituata!

(in altro poco di strafogo! Un altro poco di strafogo!

Mùuusc... muuusc... muuusc!»

Gatta Mirascka l’ha sentita e subito è corsa dalla signora miagolando.

E’ corsa subito, appena ha sentito la voce della signora.

«Miao!... Miao!... Miao! Miao!... Miao!...» ‘Mò, te lo devo dare io miao, miao, miao! Mò, te lo devo dare io!

Io te lo devo dare! miao, miao, miao.’

Ha pensato tra sé la signora con tutta la rabbia in corpo.

Era arrabbiata veramente la signora. Non riusciva a consolarsi la signora, si sentiva tradita. E’ andata gatta Mirascka, ch’era fedele alla padrona, a leccare le mani e a strusciarsi tra le gambe della signora. Ha girato attorno alla signora seduta vicino al focolare gatta Mirascka e, po’, è saltata in braccio.

Sulle ginocchia, tra le braccia l’ha presa la signora e l’ha lisciata. L’ha lisciata. E intratanto che lisciava, la signora toccava la pancia. La rognonata era piena. I costati erano pieni pieni, belli, tesi tesi.

Solo in quel momento la signora s'è convinta che gatta Mirascka aveva mangiato la carne sulla gratiglia. Solo in quel momento la signora l’ha appurato, quando ha sentito, quando ha toccato la carne dentro gatta Mirascka.

E la lisciava, la lisciava, dalla testa alla coda, con le mani, la lisciava dalle orecchie ai piedi con tutt’e due le mani.

E la lisciava, liscia liscia, e intramentre che la lisciava, non ci ha visto più, ha preso il salicetto, liscio liscio, bello bello, dietro le spalle, e l’ha lisciata. L’ha fatta, sale pestato, fina fina, una volta per tutte.

L’ha lisciata e le ha dato tante, ma tante, ma tante bastonate che solo lei lo sa, che lo sa solo il cuore suo quante ne ha avute, gatta Mirascka.

«E brava la musciarella mia! E brava la gattarella mia!

Tutte queste cose sa fare, Mirasckella mia? Te’! Un altro poco di carne, te’!

Te’! Un altro pizzico di carne, te’!

Te’! Un altro boccone di carne, te’!

Te’!... Te’!... E le’! Te’!... Te’!... E te’!»

La signora lisciava gatta Mirascka con il salicetto e gatta Mirascka si arruffava per il dolore, la signora lisciava gatta Mirascka con il salicetto e gatta Mirascka si aggattava dal dolore, la signora lisciava gatta Mirascka con il salicetto e gatta Mirascka s’inarcava con il dolore, sino a quando la signora non ce l’ha fatta più e l’ha allentata e gatta Mirascka è scappata.

Gatta Mirascka ha dato un salto, un volo e si è trovata subito fuori della porta.

La signora s’è saziata il cuore, il cuore suo. Ha dato alla gatta con tutt’e sette i sentimenti. La gatta s’è infrusticata, s’è inquietata e se nè scappata lontano, fuori dal paese, lontano lontano, piena di meraviglie, carica carica di meraviglie.

Corri corri, fuggi fuggi, scappa scappa, cammina cammina per boschi e per macchie come il vento senza fermarsi un attimo.

Fuggi fuggi, scappa scappa, cammina cammina corri corri per pietre e petran con tremore senza voltarsi indietro una volta.

Gatta Mirascka se n’è scappata lontano lontano e se n’è andata nell’aperta campagna con la paura che la signora la inseguiva e per far perdere le tracce.

Scappa scappa, cammina cammina, corri corri, fuggi fuggi per acque e per torrenti con spavento senza sapere dove stava andando.

Cammina cammina, corri corri, fuggi fuggi, scappa scappa per valli e valloni come un accidente senza vedere dove stava andando.

E cammina qua e cammina là, e corri qua e corri là, e fuggi qua e fuggi là, e scappa qua e scappa là, gatta Mirascka aveva fatto tanta via e tanta, s’era stancata a camminare a zonzo, vilmente.

