[Articolo di Nicola Raimo, pubblicato in "Strade Ferrate", Novembre
1980, pagine 33-37]
Quella lunga notte del '44
Nicola Raimo
Sono trascorsi circa quarant'anni dalla spaventosa catastrofe del treno
8017, che ebbe il suo epilogo nella Galleria delle Armi, sulla Sicignano
degli Alburni-Potenza. Lungi da ogni morboso compiacimento
nell'indugiare su un così doloroso episodio, la Redazione di «Strade
Ferrate» ha ritenuto opportuno contribuire a ristabilire la verità
storica su un avvenimento, che, complice anche la censura del periodo
bellico, è rimasto per lungo tempo avvolto nel mistero. Il treno 8017
non deragliò, non ebbe uno scontro, non subì incendi: eppure sotto
quella che ancor oggi i ferrovieri chiamano la «galleria della morte»
perì un numero di persone superiore a quello di ogni altra sciagura
ferroviaria mai avvenuta: oltre cinquecento. Un potenziale assassino
c'era, in verità, ma assolutamente insospettabile: viaggiava sul tender
stesso delle locomotive, ed era lo scadente carbone utilizzato in quegli
anni. Il caso fece il resto, provocando una fatale divergenza di vedute
fra i macchinisti delle due locomotive nel momento cruciale di quella
notte del '44.
Il nostro collaboratore Nicola Raimo, avvalendosi anche della sua
personale conoscenza degli unici due ferrovieri sopravvissuti, ha
ripercorso per noi con competenza e cognizione di causa il succedersi
dei fatti che determinarono l'immane tragedia. Pubblichiamo il suo
racconto, così come egli l'ha raccolto dalla viva voce dei superstiti.
***
Era il 2 marzo del 1944. La guerra era da poco finita nel Sud della
penisola, ed anche in Campania. Da Napoli, quasi tutti i giorni si
formava un treno merci il cui numero di identificazione era 8017: era un
treno dispari itinerante, con destinazione Potenza. Quel giorno, era
formato da quarantasette carri, in parte chiusi, in parte pianali, in
parte alte sponde. Alcuni erano carichi, ma la gran parte erano vuoti,
tanto che ben presto vi si stiparono centinaia di persone: tutti
viaggiatori abusivi, che si recavano in quel di Potenza e provincia per
acquisti di derrate alimentari, per lo più da barattare con merci di
provenienza americana che a Napoli non mancavano, quali sigarette,
caffè, indumenti.
L'8 settembre 1943 non era lontano, e nonostante gli aiuti americani, a
Napoli e in tutta la Campania non c'era praticamente di che sfamarsi,
mentre in Lucania vi era scarsezza di generi di conforto, vestiti, ecc.
Mezzi pubblici e privati non ne esistevano più o quasi, perché requisiti
nel corso della guerra, e l'unico mezzo di trasporto rimaneva il treno:
merci o viaggiatori che fosse, qualunque convoglio era preso d'assalto.
Il governo alleato aveva fatto espresso divieto di servirsi dei treni
merci, ma la necessità era tale che molti rischiavano anche severi
provvedimenti.
Il treno 8017 giunse a Salerno con in testa un E. 626: qui si provvide
al cambio di trazione, essendo la linea Battipaglia-Potenza-Taranto non
elettrificata. Il Deposito Locomotive di Salerno si incaricava allora
del servizio fino a Potenza e sulla diramazione Sicignano degli
Alburni-Lagonegro. La locomotiva titolare dell'8017 era quella sera del
2 marzo la 476.038, una delle trentuno unità di stanza a Salerno a
partire dagli anni venti.
L'8017 partì da Salerno già carico di viaggiatori abusivi: a Battipaglia
la polizia militare americana ne fece scendere alcuni (che avrebbero poi
ringraziato la loro buona stella), ma nelle stazioni seguenti (Eboli,
Persano, ecc.) molti altri salirono sul convoglio.
Frattanto era giunta a Battipaglia, poco prima dell'arrivo dell'8017,
un'altra locomotiva diretta a Potenza come O. L. («orario libero») per
effettuare un altro merci di ritorno a Napoli: era la 480.016. Le
locomotive del gruppo 480 avevano prestato servizio dapprima sulla
Porrettana: quando questa linea fu elettrificata in trifase, esse furono
inviate ovunque servissero macchine di potenza ragguardevole (Brennero,
Sicilia, ecc.). A Salerno ce n'erano sei unità, e precisamente la 001,
003, 006, 007, 008 e 016.
