IL
ROMPICAPO DEGLI ENTOMOLOGI
Basta guardare nella conca vulcanica, nel centro del cratere, per capire che
a Monticchio si può anche vivere di silenzio, di quel particolare silenzio
che come un sortilegio sembra restituire la terra alla geologia. Il Vulture,
il vulcano spento che ha vomitato fuoco poche volte, l'ultima centomila anni
fa, qui ha fatto tutto: ha scolpito il paesaggio con gli incantevoli laghi,
ha fatto crescere in maniera lussuriosa i boschi, ha fatto sgorgare le
preziose acque minerali orgoglio dell'industria lucana.
Sono tornato in questa sorta di enclave, quasi un piccolo mondo a sé
governato dalle sole leggi della natura, per rintracciare qualche fotogramma
dei miei trascorsi professionali.
E non poteva accogliermi uno scenario migliore.
Un acquazzone che si é calmato da appena mezzora ha liberato, tra nuvole in
corsa e spicchi di cielo, uno sfolgorante arcobaleno che quasi ci lambisce,
me e la guardia forestale che mi fa compagnia.
Ci siamo scambiati sguardi amichevoli e senza grandi sforzi di memoria
abbiamo ritrovato un personaggio irripetibile, almeno per noi: il conte Fred
Hartig, "l'acchiappa farfalle", affettuoso appellativo che gli abitanti del
luogo avevano dato all'illustre entomologo che negli anni Sessanta portò
Monticchio all'attenzione del mondo scientifico internazionale.
Dalla primavera agli ultimi scampoli dell'estate, in un piccolo appartamento
dal quale si potevano ammirare i laghi eternamente immobili - il vento non é
mai potuto penetrare tra le fitte barriere degli alberi -. Hartig attrezzava
un suo stupefacente laboratorio zeppo di farfalle "trattate" al cianuro,
catalogate, numerate, sottovetro, infilzate su tanti telai di sughero, nella
posizione ideale di poter spiccare il volo.
Quella farfalla un vero rompicapo per gli entomologi, aveva un nome
attraente: "Bramea", e quella in bacheca era la bramea di Hartig, vissuta
per millenni nella boscaglia di Monticchio e assolutamente ignorata dagli
scienziati fino al memorabile diciotto aprile 1963 quando il conte
altoatesino, discendente di un nobile governatore asburgico, la scopri
durante una delle sue escursioni scientifiche che compiva là dove l'intuito
lo guidava.
E fu proprio Monticchio a riservargli la sorpresa.
Una falena imponente sbucata da un oscuro angolo del bosco, di una specie
mai vista prima, atterrò all'improvviso, come per incanto, ai suoi piedi,
sotto gli occhi eccitati di alcuni colleghi tedeschi. Erano le otto della
sera di quella primavera appena cominciata, era la stagione degli amori di
una delle farfalle più antiche e misteriose della terra. Nel suo abito
scuro, abito di circostanza adatto ai richiami della sera con delicate
sfumature sulle ali, si era fatta ingannare (o incantare?) dalle lampade al
mercurio.
Hartig la vide, capi e trasalì - resta memorabile la descrizione che fece di
quell'evento - e finalmente poté presentare, dal vivo ai suoi amici, che
fino a quel momento si erano dimostrati scettici sulle sue previsioni, la
prima, leggendaria bramea rintracciata in Italia, e la battezzò, nell'ampia
radura che era stata scelta per la ricerca: "bramea europea",
aggiudicandosi, sul campo, la titolarità della scoperta che ebbe immediato
risalto sulle riviste scientifiche in Italia e all'estero.
"La bramea é una creatura affascinante" - sono parole sue - "Appartiene a
una famiglia di farfalle conosciute soltanto nell'estrema Asia Orientale.
Proviene dal miocene e quindi avrebbe qualcosa come ottocento milioni di
anni!".
Una creatura eccentrica, dunque, che per una straordinaria potenzialità
percettiva, per scelta, una scelta che gli stessi scienziati non sono ancora
riusciti a spiegare, era atterrata alle pendici del vulcano, dopo una
traversata di diverse migliaia di chilometri, in un periodo che si perde
nella notte dei tempi.
L'idillio tra Fred Hartig e la "sua" falena di Monticchio durò un decennio.
