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MARIO TRUFELLI
- L'ombra di Barone - Viaggio in Lucania
 

IL ROMPICAPO DEGLI ENTOMOLOGI

Basta guardare nella conca vulcanica, nel centro del cratere, per capire che a Monticchio si può anche vivere di silenzio, di quel particolare silenzio che come un sortilegio sembra restituire la terra alla geologia. Il Vulture, il vulcano spento che ha vomitato fuoco poche volte, l'ultima centomila anni fa, qui ha fatto tutto: ha scolpito il paesaggio con gli incantevoli laghi, ha fatto crescere in maniera lussuriosa i boschi, ha fatto sgorgare le preziose acque minerali orgoglio dell'industria lucana.
Sono tornato in questa sorta di enclave, quasi un piccolo mondo a sé governato dalle sole leggi della natura, per rintracciare qualche fotogramma dei miei trascorsi professionali.
E non poteva accogliermi uno scenario migliore.
Un acquazzone che si é calmato da appena mezzora ha liberato, tra nuvole in corsa e spicchi di cielo, uno sfolgorante arcobaleno che quasi ci lambisce, me e la guardia forestale che mi fa compagnia.
Ci siamo scambiati sguardi amichevoli e senza grandi sforzi di memoria abbiamo ritrovato un personaggio irripetibile, almeno per noi: il conte Fred Hartig, "l'acchiappa farfalle", affettuoso appellativo che gli abitanti del luogo avevano dato all'illustre entomologo che negli anni Sessanta portò Monticchio all'attenzione del mondo scientifico internazionale.
Dalla primavera agli ultimi scampoli dell'estate, in un piccolo appartamento dal quale si potevano ammirare i laghi eternamente immobili - il vento non é mai potuto penetrare tra le fitte barriere degli alberi -. Hartig attrezzava un suo stupefacente laboratorio zeppo di farfalle "trattate" al cianuro, catalogate, numerate, sottovetro, infilzate su tanti telai di sughero, nella posizione ideale di poter spiccare il volo.
Quella farfalla un vero rompicapo per gli entomologi, aveva un nome attraente: "Bramea", e quella in bacheca era la bramea di Hartig, vissuta per millenni nella boscaglia di Monticchio e assolutamente ignorata dagli scienziati fino al memorabile diciotto aprile 1963 quando il conte altoatesino, discendente di un nobile governatore asburgico, la scopri durante una delle sue escursioni scientifiche che compiva là dove l'intuito lo guidava.
E fu proprio Monticchio a riservargli la sorpresa.
Una falena imponente sbucata da un oscuro angolo del bosco, di una specie mai vista prima, atterrò all'improvviso, come per incanto, ai suoi piedi, sotto gli occhi eccitati di alcuni colleghi tedeschi. Erano le otto della sera di quella primavera appena cominciata, era la stagione degli amori di una delle farfalle più antiche e misteriose della terra. Nel suo abito scuro, abito di circostanza adatto ai richiami della sera con delicate sfumature sulle ali, si era fatta ingannare (o incantare?) dalle lampade al mercurio.
Hartig la vide, capi e trasalì - resta memorabile la descrizione che fece di quell'evento - e finalmente poté presentare, dal vivo ai suoi amici, che fino a quel momento si erano dimostrati scettici sulle sue previsioni, la prima, leggendaria bramea rintracciata in Italia, e la battezzò, nell'ampia radura che era stata scelta per la ricerca: "bramea europea", aggiudicandosi, sul campo, la titolarità della scoperta che ebbe immediato risalto sulle riviste scientifiche in Italia e all'estero.
"La bramea é una creatura affascinante" - sono parole sue - "Appartiene a una famiglia di farfalle conosciute soltanto nell'estrema Asia Orientale. Proviene dal miocene e quindi avrebbe qualcosa come ottocento milioni di anni!".
Una creatura eccentrica, dunque, che per una straordinaria potenzialità percettiva, per scelta, una scelta che gli stessi scienziati non sono ancora riusciti a spiegare, era atterrata alle pendici del vulcano, dopo una traversata di diverse migliaia di chilometri, in un periodo che si perde nella notte dei tempi.