Il Dirigente Centrale di Battipaglia pensò allora, per non effettuare
due treni sullo stesso itinerario e ben sapendo che l'8017, data la
pesante composizione, avrebbe richiesto da Baragiano il rinforzo in
coda, di disporre la 480 in doppia trazione in testa all'8017.
Il convoglio ripartì dunque alla volta di Eboli con in testa la 480.016,
su cui viaggiavano il macchinista Espedito Senatore («un grande
macchinista», per unanime ricordo di chi lo conobbe) e il fuochista
Luigi Ronga. Alla guida della 476.038 vi era invece il macchinista
Matteo Gigliano, coadiuvato dal fuochista Rosario Barbaro. Da calcoli
postumi si può presumere che il convoglio ospitasse oltre cinquecento
viaggiatori abusivi.
Era da poco passata la mezzanotte, quando il convoglio si fermò in una
sperduta stazioncina fra le montagne, il cui nome è destinato a rimanere
negli annali ferroviari: Balvano La stazione sorge in posizione
estremamente isolata proprio fra due gallerie (quella di Romagnano e
quella delle Armi): il centro abitato di Balvano dista oltre tre
chilometri. Subito dopo Balvano, la linea corre a mezza costa lungo la
valle del Platano, e la Galleria delle Armi segue lo stesso tortuoso
percorso: lungo i 1500 metri del tunnel non vi è un solo rettifilo. Solo
alla fine, essa presenta per una lunghezza di poche decine di metri una
serie di fornici che si affacciano sul Platano. Non essendovi pozzi di
areazione, la galleria, lunga e tortuosa, non aveva (e non ha ancor
oggi, anche con la trazione Diesel) una sufficiente ventilazione.
Alle 0.50 il convoglio ripartì da Balvano. Il capostazione telegrafò il
segnale di partito al collega della stazione successiva, Bella-Muro, che
l'8017 avrebbe dovuto raggiungere in circa 20 minuti. Ma da Bella-Muro
il giunto non arrivò mai.
L'8017 imboccò la galleria a circa 15-20 km/h (secondo i ricordi del mio
amico Ronga), procedendo su una livelletta del 13 per mille, quando
inspiegabilmente le sale delle due locomotive cominciarono a perdere
aderenza, nonostante i due macchinisti scaricassero abbondantemente
sabbia sulle rotaie.
A questo punto, una parentesi è d'obbligo. Prima dell'8 settembre 1943
il carbone utilizzato era di provenienza tedesca; poi, per la ben nota
situazione bellica, cominciò ad essere fornito dagli americani, che lo
facevano giungere a Salerno con la navi Liberty. Era un carbone di
piccola pezzatura contenente molto zolfo: ad avviso dell'amico Ronga la
sciagura deve appunto imputarsi alla pessima qualità del carbone.
Ma torniamo agli avvenimenti. I gas di combustione avevano saturato
l'aria della galleria a tal punto - ricorda Ronga - che la fiaccola ad
olio vegetale posta sugli strumenti si spense, e tutto piombò nel buio.
Il treno era giunto a circa metà della galleria delle Armi: le sale
delle locomotive, complice anche la forte umidità di quella notte di
marzo, continuavano a slittare, mentre i colpi di scappamento, sempre
più ravvicinati, risuonavano sotto la volta della galleria come
cannonate.
Ronga fu preso da un senso di nausea: sportosi dalla piattaforma
nell'intento di trovare una boccata d'aria ancora respirabile in quell'inferno
di fumo e di gas, perdette di colpo i sensi e precipitò dalla locomotiva
nella sottostante cunetta di scolo dell'acqua, che fiancheggiava il
binario. Rimase lì, svenuto, perdendo sangue da ferite alla testa e alle
braccia.
Il macchinista Senatore si trovò improvvisamente solo: colpito dai gas
venefici, si accasciò sul posto di guida - dove poi fu trovato -
lasciando il regolatore aperto e la leva d'inversione tutta avanti: di
fronte all'imprevista emergenza, aveva cercato di richiedere alla
macchina il massimo sforzo.
Appena un mese prima, un incidente mortale era occorso al macchinista
Vincenzo Abbate nella galleria tra Picerno e Tito, sempre sulla stessa
linea. Trovandosi con la sua 476 in servizio di spinta a un treno merci
già in doppia trazione, l'Abbate, nell'intento di respirare aria pulita,
aveva alzato la ribalta esistente tra macchina e tender e si era steso
bocconi: ma, colto da improvviso svenimento, era caduto riverso e aveva
trovato orribile morte col capo schiacciato tra macchina e tender; il
tutto sotto lo sguardo atterrito del suo fuochista, Giovanni Ariano, che
nulla aveva potuto fare data la fulmineità dell'accaduto.