Tutti gli anni l'entomologo aspettava la sua grande farfalla (ha un'apertura
alare di otto centimetri) accovacciato sotto un ampio telo bianco, con
lampade, reti, trappole e cloroformio, pronto per entrare in azione. I tempi
dell'agguato cominciavano verso sera.
Scheggia solitaria e poetica, la bramea non aveva nulla a che vedere con le
farfalle nostrane dai colori appariscenti, ma fragili. Il suo abbigliamento
era in perfetta sintonia con l'ambiente silvano. Il maschio entrava in campo
all'imbrunire, la femmina, più riservata, si mostrava di notte. Le grandi
ali le consentivano spostamenti rapidi e imprevedibili. Volava a sbalzi e
puntava abitualmente verso l'alto. Prediligeva le cime dei faggi che a
Monticchio, per un capriccio della natura, sono cresciuti a quote
eccezionalmente basse.
Il ricordo rimanda l'alta figura del conte entomologo, la solennità del suo
incedere verso i luoghi sacrosanti ed esclusivi della "raccolta".
"Perché l'entomologo non cattura le farfalle ma le raccoglie con la stessa
attenzione con cui si coglie una rosa. Quando arrivano raccoglitori
inesperti, inviati da collezionisti senza scrupoli, molto spesso distruggono
faune intere. A Monticchio la bramea, per ora, e grazie anche al mio
controllo - non a caso mi fermo qui per tutta l'estate - é ancora al
sicuro".
Malgrado l'uso del cianuro? La battuta non venne raccolta dallo scienziato
altoatesino il quale non perdeva occasione per decantare la qualità degli
spilli coi quali infilzava le farfalle condannate a morte.
"Ma sono spilli speciali fatti soltanto in Germania", precisava. E chiudeva
con delicatezza il coperchio delle teche (le bare) come un artista che
ricopre il capolavoro, con le "sue creature" pronte per essere inviate a un
istituto tedesco di scienze naturali.
A Monticchio "l'acchiappa farfalle" era di casa, e dettava leggi,
soprattutto ai ristoratori ai quali forniva un torrente di consigli sulle
buone regole dell'accoglienza. Il luogo era divenuto un'opportunità di
vacanza. Attirava comitive di visitatori che potevano trascorrere una
giornata lungo le rive dei laghi che diventavano una riviera ideale, con
qualche cigno in libertà e una minuscola barca a vapore che scivolava
sull'acqua del lago piccolo sollevando una schiuma leggera che dava appena
l'idea del movimento.
La bramea era un pretesto, Hartig il richiamo. "Una farfalla mi ha dato più
soddisfazioni di tante belle donne conosciute nella vita". E più che una
scoperta, l'incontro con la bramea fu un contagio, così prepotente da farlo
sentire il possessore di una storia stupefacente.
Ma conosceva il richiamo di una farfalla innamorata? Eravamo in un prato
aperto alla visione del paesaggio, all'imbrunire, l'ora della raccolta, con
tutta la solennità del Vulture che dominava ogni cosa nel suo mantello di
faggi, cerri e castagni secolari, un verde che conferiva un ulteriore
elemento di fascino al vulcano spento. Non si avvertiva che il fruscio delle
reti che filtravano l'aria mentre le farfalle, tante e di varie specie,
sbucavano dal fitto degli alberi. Hartig si muoveva a passi felpati. Con
l'occhio allenato individuava, fra le tante, la bramea, solitaria ed
aristocratica nella sua livrea, e allora cominciava a danzare sull'erba
inseguendo la sua preda che volava, come lui, danzando.
"Il richiamo di una farfalla innamorata?" Parlava controvento, mi parve una
stranezza.
"E molto intenso. Non ne conosciamo le origini ma sappiamo che sono delle
radiazioni di onde cortissime specialmente in quelle farfalle, come la
bramea, che hanno delle antenne lunghissime e vediamo che una femmina é
capace di richiamare un maschio dalla lontananza di trenta, quaranta
chilometri".
Si parlava a bassa voce, parole sussurrate, stupori repressi, naturalmente i
miei. Il prato diventava un santuario (o un cimitero?).
"La bramea proprio attraverso le sue antenne percepisce il più piccolo
rumore, e fugge".