L'idillio tra Fred Hartig e la "sua" falena di Monticchio durò un decennio. Tutti gli anni l'entomologo aspettava la sua grande farfalla (ha un'apertura alare di otto centimetri) accovacciato sotto un ampio telo bianco, con lampade, reti, trappole e cloroformio, pronto per entrare in azione. I tempi dell'agguato cominciavano verso sera.
Scheggia solitaria e poetica, la bramea non aveva nulla a che vedere con le farfalle nostrane dai colori appariscenti, ma fragili. Il suo abbigliamento era in perfetta sintonia con l'ambiente silvano. Il maschio entrava in campo all'imbrunire, la femmina, più riservata, si mostrava di notte. Le grandi ali le consentivano spostamenti rapidi e imprevedibili. Volava a sbalzi e puntava abitualmente verso l'alto. Prediligeva le cime dei faggi che a Monticchio, per un capriccio della natura, sono cresciuti a quote eccezionalmente basse.
Il ricordo rimanda l'alta figura del conte entomologo, la solennità del suo incedere verso i luoghi sacrosanti ed esclusivi della "raccolta".
"Perché l'entomologo non cattura le farfalle ma le raccoglie con la stessa attenzione con cui si coglie una rosa. Quando arrivano raccoglitori inesperti, inviati da collezionisti senza scrupoli, molto spesso distruggono faune intere. A Monticchio la bramea, per ora, e grazie anche al mio controllo - non a caso mi fermo qui per tutta l'estate - é ancora al sicuro".
Malgrado l'uso del cianuro? La battuta non venne raccolta dallo scienziato altoatesino il quale non perdeva occasione per decantare la qualità degli spilli coi quali infilzava le farfalle condannate a morte.
"Ma sono spilli speciali fatti soltanto in Germania", precisava. E chiudeva con delicatezza il coperchio delle teche (le bare) come un artista che ricopre il capolavoro, con le "sue creature" pronte per essere inviate a un istituto tedesco di scienze naturali.
A Monticchio "l'acchiappa farfalle" era di casa, e dettava leggi, soprattutto ai ristoratori ai quali forniva un torrente di consigli sulle buone regole dell'accoglienza. Il luogo era divenuto un'opportunità di vacanza. Attirava comitive di visitatori che potevano trascorrere una giornata lungo le rive dei laghi che diventavano una riviera ideale, con qualche cigno in libertà e una minuscola barca a vapore che scivolava sull'acqua del lago piccolo sollevando una schiuma leggera che dava appena l'idea del movimento.
La bramea era un pretesto, Hartig il richiamo. "Una farfalla mi ha dato più soddisfazioni di tante belle donne conosciute nella vita". E più che una scoperta, l'incontro con la bramea fu un contagio, così prepotente da farlo sentire il possessore di una storia stupefacente.
Ma conosceva il richiamo di una farfalla innamorata? Eravamo in un prato aperto alla visione del paesaggio, all'imbrunire, l'ora della raccolta, con tutta la solennità del Vulture che dominava ogni cosa nel suo mantello di faggi, cerri e castagni secolari, un verde che conferiva un ulteriore elemento di fascino al vulcano spento. Non si avvertiva che il fruscio delle reti che filtravano l'aria mentre le farfalle, tante e di varie specie, sbucavano dal fitto degli alberi. Hartig si muoveva a passi felpati. Con l'occhio allenato individuava, fra le tante, la bramea, solitaria ed aristocratica nella sua livrea, e allora cominciava a danzare sull'erba inseguendo la sua preda che volava, come lui, danzando.
"Il richiamo di una farfalla innamorata?" Parlava controvento, mi parve una stranezza.
"E molto intenso. Non ne conosciamo le origini ma sappiamo che sono delle radiazioni di onde cortissime specialmente in quelle farfalle, come la bramea, che hanno delle antenne lunghissime e vediamo che una femmina é capace di richiamare un maschio dalla lontananza di trenta, quaranta chilometri".
Si parlava a bassa voce, parole sussurrate, stupori repressi, naturalmente i miei. Il prato diventava un santuario (o un cimitero?).