Forse perché memore di quell'incidente, il macchinista della 476,
Gigliano (anch'egli macchinista di grande esperienza, un «big» della
trazione a vapore) cercò invece disperatamente di retrocedere. Rovesciò
la leva d'inversione «tutta indietro», e questo fu il momento culminante
della tragedia. Data la potenza della 476 e con l'aiuto del peso stesso
del treno, Gigliano sarebbe sicuramente riuscito a portare fuori della
galleria il treno, anche se la 480 era rimasta disposta per la marcia
avanti e col regolatore aperto: ma non ne ebbe il tempo, forse per
pochi, decisivi secondi. Sopraffatto dai gas, non riuscì ad aprire il
regolatore e perì anche lui al posto di comando insieme al suo
fuochista.
Come ben ricordo per avervi più volte viaggiato, i comandi della 476
erano a destra: il regolatore aveva la leva a sciabola e l'asta di
comando scorreva in due grossi anelli, la leva d'inversione era a vite
senza fine, ma a manovella. È bene anche dire che la valvola del
regolatore non era la «Zara», ma aveva invece due aperture, la prima e
la seconda, con due piastre a slitta scorrenti l'una sull'altra in modo
tale che aprendo la prima, restava chiusa la seconda e viceversa. Questa
valvola veniva continuamente lubrificata da un oliatore funzionante a
vapore, posto nel duomo, che era assai poco capiente, tanto da dover
essere rifornito molto frequentemente. Nonostante tale lubrificazione,
il comando - lo ricordo bene - era quanto mai duro sia per l'apertura
che per la chiusura: un particolare questo che, con il macchinista allo
stremo delle forze, ebbe forse la sua importanza in quella tragica
notte.
Col personale di condotta ormai impotente, l'ossido di carbonio
contenuto nei gas di combustione saturò completamente la galleria,
conducendo silenziosamente all'asfissia i viaggiatori, per lo più
addormentati. Dei ferrovieri, insieme a Ronga si salvò soltanto il
frenatore di coda Roberto Masullo. L'8017 aveva infatti frenatura mista:
metà col freno continuo Westinghouse e metà a mano. Masullo occupava
appunto la garitta del carro di coda, rimasta per fortunata coincidenza,
insieme ad altri due carri, fuori della galleria. Quando la sosta si
prolungò al di là del normale, Masullo scese e risalì per qualche decina
di metri il tunnel e, resosi immediatamente conto della tragedia, fu
l'unico a mettersi in marcia verso Balvano per chiedere soccorsi. Ma la
sua fu un'autentica odissea: in piena oscurità, correndo a fatica sulla
massicciata, egli dovette riattraversare le due più brevi gallerie che
precedano quella delle Armi, ancora sature di fumo e di gas. Quando
finalmente, verso le due di quella notte, giunse in stazione di Balvano,
riuscì soltanto a gridare «Laggiù sono tutti morti, tutti morti!» prima
di cadere a terra svenuto.
Da Balvano partirono immediatamente i soccorsi. «Quando cominciai a
riprendere i sensi - ricorda ancora Luigi Ronga - vidi una luce venirmi
incontro: era il capostazione di Balvano, Ugo Gentile (oggi Capo
Stazione sovrintendente a Battipaglia), che, presomi quasi in braccio,
mi trascinò fino alla stazione, dove la moglie dell'allora capostazione
titolare - non ne ricordo il nome - mi fece bere più di una bottiglia di
latte, cosa di cui le sarò sempre grato perché cominciai quasi subito a
sentirmi meglio».
«La notizia della sciagura - continua Ronga - volò attraverso i fili del
telegrafo e del telefono e giunse anche a mio padre, anch'egli
macchinista a Salerno. Disperato, egli si precipitò a Balvano col treno
soccorso condotto dal signor Cicalese, per cercarmi tra i morti.
Fortunatamente mi trovò vivo: avevo appena vent'anni e vivevo ancora con
lui...».
L'8017 fu trainato a ritroso fino a Balvano. Fu spento il fuoco sulle
locomotive, e iniziò la pietosa opera di composizione dei morti, che
furono allineati sulla banchina tra il primo e il secondo binario. Erano
517. Gran parte delle vittime non fu mai identificata, anche se è noto
che molti di essi provenivano da grossi comuni napoletani: Torre del
Greco, Portici, Torre Annunziata. Molti erano anche i salernitani. Tutti
furono sepolti in fosse comuni presso il locale cimitero. Si ha notizia
di alcuni superstiti, che però si affrettarono ad allontanarsi dal luogo
della sciagura per timore di denunce da parte della polizia militare.
