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KAROL  WOJTYLA

Oltre la Porta

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Premessa alla Porta
"Omaggio a Karol Wojtyla"

Papa e la pace
 

“Io appartengo alla generazione che ha vissuto, e grazie a Dio è sopravvissuta, la seconda Guerra Mondiale. E ho il dovere di dire a tutti i giovani, a quelli più giovani di me, che non hanno avuto quest’esperienza, ho il dovere di ricordare e di dire: ‘Mai più la guerra!’. Come disse Paolo VI nella sua prima visita alle Nazioni Unite. Dobbiamo fare tutto il possibile! Sappiamo bene che non è possibile la pace ad ogni costo. Ma sappiamo tutti quanto è grande questa responsabilità. E quindi preghiera e penitenza”. 16 marzo 2003. Giovanni Paolo II guarda con particolare ansia alla regione del Medio Oriente. L’Iraq sta per essere di nuovo al centro di un conflitto e, questa volta, senza l’ombrello delle Nazioni Unite: si è scelta una strada diversa dalla prima azione militare internazionale nel paese. Non contento delle parole ufficiali, scritte come parte da leggere prima della preghiera dell’Angelus, eccolo pronunciare queste parole che muovono dell’esperienza personale. Ha conosciuto gli orrori della seconda guerra mondiale, ha conosciuto nazismo e comunismo, nella Polonia occupata, invasa, e che ha pagato il prezzo forse più alto durante e dopo il conflitto. Per questo Papa
Wojtyla dice il suo no alla guerra. Fino all’ultimo ha speso tutte le sue energie per impedire il conflitto, per cercare di far fare marcia indietro ad una avanzata già decisa a tavolino, nelle segrete stanze del potere politico. Così quel 16 marzo, la sua voce ancora una volta risuona per richiamare l’attenzione del mondo: “Di fronte all’umanità segnata da gravi squilibri e tanta violenza non dobbiamo perdere la fiducia: su questo mondo si riflette, fedele e misericordioso, l’Amore di Dio, che rifulge in pienezza sul volto di Cristo.., desidero rinnovare un pressante appello a moltiplicare l’impegno della preghiera e della penitenza, per invocare da Cristo il dono della sua pace. Senza conversione del cuore non c’è pace. I prossimi giorni saranno decisivi per gli esiti della crisi irachena. Preghiamo, perciò, il Signore perché ispiri a tutte le Parti in causa coraggio e lungimiranza. Certo, i responsabili politici di Baghdad hanno l’urgente dovere di collaborare pienamente con la comunità internazionale, per esminare ogni motivo d’intervento armato. A loro è rivolto il mio pressante appello: le sorti dei loro concittadini abbiano sempre la priorità! Ma vorrei pure ricordare ai Paesi membri delle Nazioni Unite, ed in particolare a quelli che compongono il Consiglio di Sicurezza, che l’uso della forza rappresenta l’ultimo ricorso, dopo aver esaurito ogni altra soluzione pacifica, secondo i ben noti principi della stessa Carta dell’ONU. Ecco perché - di fronte alle tremende conseguenze che un’operazione militare internazionale avrebbe per le popolazioni dell’Iraq e per l’equilibrio dell’intera regione del Medio Oriente, già tanto provata, nonché per gli estremismi che potrebbero derivarne - dico a tutti: c’è ancora tempo per negoziare; c’è ancora spazio per la pace; non è mai troppo tardi per comprendersi e per continuare a trattare. Riflettere sui propri doveri, impegnarsi in fattivi negoziati non significa umiliarsi, ma lavorare con responsabilità per la pace”.