E’ arrivato ch’è fatto scuro, verso la sera, stava ponendo il sole dietro la montagna e gatta Mirascka si voleva ritirare al paese, a casa della signora.

Si voleva ritirare gatta Mirascka ma non sapeva come fare: s’era persa, aveva fatto tanti giri e tante giravolte; aveva fatto gira gira; era andata avanti e indietro, sopra e sotto, che nemmeno lei sapeva più dove si trovava.

Gatta Mirascka si sentiva perduta e spersa.

S’era persa e non aveva nessun ricetto, nessun ricovero gatta Mirascka, nemmeno un posto, nemmeno un pertugio per passare la notte.

E stava così e pensava che doveva fare, e stava e pensava, e pensava e stava.

Intratanto che stava così, è arrivata una volpe che cercava da mangiare, era andata a caccia, era uscita per la caccia.

Una volpe che stava nei dintorni, là, e stava uscendo di casa.

Quella, la volpe, conosceva tutte quelle macchie, a una a una; quei roveti, uno per uno; quegli alberi, quel bosco, quei casolani e andava placida placida, calma calma, senza fretta e guardava e spiava: mò in una macchiarella e mò in un fossetto, mò in un piede di fico e mò in un piede di ulivo, mò in una forchia e mò in una forra, mò in una vigna e mò in un orto, mò in uno stalluccio e mò in un gallinaro.

La volpe va guardando, la volpe va cercando sempre da mangiare.

La volpe andava, andava, comare Tolla.

«Buonasera! Comare volpe.

Buonasera! Comare volpe. Buonasera comare! Quale vento ti porta da queste parti?»

Ha fatto gatta Mirascka addolorata e spaesata alla volpe che passava davanti. «Buonasera! Comare gatta.

Buonasera! Comare gatta. Buonasera comare! Che fai a quest’ora?» Ha risposto la volpe che s’era girata a guardare la gatta.

«Comare! Che fai da queste vie? Comare! Che fài da queste parti? Come mai da queste parti?» Ha domandato Tolla, la volpe, la furba.

«Così e così. Catatruppete catatrappete, catatruppete catatrappete, catatruppete catatrappete.

Mi sono persa.

Mi sono persa in questo bosco. Ho litigato con la padrona.

Ho litigato e me ne sono scappata in campagna.»

«E mò, che fài? E mò, dove vai? E mò, comie devi fare?»

Ha fatto Tolla che s’era fermata a parlare con la gatta.

«E mò! Non so che devo fare. Non so dove andare.»

Ha risposto la gatta intramentre che si toccava spalle e schiena e si leccava le piante dei piedi che le dolevano per il troppo correre e camminare.

«Mi volevo ritirare e non so la via. Mi sono persa.

E’ notte e non so trovare la strada e non so dove andare.»

«E allora, vuoi venire a dormire a casa mia? Vuoi venire a casa mia?

Che sono sola e ci facciamo compagnia!» Ha detto la volpe, Tolla la furba.

«E sì. Se hai piacere!

Se hai piacere me ne vengo a casa tua. Io, mò, non so dove andare. Se mi vuoi, ci vengo.»

E si sono avviate Tolla la furba e gatta Mirascka.

E andavano la gatta e la volpe, una dietro l’altra, una avanti e l’altra dietro. E sono andate.

Cammina cammina, e cammina cammina, e cammina cammina. Cammina tu

che cammino io. Cammina tu che cammino pur’io e sono arrivate alla casa della volpe.

La casa della volpe era dentro una macchia, in un pertugio in cera al sole, proprio in faccia al sole in una calanca, in un dirupo.

La volpe è arrivata e s’è infilata piano piano nel pertugio; ci entrava appena appena. Dietro la volpe s’è infilata pure la gatta nel pertugio.

La casa di Tolla la furba aveva una finestrella proprio in cera al sole, aveva una cristallierella con due casseruolelle e tielluzze, una sartaginella; aveva una credenzella, due treppiedelli, un tavolicello e due sediecelle e, al fondo, ma proprio al fondo, al fondo al fondo, un letticello di paglia proprio sotto, sotto sotto. La volpe Tolla e la gatta Mirascka sono entrate nella casa.