Quanto ho scritto mi è stato raccontato con precisione di dettagli dal
superstite e amico Luigi Ronga, in presenza dell'ancor lucidissimo
padre, ormai da tempo in pensione. Conferme mi sono giunte anche
dall'altro carissimo amico ed ex macchinista Eduardo Durso, che il
giorno dell'incidente si trovava a Taranto con l'incarico di acquistare
delle derrate alimentari per la Cooperativa ferrovieri dl Salerno.
«Viaggiavo sulla locomotiva gruppo 735 del Deposito Locomotive di
Taranto - ricorda Durso - come ospite, diretto a Potenza. Da Taranto
avevo telefonato a Salerno per richiedere del denaro, in quanto a
Ferrandina stavo contrattando una partita di olive nere. Ricordo che a
Salerno costavano 30 lire al chilo a »borsa nera», mentre a Ferrandina
potevo acquistarle per sole 8 lire. Da Salerno mi rispose il macchinista
Rispoli, allora presidente della Cooperativa, assicurandomi che mi
avrebbe fatto pervenire a Potenza la somma di 30.000 lire, affidandola
al macchinista dell'8017. Giunto a Potenza, appresi della sciagura e col
primo treno disponibile mi recai a Balvano. Non mi soffermo sul tragico
spettacolo, già descritto da Ronga. Il povero Gigliano non aveva mancato
all'impegno: la somma che avrebbe dovuto consegnarmi fu infatti trovata
tra le sua biancheria di ricambio, in una delle casse armadio poste sul
tender della 476...».
Il Comando alleato che aveva sede a Potenza aprì immediatamente
un'inchiesta. Furono eseguite delle prove sullo stesso percorso e con lo
stesso carbone, con personale fornito di maschere a facciale: anche in
tale occasione si svilupparono rilevanti quantità di ossido di carbonio.
L'inchiesta fu quindi chiusa, attribuendo alla cattiva qualità del
carbone ogni responsabilità, anche se la pesante composizione del treno
e la poco felice ubicazione delle due locomotive, entrambe in testa al
treno, contribuirono senza dubbio alla sciagura.
In seguito all'incidente, la prestazione sulla linea delle 476 fu
ridotta da 420 tonnellate a 370 tonnellate con tassativo divieto della
doppia trazione e della spinta in coda: si stabilì un servizio di
vigilanza ai due imbocchi della galleria delle Armi, per la riconosciuta
inefficienza della ventilazione naturale, fissando altresì in sessanta
minuti l'intervallo minimo fra convogli con trazione a vapore. Dal 1959
queste precauzioni sono state abolite con l'entrata in servizio di nuove
locomotive Diesel.
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[Pubblicato in "Calabuscia" di Gennaro Francione, Roma, Aetas
Internazionale, 1994]
Gennaro Francione, giudice e scrittore, nel suo romanzo Calabuscia
racconta la rocambolesca fuga di Gennaro e Vincenzo nell'Italia
sconvolta dalla guerra.
Per sua gentile concessione possiamo pubblicare il brano del romanzo nel
quale viene descritta la tragica fine di Giulia, nonna di Gennaro
Francione, morta sul treno 8017.
Così va l'Italia in guerra. Si dibatte come un serpe colpito a morte
per cercare con guizzi estremi di risorgere e scampare alla tragedia
finale che si annida passo dopo passo.
Intanto dopo un gelido febbraio il paesaggio sembra ridestarsi, con le
prime forme floreali colorate pronte a dare i primi spruzzi della nuova
gioia solare.
In questo tempo, quando gli uccelli tornano sui tetti delle case
crollate a cantare il loro canto di rinascita, mia madre viene ancora e
se ne va. Una sera, una maledetta sera, una come tante, donna Giulia
parte per non fare più ritorno.
Tutto è accaduto.
Oggi è venerdì 3 marzo. Donna Giulia sarebbe dovuta partire ieri per
Baragiano, ma un negozio era sfornito di biancheria, per cui ha dovuto
rimandare a oggi la partenza. Papà l'accompagnerà. Per questo stamattina
vado da solo a lavorare al porto e già nella pallida luce dell'alba
bacio mia madre che fa capolino tra i cuscini, sussurrandole:
"Mammà, ve voglio tanto bbene!".
"Pur'io figlio mio! Và và, ce vedimmo tra quinnece juorne!".
A queste parole dal lettone si leva la mano di papà che mi carezza tra i
capelli, bisbigliandomi con la voce impastata di sonno:
"Ce vedimmo stasera Vicié. Bona jurnata!".
Li bacio tutti e due, i miei amati, e volo via.
Mentre il tram sferragliando avanza verso Napoli, fermando a ogni
stazione per prendere gli assonnati lavoranti, sono immerso tra immagini
oniriche e pensieri strani.