Passano pochi giorni, inizia la guerra in Iraq, le televisioni, le radio, i giornali di tutto il mondo indugiano sull’avanzata degli uomini in armi verso la capitale Bagdad. Ma lui Papa Wojtyla, tenacemente continua a predicare la pace. E questa volta lo fa più con la voce, lo sguardo, il volto, che con le parole. In piazza san Pietro presiede la cerimonia di beatificazione di cinque nuovi beati. Si rivolge a Maria, il Papa: “Da lei imploriamo, soprattutto in questo momento, il dono della pace”. Chi ricorda la sua voce di quel giorno, avrà a mente come abbia cambiato timbro, forza nel momento in cui ha pronunciato le parole “dono della pace”. Come pur non dicendo nulla di nuovo, di diverso, quella voce ha non solo scandito ma quasi dato una forza tutta nuova a quelle tre parole. Lì in quel semplice appello, mentre il rumore dei carri armati faceva da colonna sonora ai notiziari, ritroviamo tutta la forza disarmata del Papa venuto dall’est, che ha voluto combattere la sua battaglia diplomatica, percorrendo tutte le vie possibili per impedire il nuovo conflitto. Come non ricordare ad esempio i viaggi che per volere di Giovanni Paolo II i due cardinali, Roger Etchegaray e Pio Laghi compiono da Saddam Hussein e Gorge W. Bush: il primo, partito per Bagdad il 10 febbraio, incontrerà il rais il 15. Laghi sarà dal presidente americano il 5 marzo. Come non sottolineare, ancora, le numerose visite che si susseguono in Vaticano, dal ministro degli esteri della Germania Joschka Fischer, il 7 febbraio, al vice premier iracheno Tarek Aziz, 14 febbraio, al segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan, 18 febbraio, al presidente del Consiglio Spagnolo Felipe Aznar e all’italiano Silvio Berlusconi. Al premier inglese Tony Blair: quando le strade della pace si confondono ecco che si affolla la strada verso il Vaticano, commentava il giorno della visita in Vaticano di Blair un giornale inglese.
È difficile, comunque, comprendere questa azione di pace di Papa Wojtyla, slegata da quella tradizionale attenzione per la pace nel mondo che ha sempre animato i romani pontefici, da Benedetto XV, che cercò di far ragionare le potenze alla vigilia della grande guerra, a Pio XII, con il suo “niente è perduto con la pace. Tutto può andare perduto con ha guerra”; a Papa Giovanni, famosa la sua enciclica Pacem in terris, che viveva tutta l’ansia per la crisi tra gli Stati Uniti di Kennedy e l’Unione Sovietica di Kruscev per i missili a Cuba. A Papa Paolo VI, che grida il suo “mai più la guerra” proprio al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, che rivolge undici messaggi al mondo, il primo gennaio, Giornata mondiale della pace, che hanno progressivamente tracciato le coordinate del cammino da compiere per raggiungere l’ideale della pace. Poco a poco, il grande pontefice è venuto illustrando i vari capitoli di una vera e propria scienza della pace. Curioso anche il fatto che la famosa “Nota di pace” di Papa Benedetto XV venne preparata da monsignor Eugenio Pacelli, il futuro Papa, che fa preparare il suo appello da un monsignor di Curia, Giovanni Battista Montini.
Continuità, dunque, è la parola d’ordine che accompagna l’attenzione dei Papi ai fatti del mondo, tanto da spingerli a rivolgersi ai potenti della terra: Papa Giovanni scrive a Kruscev e Kennedy, Paolo VI, come già detto, va alle Nazioni Unite, così come Papa Wojtyla. E tutti e tre, con strumenti e modi diversi, costruiscono una lenta e progressiva attenzione all’est europeo, che se da un lato aveva lo scopo principale di costruire ciò che il cardinale Agostino Casaroli chiamò un modus non moriendi per la chiesa cattolica stretta nella morsa dei regimi comunisti, dall’altro l’ostpolitik si è dimostrata un vero e proprio processo di dialogo e di pace tra i popoli. L’idea ha un altro padre, il cardinale Koenig, recentemente scomparso, che per primo valica la frontiera tra est e ovest europeo, quella che, in quegli anni, veniva chiamata ha cortina di ferro.
Papa Wojtyla è dunque figlio di questo continuo processo di distensione. In più è anche il Papa che ha conosciuto dal di dentro uno dei due blocchi che per settanta anni hanno dominato il mondo, decidendo conflitti e pacificazioni. Forse è proprio per questo che il suo spendersi per ha pace ha strategie e progressioni diverse. È il Papa che più di tutti si appella alla comunità internazionale invocando la pace, chiedendo che l’uso della forza sia l’estrema ratio dopo aver tentato fino in fondo di percorrere ha via dei negoziati per ristabilire ha legalità internazionale gravemente violata.