La volpe ha fatto sedere la gatta, l’ha fatta accomodare.

La volpe, Tolla, s’è levato il cappello, ha poggiato il bastone, s’è levato il mantello, ha preso due sterpaglie, un poco di paglia e ha animato il fuoco.

Faceva un freddo che entrava nelle ossa, c’era l’umido. I giorni avanti era piovuto e sopra la montagna, in cima in cima, c’era la neve. A dire la verità nella casa di Tolla la volpe, ci faceva un poco di fumo. I muri erano un poco annerati e cadeva qualche goccia d’acqua. Nella casa della volpe ci pioveva. Il cielo della casa stillava, piano piano, stillava una continuazione.

La volpe ha acceso il fuoco e si sono messe là e stavano. Stavano e si guardavano. Guarda tu che guardo io, guarda tu che guardo pure io.

Si guardavano e non parlavano.

Tu non parli e io non parlo, io non parlo e tu nemmeno parli.

Non parlavano e si guardavano.

Si sono messe nella casa e sono state là. Statti tu che sto io, statti tu che sto pure io.

Mò, gatta Mirascka, quando è fatta più notte, si aspettava che la volpe, Tolla la furba, mettesse la tavola; ma la volpe non si muoveva. Il focolare era vacante, c’era solo il fumo. Sul fuoco non c’era proprio niente.

Gatta Mirascka non aveva mangiato da mezzogiorno, la pancia l’aveva vuota.

La pancia si lamentava, la pancia mormorava. Gli intestini si andavano inseguendo uno con l’altro e facevano un continuo lamento; si lamentavano.

Intramentre la volpe Tolla guardava gatta Mirascka e gatta Mirascka guardava la volpe. E si guardavano e si guardavano.

Una guardava l’altra e l’altra guardava l’altra. Si guardavano. Po’, parlavano pure. Catatruppete e catatrappete, catatruppete e catatrappete, catatruppete e catatrappete. Com’è questo, com’è quello. Così e così. Forse domani piove. Oggi è stata una bella giornata. Ma perché sei fuggita dal paese. Nella casa della padrona non stavi bene. La padrona che t’ha fatto. E tu che hai fatto alla padrona.

Catatruppete e catatrappete, catatruppete e catatrappete, catatruppete e catatrappete. Mai le chiacchiere hanno riempito la pancia. La pancia non si riempie con le chiacchiere. Quando se l’è vista gatta Mirascka, non ci ha visto più, era senza lena, non aveva lena.

«Comare Tolla, cara comare! Ma non hai niente da mangiare? Stasera non si mangia? E se sapevo così, non ci venivo! Se dovevo morire di fame, non ci venivo!» Ha detto gatta Mirascka sfacciata. Aveva perso proprio la vergogna, gatta Mirascka, per la fame.

Solo lo stomaco suo sapeva che passava, non si reggeva in piedi.

«Ah! Comare mia! Mò, mò! Non avere fretta! C’è qualche cosarella. Comare mia! Comare mia, qualche cosarella c’è! Qualche cosa c’è, comare mia!» Erano rimasti due piedi di gallina, due punte di ali, il giorno; la volpe li ha presi e li ha cotti nella pignattella, li ha sfritti nella sartaginella e, pò, se li sono mangiati con comare gatta Mirascka.

La gatta, quando ha visto quelle cose, s’è lanciata sopra come un pesce.

Non aveva retinenza gatta Mirascka, non stava ferma per la fame.

Per la fame gatta Mirascka vedeva le lucciole che andavano avanti e indietro, sopra e sotto; si accendevano e si spegnevano una continuazione davanti gli occhi, dentro gli occhi. La volpe Tolla e la gatta Mirascka hanno fatto le ossarelle fine fine, nette nette, pulite pulite. Le hanno rosicchiate, l’hanno rosicate, l’hanno spolpate più di un topo; l’hanno leccate e leccate, e l’hanno consumate.