Talora apro gli occhi e mi lascio abbagliare dall'alba che là fuori è
chiara chiara. Sembra proprio che oggi sarà bello.
E infatti quando le ore del giorno si affacciano sul porto, dopo che già
ho cominciato a scaricare da una nave, il mondo è inondato da un tempo
che di prima mattina è decisamente uno schianto. Ha cominciato con una
gran sole che spaccava le pietre e l'aria tiepida come se si fosse a
maggio.
Poi in coperta, mentre trascino casse di liquori, qualcosa cambia. Vedo
l'aria invasa da stormi di gabbiani che gracchiano come impazziti e, a
questo sinistro presagio, si aggiunge laggiù, oltre il faro, una massa
di nuvolaglia scura e minacciosa.
Improvvisamente si leva un gran vento di mare e provoca ondate talmente
forti che la nave su cui sto lavorando sbatte furiosamente contro il
molo, e quasi sembra che voglia spezzare gli ormeggi.
Tutto questo ribaltamento della natura mi dà un senso d'inquietudine
crescente, che cerco invano di spiegare col fatto in sé della repentina
bufera. Presto saprò cosa ho letto nello scatenarsi degli elementi sulla
mia testa.
Da questo momento come in un incubo ricostruisco, volando simile a un
fantasma sugli avvenimenti cui non ho partecipato in prima persona,
tutto quanto è accaduto.
E' quasi l'una. Don Gennaro e la moglie reggendo le mappate di cose
scendono dal tram. Facendosi strada tra il diluvio d'acqua che si sta
abbattendo sulla città, corrono per quello che possono con tutto quel
carico ed entrano trafelati nella stazione di Napoli.
Don Gennaro è intriso d'acqua comm' a nu purpetiell' e va bestemmiando:
"Mannaggia 'o pataturco! Isso e ll'acqua!".
Mia madre si è coperta bene con il lenzuolone imbottito di biancheria
che ha messo sulla testa, e ha subito meno danni.
Il treno sta appena appena per partire. Lo vedono laggiù col capotreno
che già serra alcune porte.
"Curre Giulia! Curre!" fa papà, tirandole via anche l'ultima mappata di
roba e lasciando che la compagna corra verso l'ultimo carro merci, dove
alcune mani si protendono ad aiutare il passeggero ritardatario.
Arrancando con le sacche che lo sballonzolano di qua e di là, e che sono
tante da farlo sembrar avere non due ma cento mani, trafelato arriva
anch'egli sotto il treno col capotreno che invita:
"Ampressa, facite ampressa!".
Mammà da là sopra aiuta papà a scaricare la roba all'interno del
convoglio. Indi anche lui si arrampica ed entra. Ha ancora il tempo di
aiutarla a sistemarsi in un posto libero tra il fieno,facendosi strada
tra la ressa di viaggiatori accaldati e puzzolenti per accalcare la roba
in un angolo.
Fiii, fiii! E' il fischio del capotreno che assale l'alzata dell'ultimo
carico, tanto che donna Giulia invoca:
"Gennà fa' subbeto! Ca 'o treno parte!".
"Vaco, vaco". Mio padre getta le braccia al collo di mamma la bacia, la
stringe, scappa via, e salta giù che già il treno comincia a muoversi.
Poi da laggiù prende a salutarla e a lanciarle un bacio nascosto, mentre
lei sporgendosi dalla porta con gli occhi lucidi agita, in mezzo a mille
altri mani vorticanti, il fazzoletto del giorno delle nozze.
Ciuf, ciuf, ciuf. La locomotiva a carbone ansimando trascina il pesante
convoglio sul binario e lancia il suo fumo che penetra acre nei carri
merci, andando a infilarsi negli spazi d'aria liberi lasciati dai nugoli
di viaggiatori. Si tratta di maschi adulti, ma soprattutto di donne,
vecchi, bambini con accanto i loro mucchietti di cose personali o da
contrabbandare.
Ancora il destino tesse le fila dei poveri mortali.
Questo treno, uno dei pochi messi a disposizione dei civili, segue la
routine e viene sovraccaricato per le necessità del trasporto militare.
Come se non bastasse il peso già eccessivo di cose, mezzi bellici e
uomini, a Salerno vengono aggiunti altri carri merci al convoglio,
alcuni anch'essi ricolmi di passeggeri. A seguito di queste manovre la
carrozza di mia madre che fortunatamente per il ritardo era l'ultima
diventa centrale.