Così lo vediamo impegnato direttamente, tramite il cardinale Samoré, a risolvere la crisi tra Inghilterra e Argentina per le isole Falkland-Malvinas, impedendo un conflitto ben più grave.
Poi eccolo scendere in campo con i leader religiosi ad Assisi - tre volte li chiamerà alla preghiera nella città del poverello - per invocare da Dio il dono della pace. E il Papa che si batte contro la prima guerra del golfo. Deciso oppositore di Saddam Hussein, e nello stesso tempo non favorevole ad un intervento armato:
“Siamo stati testimoni di gravi violazioni del diritto internazionale e della Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, come dei principi di etica che devono presiedere alla convivenza tra i popoli”. Così in quel Natale di vigilia di guerra Giovanni Paolo Il grida il suo no alla guerra “avventura senza ritorno”: solo “con la ragione, la pazienza e con il dialogo, e nel rispetto dei diritti inalienabili dei popoli e delle genti, è possibile individuare e percorrere le strade dell’intesa e della pace”. Diventa così inevitabile il suo appello ai credenti delle tre grandi religioni monoteiste, 25 gennaio 1991:
“Il mio pensiero va ai milioni di credenti nel Dio unico - cristiani, ebrei e musulmani - che vivono ore drammatiche di sofferenza e di angoscia”. Pochi giorni prima Giovanni Paolo Il manifesta l’angoscia e la trepidazione sua e di milioni di persone nel mondo “di fronte al pericolo imminente che nella regione del Golfo si scateni un conflitto armato, che tutti ritengono possa avere conseguenze disastrose. Oltre ai combattimenti, quanti civili, quanti bambini, quante donne, quanti anziani sarebbero vittime innocenti di una simile catastrofe? Chi può prevedere le distruzioni e i danni ambientali che ne verrebbero e non solo in quell’area? Fin dall’inizio della crisi, e con maggiore insistenza nei giorni scorsi, ho sentito il bisogno di invitare i responsabili delle sorti dei popoli a riflettere sulla estrema necessità di far prevalere il dialogo e la ragione e di preservare la giustizia e l’ordine internazionale senza ricorrere alla violenza delle armi. Nelle condizioni attuali una guerra non risolverebbe i problemi, ma li aggraverebbe soltanto. La soluzione può essere trovata in proposte generose di pace, da una parte e dall’altra. E’ questo l’appello che, da parte mia, in quest’ora così decisiva per le sorti di uomini e di popoli sento il dovere di rivolgere a tutte le parti interessate. E’ un appello che rivolgo all’Iraq perché compia un gesto di pace che gli farebbe solo onore di fronte alla storia. E’ un appello che rivolgo a tutti gli Stati interessati perché organizzino, a loro volta, una Conferenza di pace che contribuisca a risolvere tutti i problemi di una pacifica convivenza in Medio Oriente. Intanto da parte nostra dobbiamo continuare a pregare affinché il Signore illumini tutti i Capi delle Nazioni interessate a cercare le vie che possano condurre realmente alla pace e sia così risparmiata all’umanità la tragica esperienza di una nuova guerra. Come credenti, non dobbiamo mai perdere la speranza e dobbiamo aver fiducia nella Potenza e Misericordia di Dio, che può illuminare le menti degli uomini e sostenere la loro buona volontà”.
Cambia lo scenario ma non cambia l’impegno del Papa che vede nella disgregazione dello stato jugoslavo, undici anni dopo ha morte di Tito, un altro grave pericolo per la pace, vista la difficoltà di tenere unite nella presidenza collegiale le repubbliche di Croazia, Slovenia e Serbia. Ma la preoccupazione del Papa è anche quella di evitare che il conflitto diventi occasione di uno scontro religioso, tanto che scrive subito al patriarca ortodosso serbo Pavle per dire: “noi sappiamo bene che il movente della guerra non è di indole religiosa, ma politica”. E precisa che è il nazionalismo esasperato la vera minaccia, nazionalismo che è la negazione del patriottismo, come sottolineò nel discorso al Corpo Diplomatico. Arrivarono poi l’annuncio della Comunità europea, 16 dicembre 1991, e della Germania, 23 dicembre, del riconoscimento dell’indipendenza di Croazia e Slovenia e poi della Santa Sede 13 gennaio 1992, nel rispetto degli accordi e dell’Atto finale di Helsinki della Conferenza sulla Sicurezza e la cooperazione in Europa. Ma questo non bastò ad evitare il conflitto, che, lo ricordiamo, scoppiò con tutta la forza di un odio impensabile, che portò alla pulizia etnica, alle deportazioni, alle violenze su donne e bambini.