Hanno succhiato pure il midollo. Niente hanno lasciato, proprio niente.

Se li sono mangiati, piedi e ali, e gatta Mirascka, alla fine, s’alliffava i baffi e si leccava le labbra, quasi sazia.

S’alliffava e si leccava, s’alliffava e si leccava, si attesava e si stendeva, si stendeva e si attesava. Gatta Mirascka era soddisfatta, la fameme la paura s’erano acquietate e, mò, aveva solo la stanchezza, solo la stanchezza la poteva. E così con la volpe si è andata a coricare, si è andata a stendere sulla paglia.

Po’ si sono appisolate, si sono appagliate al fondo della casa e si sono messe a dormire e nella notte hanno dormito.

Hanno dormito belle belle, a sonno pieno. e la mattina, si sono svegliate al canto del gallo. Il gallo cantava e loro si sono svegliate.

La mattina è fatto giorno, il sole si è alzato e ha detto la volpe Tolla che vedeva la gatta che non si decideva ad andarsene.

Di tutto parlava la gatta fuorché di andarsene. «Comare Mirascka!

Ma mò te ne devi andare? Mò te ne devi andare, comare?»

«Oh, Comare mia! E dove me ne vado? Oh, Comare mia! E come me ne vado! E mò dove vado? Comare mia! Al paese non ci torno più, comare mia!

La padrona non mi vuole più bene e io non so dove andare!»

Ha detto la gatta tra veglia e sonno, tra veglia e sonno, «Non me ne vado! La padrona m‘ha maltrattato assai e non me ne vado! Che devo andare a prendere, il resto?

Il resto, devo andare a prendere?» tra uno sbadiglio e l’altro. E la gatta s’allungava e si stendeva. «E... ma... qua, dobbiamo fare qualcosa! Qualcosa la dobbiamo fare ? Se no come campiamo, come mangiamo! Non ci possiamo mettere e stiamo! Stiamo e che facciamo?»

Ha detto la volpe Tolla intratanto che si vestiva; si metteva la lanetta di carne, i peduli e le brachessine.

«E che dobbiamo fare? Che dobbiamo fare? Comare! Dillo tu, decidi tu e lo facciamo! Io faccio quello che dici tu! Con tutto il cuore! Con tutto il cuore!»

Ha detto gatta Mirascka intramentre che si alzava, intratanto che si metteva le scarpe. E Tolla la furba ha pensato e ha detto. «Mò, domani è fiera. E’ fiera domani. Andiamo alla fiera e compriamo un pecoruccio, un bel pecoruccio, un pecoruccio da crescere.

Lo compriamo il pecoruccio, lo alleviamo, lo pasciamo l ‘ingrassiamo, lo facciamo grande. Po’, lo vendiamo e c’i dividiamo i soldi.» Veramente le due comari, la gatta e la volpe, hanno passato la giornata, così, al sole, senza fare niente, aspettando a domani.

Sono andate di qua e di là. Sono andate di sopra e di sotto. Sono andate avanti e indietro. Sono andate scaforchiando per mangiare, per trovare da mangiare, per mettere qualcosa sotto i denti, per mettere qualcosa nei denti. E hanno preso due passerelli infreddoliti, due sorci talpone sperduti e niente più.

La stagione era fredda, faceva freddo freddo, era il tempo dei malevestiti, e nessuno andava girando, nessuno si vedeva da quelle parti. Po’ si sono ritirate a casa la volpe e la gatta, hanno spennato i passerelli, hanno scorticato i sorci talpone e l’hanno cucinati, li hanno arrostiti.

Hanno mangiato e bevuto gatta Mirascka e la volpe Tolla; hanno fatto due chiacchiere. Catatruppete e catatrappete, catatruppete e catatrappete, catatruppete e catatrappete.

Po’ sono andate ad appagliarsi, si sono andate a stendere sulla paglia.

La sera si sono coricate, si sono appagliate in fondo in fondo alla casa su una specie di pagliericcio e si sono messe a dormire e hanno dormito tutta la notte.


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