Donna Giulia pensa al marito, a me, al giorno in cui tutta la famiglia
si riunirà a Torre e quando assiste all'aggiunta di vagoni quasi
ringrazia il Signore. Stando al centro potrà scendere a Potenza sulla
banchina, e con tutta quella roba ingombrante e pesante non dovrà fare
un lungo tratto a piedi sui binari. Ahimè cara mamma come le cose
s'intrecciano in assurdi grovigli per cui, come il tempo di marzo, tutto
si trasforma repentinamente, il male in bene e il bene in male.
Tutto quello che era scritto accade nella galleria di Balvano. Là si
ferma il treno,nel buio della notte che è ancora più cupa nel tunnel
della morte eterna. La locomotiva allo stremo si arresta per l'eccessiva
zavorra di uomini e cose trasportate, che impedisce di montare in
salita. Il fuochista, in minuti di follia che coinvolge anche il
macchinista, non fa che alimentare il mostro infernale, il quale invece
di sprizzare energia continua a sputare fuoco e fumo tanto da invadere
sempre più la galleria.
Sulle prime nei vagoni tutti i passeggeri si sono accorti che il
convoglio si è fermato e sono inquieti, anche se non sanno bene cosa
stia succedendo. Nell'oscurità totale degli antri metallici ricolmi di
uomini e cose volano borbottii, commenti,lamenti, bestemmie. Solo alla
fine, quando il fumo invade l'ambiente in maniera sempre più fitta e la
gente prende a tossicchiare, il panico comincia a diffondersi, anche se
ancora nessuno osa muoversi. Il non sapere cosa stia succedendo
impedisce d'intuire il cosa fare.
Giulia nel suo cantuccio si afferra al fazzoletto e lo stringe alla
bocca fino a farsi male, mentre tra sé e sé barbuglia:
"Madonna mia! Nun voglio murì! Damme a Gennaro ancora!".
Le zaffate di fumo divengono sempre più spesse. Ora tutti tossiscono, le
donne si disperano e gridano:
"Ch' è succieso?!".
"Che sta venenno?".
"Scappamme! Chist' è bbeleno!" urla alla fine un vecchio.
"Fuimme genta gè!" fa eco una popolana.
Come una valanga, sbraitando, spingendo, coi bambini piangenti che
strillano nel buio "Oi mà! Mammà!", tutti si avviano verso il varco
ligneo e si buttano giù.
Donna Giulia ha un attimo d'indecisione e si schiaccia contro la parete
mentre bisbiglia:
"'A rrobba!".
Svelta si accuccia per terra, ma invano si allunga cercando di
aggrapparsi almeno al manico del sacco con la biancheria. Viene subito
travolta dalla massa e, sospinta via, cade giù dal treno, andando a
finire su una pietra. Con la gamba dolorante, con le labbra attaccate al
fazzoletto, prende ad avanzare insieme agli altri che ora si sono
sparpagliati in fila indiana. I giovani più veloci corrono avanti, ma
molti di loro sono rallentati proprio per dare aiuto ai loro vecchi e ai
bambini.
Si avanza al buio palpando con le mani ora il ferro freddo del convoglio
ora il muro umido della galleria, mentre il fumo diventa sempre più
intenso e acre e ha ormai completamente invaso lo spazio, che sembra
nello scurore immane l'antro stesso dell'inferno. Molta gente tossisce
in rigurgiti sempre più spasmodici, e presto i primi fuggiaschi
cominciano a cadere, sicché urlando e piombando giù quelli che vengono
dietro si trovano innanzi, nuovi ostacoli, i corpi delle prime vittime
asfissiate e falciate dai gas venefici. E allora nel contatto ecco
elevarsi nuovi sinistri ululati di donne e pianti di bimbi.
Donna Giulia ha appena il tempo d'intravedere laggiù lontano uno
spiraglio minuscolo macchiato da un raggio bluastro e di pensare: "Chella
è a luna!", che piomba a terra in mezzo ad altri corpi per non più
rialzarsi.
Dopo la galleria della strage c'è la stazione di Balvano. Là invano il
capostazione e alcuni parenti di passeggeri stanno in attesa del treno
notturno. Quando il ritardo diventa preoccupante il dirigente fa
scattare l'allarme e invia una locomotiva di soccorso.
Quale spettacolo orrendo si para innanzi agli occhi del macchinista!
Davanti alla sua motrice spunta ancora fumante la testa del convoglio,
sinistramente immota. Sotto di lui sbucano da chissà dove i conducente
del treno che, agitando le mani,gridano:
"Aiutateci! E' una tragedia!".
Sceso rapido con gli uomini del soccorso armati di torce, il
macchinista, con l'aria che è tornata appena respirabile,li guida
all'interno del tunnel, dove presto si parano davanti agli occhi, tra i
fasci di luce, i nugoli di cadaveri riversi, anneriti, con le bocche
spalancate alla vana estrema ricerca di quell'aria che non c'era più.