Giovanni Paolo II chiama in causa l’Europa e la sua incapacità di operare nell’area dei Balcani; invoca il diritto all’ingerenza umanitaria “per disarmare chi vuole uccidere”, un diritto dovere che hanno gli Stati Europei e le Nazioni Unite; un diritto in favore dell’umanità e questo vale per tutti, cristiani e musulmani. Ed è chiara l’idea del Papa: una volta che tutte le possibilità offerte dai negoziati diplomatici siano state messe in atto e che, nonostante questo, delle intere popolazioni sono sul punto di soccombere sotto i colpi di un ingiusto aggressore, gli Stati non hanno più il diritto all’indifferenza, ma anzi sembra proprio che il loro dovere sia di disarmare questo aggressore. Non in primo luogo un intervento di tipo militare -precisa ancora il Papa per spiegare il principio dell’intervento umanitario - ma ogni tipo di azione che miri ad un disarmo dell’aggressore.
Il nuovo impegno per impedire il secondo conflitto nella regione mediorientale ha alle spalle queste prese di posizione e questi principi che, nel tempo, hanno dato vita ad un vero e proprio magistero del Papa contro la guerra e in modo particolare contro la guerra preventiva. Un impegno, dunque, che inizia ben prima di quel drammatico 11 settembre 2001: “Dinanzi ad eventi di così inqualificabile orrore non si può non rimanere profondamente turbati. Mi unisco a quanti in queste ore hanno espresso la loro indignata condanna, riaffermando con vigore che mai le vie della violenza conducono a vere soluzioni dei problemi dell’umanità. Ieri è stato un giorno buio nella storia dell’umanità, un terribile affronto alla dignità dell’uomo. Appena appresa la notizia, ho seguito con intensa partecipazione l’evolversi della situazione, elevando al Signore la mia accorata preghiera. Come possono verificarsi episodi di così selvaggia efferatezza? Il cuore dell’uomo è un abisso da cui emergono a volte disegni di inaudita ferocia, capaci in un attimo di sconvolgere la vita serena e operosa di un popolo.
Ma la fede ci viene incontro in questi momenti in cui ogni commento appare inadeguato. La parola di Cristo è la sola che possa dare una risposta agli interrogativi che si agitano nel nostro animo. Se anche la forza delle tenebre sembra prevalere, il credente sa che il male e la morte non hanno l’ultima parola. Qui poggia la speranza cristiana; qui si alimenta, in questo momento, la nostra orante fiducia”.
Instancabile poi, il suo sforzo per togliere qualsiasi venatura religiosa al terrorismo, ai conflitti, all’odio e alla violenza, commessi non in nome di Dio, ma oltraggiando il suo nome. Così non è un caso che parlando ad Astana, durante il viaggio in Kazakistan, Giovanni Paolo II utilizzi non la lingua parlata fino a quel momento del viaggio, ma l’inglese - la lingua, come dire, internazionale, per farsi capire ah di fuori dei confini del paese visitato - per dire: da questa nazione che è un esempio di armonia fra uomini e donne di diverse origini e fedi, “desidero lanciare un fervido appello a tutti, cristiani e seguaci di altre religioni, affinché cooperino per edificare un mondo senza violenze, un mondo che ami la vita e si sviluppi nella giustizia e nella solidarietà. La religione non deve mai essere usata come motivo di conflitto”. In un paese a maggioranza musulmana, Papa Wojtyla invita a distinguere fra terrorismo islamico, integralista, e l’autentico Islam. Il suo è il tentativo di non far decollare una crociata antimusulmana, di non confondere il nemico con il credente, con l’Islam che prega, che sa farsi solidale con chi soffre.