"La bramea proprio attraverso le sue antenne percepisce il più piccolo rumore, e fugge".
E uno si doveva muovere col passo leggero come su un tappeto di sabbia, imprigionato nel ruolo di chi disturberebbe la scienza.
Ma la bramea nasce e muore a Monticchio?
"Si, ma ha già dato vita alle crisalidi, ai figli che seguiranno lo stesso ciclo. In autunno qualche giovane esemplare, forse, chissà, é una mia fantasia, potrebbe anche mettersi in viaggio verso l'oriente, verso la terra dell'origine. E poi tornare qui e cominciare tutto daccapo. Sarebbe una cosa meravigliosa".
Pensai che si stava concludendo un incontro in un clima quasi poetico, tra chi amava ancora stupirsi e uno scienziato che abbandonava, una volta tanto, il rigore scientifico e la sua proverbiale impassibilità.
Nel ricordo di Fred Hartig, al quale dissi addio, e per sempre, una ventina di anni fa, mi ritrovo sotto un cielo tornato limpido, conteso da uno stormo di uccelli, davanti alla imponente statua di San Giovanni Gualberto, patrono del Corpo Forestale. Su questo monaco vissuto nell'undicesimo secolo, che si ispirò agli insegnamenti dei primi anacoreti per riportare l'uomo al rispetto della natura, sa tutto la guardia forestale, testimone di numerose battaglie ambientaliste, che ha pure qualcosa da dire e con toni polemici, sui danni che stanno arrecando all'ambiente greggi di pecore e di capre che pascolano in assoluta libertà lungo le rive dei laghi, e sugli interminabili lavori di restauro dell'Abbazia di San Michele restituita al pubblico ma soltanto nella parte che riguarda la chiesa, e in occasioni particolari. Per il resto é zona negata ai visitatori.
Bianca icona, l'Abbazia si specchia nelle acque del lago piccolo per la meraviglia dei turisti "mordi e fuggi" e per i "lampeggiamenti" dei fotografi della domenica. Sempre disponibile durante questa sorta di revival che ci ha coinvolti anche sul filo della nostalgia, il forestale ha un sussulto di orgoglio quando mi mostra il dono che il conte Hartig gli fece nel momento in cui abbandonava gli scenari della sua straordinaria avventura lucana: un bell'esemplare di bramea, "la regina della notte" sottovetro, incorniciata come un vecchio quadro d'autore.
Ma quale destino ha avuto la farfalla "made in Basilicata", dove sono finite quelle tracce che hanno guidato tanti ricercatori che parlavano frequentemente lingue diverse? La verità é che la bramea di Monticchio (europea o italiana, come si vuole) non gode più l'attenzione che avrebbe meritato. Si é chiusa in solitudine, in una zona assai ristretta, quasi inaccessibile. La intravedono i pastori, ma assai di rado, nelle serate di primavera.
Lo conferma un guardiano di pecore che bazzica da queste parti. E un pastore sui generis. Non aspettarti che tiri fuori uno zufolo o un organetto, i classici strumenti della tradizione pastorale scomparsi da tempo anche da queste contrade. Riesce a catturare l'interesse mostrando un quaderno sgualcito nel quale ha scritto, in modo ingenuo e sgrammaticato, la storia delle sue transumanze, una serie interminabile di migrazioni e di ritorni. Nel suo delirante memoriale parla anche di briganti che nei racconti del popolo sono ricordati come i protagonisti di un'epopea dove anche il crimine più atroce non destava orrore: Carmine Crocco, Ninco Nanco, le brigantesse assumono dimensioni leggendarie. Racconta di un suo bisnonno che ingannava i soldati piemontesi con false notizie sugli spostamenti dei fuorilegge che si nascondevano nel folto della boscaglia e negli anfratti sulla cima più alta del Vulture, che ora comincia a nascondersi con l'arrivo del crepuscolo.
Già, il crepuscolo, l'ora della bramea. E sempre più introvabile, sempre più in fuga dalla sua stessa notorietà. E il pastore dice che é anche colpa dei turisti che nei giorni di festa sciamano per ogni angolo del parco, spaventano gli uccelli, violentano il silenzio.
 

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