Molti, i più vecchi, neppure si sono mossi dai loro giacigli notturni
sui convogli. Li trovano là attaccati alle loro cose, immoti tra quella
marea fuggiasca di commercianti di guerra, con la testa appoggiate ai
loro lenzuoli, alle valigie,aggrappati alle cose della sopravvivenza nel
baratto.
Che macabro spettacolo! Sono quasi tutti morti i passeggeri della
miseria in quella grigia alba tra le montagne brulle. Solo quelli che,in
coda, erano vicini all'uscita della galleria, sono riusciti a salvarsi.
Li trovano là fuori allo sbocco opposto della galleria urlanti,
piangenti, con la bocca piena di parole di grazia ricevuta dalla Madonna
e dal Signore.
Capite allora la mia rabbia, il mio dolore per un destino beffardo che
pose mia madre prima in coda al convoglio, per poi farla ritornare al
centro del treno maledetto?
Presto arrivano sul posto altri soccorsi. Accorrono i Carabinieri, ma
anche volontari, venuti fuori dalla gente comune che è stata risvegliata
dal suono sinistro delle campane, lanciato nel sinistro dilucolo da
preti e sacrestani nelle un dì placide chiesette di campagna. Qualcuno
ha temuto attonito un implausibile attacco aereo.
Alla fine tutti si prodigano a recarsi sul luogo del disastro. Qui non
rimane che attuare l'opera pietosa di ricaricare i nugoli di corpi sul
treno della morte, che solo nell'alba avanzata viene trascinato come una
lunga inesauribile bara nella stazione di Balvano.
Sulle ali di un vento che reca con sé ancora la puzza dei fumi e dei
cadaveri arriva orrenda la notizia. E' la voce popolare che la
trasmette, non la radio che tace, né i giornali che non ci sono ancora.
Come un seme una voce singola che avrà attinto la notizia dal posto
della sciagura, ha cavalcato su un treno, su una corriera, su un tram
arrivando infine a Napoli, dove il germe dell'informazione dilaga come
la peste, arrivando a colpire i nostri orecchi e trafiggendo i nostri
cuori.
"Sapite?" annuncia la gente. "S'è ffermato nu treno della linea
Napoli-Potenza sotto 'a galleria 'e Balvano e so' morte 600 persone
soffocate dai gas venefici".
600 persone. Maledizione! La mamma, dov' è la mamma? Si sarà salvata.
Stiamo scaricando roba quando la notizia ci arriva. Mio padre è pallido
come un cencio; io mi sento quasi svenire.
Don Gennaro va a parlare col marinaio americano, il quale gli dice con
un gesto della mano contrito:
"Oooh! go! go!".
Poi papà mi viene accanto e con durezza, mentre lo fisso negli occhi
come imbambolato, mi sussurra:
"Vicié, mammete è bbiva! E' bbiva l'haje capito! L'avimme 'a credere...
è bbiva!".
"Sì papà è bbiva...".
"Tu và a casa pe' oggi. Pensa a nonna e cunzulala si ha saputo 'a
nutizia. O si no nun dicere niente. I' vaco a Balvano".
"Voglio venì pur'io".
"No, fa' cumme t'aggio ditto. Pens' 'a nonna. Pensa a faticà pe' cchelle
povere creature che stanno sole a Baraggiano e hann' 'a mangià".
Si è controllato, ma ora non ce la fa più e gli vengono le lacrime.
"Và Vicié, và".
Mi vede andar via e lui sta sul molo, piangente. Mi volto e sta ancora
là. Procedo mi volto di nuovo e già lui si muove, ora, prima lento e poi
a passo sempre più veloce. Su quel vento che ha portato la fera notizia
vorrebbe volare per raggiungere la sorte della sua amata.
Ed eccolo don Gennaro che con mezzi di fortuna: camion, macchine,
carrette, il pomeriggio inoltrato è già alla stazioncina di Balvano.
Nella saletta d'attesa c'è gente che piange, con urla strazianti,
consolata da parenti e amici. Quando papà intravede i corpi ammassati
sulla banchina, rigira la testa verso i vivi che operano poco distante.
Sì, là vuole, là deve cercare perché Giulia "dev'essere viva"!
Corre verso i carabinieri che stanno stendendo i rapporti e chiede
informazioni sui sopravvissuti:
"S'è salvata na certa Giulia Francione?" chiede a un capitano dei
militi, che controlla la scarna lista scuotendo la testa.