Viene da lontano, dunque, l’impegno contro la guerra di Papa Wojtyla, e poggia sui pilastri sicuri della Pacem in terris di Giovanni XXIII:
verità, giustizia, libertà e amore. Ai quali aggiunge il perdono inteso non tanto, e non solo, come gesto del singolo quanto dell’intera società. Non si ristabilisce appieno l’ordine infranto se non coniugando fra loro giustizia e perdono. “I pilastri della vera pace sono la giustizia e quella particolare forma dell’amore che è il perdono, che si oppone al rancore e alla vendetta, non alla giustizia. Il perdono potrebbe sembrare una debolezza, invece suppone una grande forza spirituale e un coraggio morale a tutta prova. Lungi dallo sminuire la persona, il perdono la conduce ad una umanità più piena e più ricca”.
Viene, dunque da lontano l’impegno di pace del Papa che ricorda come dalle ceneri della seconda guerra mondiale, con gli orrori e le terrificanti violazioni della dignità dell’uomo, si giunse ad un profondo rinnovamento dell’ordinamento giuridico internazionale. “La difesa e la promozione della pace furono collocate al centro di un sistema normativo e istituzionale ampiamente aggiornato. A vegliare sulla pace e sulla sicurezza globali, a incoraggiare gli sforzi degli stati per mantenere e garantire questi fondamentali beni dell’umanità, i governi chiamarono un’organizzazione appositamente costituita - l’Organizzazione delle Nazioni Unite - con un Consiglio di Sicurezza investito di ampi poteri d’azione. Quale cardine del sistema venne posto il divieto del ricorso alla forza. Un divieto che prevede due sole eccezioni. Una è quella che conferma il diritto naturale alla legittima difesa, da esercitarsi secondo le modalità previste e nell’ambito delle Nazioni Unite: di conseguenza, anche dentro i tradizionali limiti della necessità e della proporzionalità. L’altra eccezione è rappresentata dal sistema di sicurezza collettiva, che assegna al Consiglio di Sicurezza la competenza e la responsabilità in materia di mantenimento della pace, con potere di decisione e ampia discrezionalità”. È con questa consapevolezza che all’angelus del 23 febbraio dice: “E doveroso per i credenti, a qualunque religione appartengano, proclamare che mai potremo essere felici gli uni contro gli altri; mai il futuro dell’umanità potrà essere assicurato dal terrorismo e dalla logica della guerra. Noi cristiani, in particolare, siamo chiamati ad essere come delle sentinelle della pace, nei luoghi in cui viviamo e lavoriamo”.
L’impegno diplomatico non riesce a fermare il conflitto. Quando è ormai guerra, il portavoce vaticano Navarro Valls rilascia una dichiarazione ai giornalisti: chi decide che sono esauriti tutti i mezzi pacifici che il diritto internazionale mette a disposizione, si assume una grave responsabilità di fronte a Dio, alla sua coscienza e alla storia. E il 18 marzo, il 22 Papa Wojtyla dice: “Quando la guerra, come in questi giorni in Iraq, minaccia le sorti dell’umanità, è ancora più urgente proclamare con voce forte e decisa che solo la pace è la strada per costruire una società più giusta e solidale. Mai la violenza e le armi possono risolvere i problemi degli uomini”. E pochi giorni prima, nel mercoledì di digiuno delle ceneri, ecco che il Papa sposta lo sguardo sulle cause: ‘Non ci sarà pace sulla terra sino a quando perdureranno le oppressioni dei popoli, le ingiustizie sociali e gli squilibri economici tuttora esistenti. Ma per i grandi e auspicati cambiamenti strutturali non bastano iniziative ed interventi esterni; si richiede innanzitutto una corale conversione dei cuori all’amore”.