E uno si doveva muovere col passo leggero come su un tappeto di sabbia,
imprigionato nel ruolo di chi disturberebbe la scienza.
Ma la bramea nasce e muore a Monticchio?
"Si, ma ha già dato vita alle crisalidi, ai figli che seguiranno lo stesso
ciclo. In autunno qualche giovane esemplare, forse, chissà, é una mia
fantasia, potrebbe anche mettersi in viaggio verso l'oriente, verso la terra
dell'origine. E poi tornare qui e cominciare tutto daccapo. Sarebbe una cosa
meravigliosa".
Pensai che si stava concludendo un incontro in un clima quasi poetico, tra
chi amava ancora stupirsi e uno scienziato che abbandonava, una volta tanto,
il rigore scientifico e la sua proverbiale impassibilità.
Nel ricordo di Fred Hartig, al quale dissi addio, e per sempre, una ventina
di anni fa, mi ritrovo sotto un cielo tornato limpido, conteso da uno stormo
di uccelli, davanti alla imponente statua di San Giovanni Gualberto, patrono
del Corpo Forestale. Su questo monaco vissuto nell'undicesimo secolo, che si
ispirò agli insegnamenti dei primi anacoreti per riportare l'uomo al
rispetto della natura, sa tutto la guardia forestale, testimone di numerose
battaglie ambientaliste, che ha pure qualcosa da dire e con toni polemici,
sui danni che stanno arrecando all'ambiente greggi di pecore e di capre che
pascolano in assoluta libertà lungo le rive dei laghi, e sugli interminabili
lavori di restauro dell'Abbazia di San Michele restituita al pubblico ma
soltanto nella parte che riguarda la chiesa, e in occasioni particolari. Per
il resto é zona negata ai visitatori.
Bianca icona, l'Abbazia si specchia nelle acque del lago piccolo per la
meraviglia dei turisti "mordi e fuggi" e per i "lampeggiamenti" dei
fotografi della domenica. Sempre disponibile durante questa sorta di revival
che ci ha coinvolti anche sul filo della nostalgia, il forestale ha un
sussulto di orgoglio quando mi mostra il dono che il conte Hartig gli fece
nel momento in cui abbandonava gli scenari della sua straordinaria avventura
lucana: un bell'esemplare di bramea, "la regina della notte" sottovetro,
incorniciata come un vecchio quadro d'autore.
Ma quale destino ha avuto la farfalla "made in Basilicata", dove sono finite
quelle tracce che hanno guidato tanti ricercatori che parlavano
frequentemente lingue diverse? La verità é che la bramea di Monticchio
(europea o italiana, come si vuole) non gode più l'attenzione che avrebbe
meritato. Si é chiusa in solitudine, in una zona assai ristretta, quasi
inaccessibile. La intravedono i pastori, ma assai di rado, nelle serate di
primavera.
Lo conferma un guardiano di pecore che bazzica da queste parti. E un pastore
sui generis. Non aspettarti che tiri fuori uno zufolo o un organetto, i
classici strumenti della tradizione pastorale scomparsi da tempo anche da
queste contrade. Riesce a catturare l'interesse mostrando un quaderno
sgualcito nel quale ha scritto, in modo ingenuo e sgrammaticato, la storia
delle sue transumanze, una serie interminabile di migrazioni e di ritorni.
Nel suo delirante memoriale parla anche di briganti che nei racconti del
popolo sono ricordati come i protagonisti di un'epopea dove anche il crimine
più atroce non destava orrore: Carmine Crocco, Ninco Nanco, le brigantesse
assumono dimensioni leggendarie. Racconta di un suo bisnonno che ingannava i
soldati piemontesi con false notizie sugli spostamenti dei fuorilegge che si
nascondevano nel folto della boscaglia e negli anfratti sulla cima più alta
del Vulture, che ora comincia a nascondersi con l'arrivo del crepuscolo.
Già, il crepuscolo, l'ora della bramea. E sempre più introvabile, sempre più
in fuga dalla sua stessa notorietà. E il pastore dice che é anche colpa dei
turisti che nei giorni di festa sciamano per ogni angolo del parco,
spaventano gli uccelli, violentano il silenzio.
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