Di fronte ad un presidente, Bush jr., che mostra i muscoli e cavalca la cosiddetta guerra preventiva, cioè l’iniziativa armata contro i paesi produttori di armi di distruzione di massa e fomentatori del terrorismo, Giovanni Paolo II contrappone la sua offensiva di pace, che contesta la guerra preventiva perché non ha nulla a che vedere con il concetto di guerra giusta, con quella ingerenza che pure il Papa aveva sostenuto nella crisi dei Balcani. Così al Corpo Diplomatico, il 13 gennaio 2003 chiarisce meglio il suo pensiero sul conflitto e sulla crisi dell’intera regione mediorientale: “La guerra non è mai una fatalità; essa è sempre una sconfitta dell’umanità. Il diritto internazionale, il dialogo leale, la solidarietà fra Stati, l’esercizio nobile della diplomazia, sono mezzi degni dell’uomo e delle Nazioni per risolvere i loro contenziosi. Dico questo pensando a coloro che ripongono ancora la loro fiducia nell’arma nucleare e ai troppi conflitti che tengono ancora in ostaggio nostri fratelli in umanità. A Natale, Betlemme ci ha richiamato la crisi non risolta del Medio Oriente dove due popoli, quello israeliano e quello palestinese, sono chiamati a vivere fianco a fianco, ugualmente liberi e sovrani, rispettosi l’uno dell’altro. Senza dover ripetere ciò che dicevo l’anno scorso in questa stessa circostanza, mi accontenterò oggi di aggiungere, davanti al costante aggravarsi della crisi mediorientale, che la sua soluzione non potrà mai essere imposta ricorrendo al terrorismo o ai conflitti armati, ritenendo addirittura che vittorie militari possano essere la soluzione. E che dire delle minacce di una guerra che potrebbe abbattersi sulle popolazioni dell’Iraq, terra dei profeti, popolazioni già estenuate da più di dodici anni di embargo? Mai la guerra può essere considerata un mezzo come un altro, da utilizzare per regolare i contenziosi fra le Nazioni. Come ricordano la Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e il Diritto internazionale, non si può far ricorso alla guerra, anche se si tratta di assicurare il bene comune, se non come estrema possibilità e nel rispetto di ben rigorose condizioni, né vanno trascurate le conseguenze che essa comporta per le popolazioni civili durante e dopo le operazioni militari”.
Il no alla violenza e alla guerra passa, dunque, anche per i tanti appelli alla pace in Terra Santa dove, afferma il Papa, non servono muri ma ponti di dialogo. Ferma è la condanna del terrorismo, e altrettanto fermo è il no alla violenza. Quando arriva il terribile attentato di Madrid, l’orrendo crimine, Papa Wojtyla pronuncia parole forti: “Dinanzi a tanta barbarie si resta profondamente sconvolti, e ci si chiede come l’animo umano possa giungere a concepire misfatti così esecrandi. Nel ribadire l’assoluta condanna di simili atti ingiustificabili, esprimo ancora una volta la mia partecipazione al dolore dei familiari delle vittime e la mia vicinanza nella preghiera ai feriti ed ai loro congiunti”.
Nel silenzio della preghiera, l’immagine di un Papa inginocchiato nella cappella del Palazzo Apostolico, mentre nel mondo si osservano minuti di silenzio per le vittime di Madrid, torna alla mente il discorso del 13 gennaio 2003, al corpo diplomatico: “Sono impressionato dal sentimento di paura che dimora sovente nel cuore dei nostri contemporanei. Il terrorismo subdolo che può colpire in qualsiasi istante e ovunque; il problema non risolto del Medio Oriente, con la Terra Santa e l’Iraq E...] Ma tutto può cambiare. Dipende da ciascuno di noi. Ognuno può sviluppare in se stesso il proprio potenziale di fede, di probità, di rispetto altrui, di dedizione al servizio degli altri. Dipende chiaramente anche dai responsabili politici chiamati a servire il bene comune.
La paura non è certamente la migliore alleata della pace, al contrario genera sfiducia, sospetto, chiusura e spesso anche violenza. E allora ecco il messaggio della Pasqua 2003. Si spezzi la catena dell’odio: “Se un vento contrario ostacola il cammino dei popoli, se si fa burrascoso il mare della storia, nessuno ceda allo sgomento e alla sfiducia! Cristo è risorto; Cristo è vivo tra noi".


Fabio ZAVATTARO
Giornalista Vaticanista del TG1

 

 

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