"Vedite bbuono capità..." insiste, cercando egli stesso di mettersi con
la testa nel foglio per leggerci chissà cosa, egli che è semianalfabeta.
L'altro lo fissa con tristezza, riprende a scorrere con cura la lista,
indi rialza gli occhi e sussurra:
"No, non c'è proprio. Mi dispiace...".
Con le spalle cascanti l'uomo di Torre si lascia indirizzare da quello
sguardo velato dell'autorità e si avvia mogio mogio verso la zona della
morte, seguito da un gruppo di giovani carabinieri.
Eccolo là ora accanto alle cataste di corpi. I cadaveri sono stati
ammassati a formare tre montagne, dividendo con gran coraggio le femmine
dai maschi, distribuiti a loro volta in due mucchi per il loro maggior
numero.I militi invitano papà, com'essi fanno, a indossare una
mascherina sulla bocca, indi lo aiutano a cercare naturalmente tra le
donne, ma Giulia non si trova.
"Cercamme! Cercamme bbuono" fa ai giovani aiutanti che continuano a
spostare corpi. L'operazione è lunga e dura una buona mezz'ora, ma
Giulia non c'è proprio. Per un attimo il volto gli si illumina: è
possibile che si sia salvata. Ma allora dov'è?
"Nun ce sta! Nun ce sta! Fosse gghiuta 'o spitale?".
"E' possibile" risponde un giovane con accento nordico. "Può darsi che è
saltata nella lista perché l'hanno portata subito via".
Senza frapporre indugio papà esce dalla stazione e si porta direttamente
dall'appuntato che coadiuva il capitano dirigente le operazioni.
Ponendolo a parte del problema ottiene di essere portato immediatamente
in caserma con la camionetta.
Là s'incolla al graduato che s'è attaccato al telefono. Chiamano due,
tre,cinque ospedali della zona, compresi quelli di Potenza. Niente da
fare... Di Giulia non c'è traccia.
"Muglierema! Addò sta muglierema".
L'appuntato, un pagnottone dall'aria buona, si alza dal suo posto,
depone la cornetta e prende per le spalle il pover'uomo suggerendogli
con un sospiro:
"Mi dispiace. Ma c'è un posto dove non avete ancora cercato".
"Addò..." soggiunge Gennaro terreo, fissando in quegli occhi grandi una
luce di speranza che non c'è.
"Tra i cadaveri dei maschi".
Ed eccolo di nuovo sulla banchina approssimarsi con una morsa al cuore
alla prima catasta di corpi maschili. Questa volta la ricerca è breve.
Solito rituale della mascherina, coi carabinieri che ora vengono aiutati
dallo stesso appuntato che ha preso a cuore il caso. Sposta di qua, tira
via di là, i cadaveri con gli occhi sgranati sulla morte tra le masse
scure di fuliggine vengono rimossi a uno a uno. Ed ecco che d'un tratto
papà vede spuntare una testa avvolta da un fazzoletto. Il suo cuore ha
un sussulto.
E' una donna! E il fazzoletto è quello delle nozze che la povera donna
si è stretta al capo, quasi per cingersi idealmente in quella stoffa
nell'ultimo abbraccio di Gennaro. E Gennaro si getta su quel fazzoletto,
su quel viso abbracciandolo. Come un forsennato si toglie la mascherina,
bacia il nero fumo e le labbra ancora belle, e il naso regolare, mentre
già i carabinieri lo tirano via e l'appuntato lo consola.
Papà piange coprendosi il volto con le mani, mentre i giovani provvedono
a tirare via prima lui e poi il corpo, che ricompongono devotamente
nello spiazzo poco oltre. Ora Giulia è là ai suoi piedi. E l'amato
ancora si getta su di lei e l'abbraccia e piange.
Stavolta nessuno osa toccarlo. Vanno via i militi, in silenzio.
Lasciandolo solo col suo dolore, col suo amore senza confini chiuso per
sempre in quel fazzoletto di nozze che la madonna, per una strana grazia
pur nella morte, ha lasciato incredibilmente bianco.
Tutti i corpi sono stati trasportati fuori del piccolo cimitero di
Balvano.Dopo l'estremo saluto, un prete è venuto a officiare nella
cappelletta adiacente al camposanto la santa messa per i defunti.
Ora mio padre neppure sente più gli strazi degli altri parenti, lui da
solo là col suo dolore, incollato con gli occhi al corpo che già viene
tumulato insieme a tutti quanti gli altri. Hanno scavato tre fosse
comuni a forma di pi greco: ai lati gli uomini e in capo le donne.
Ora la terra gettata giù a forza con le pale già cade a ricoprire le
spoglie di questi compagni di sventura. Ora il vento agita il fazzoletto
che papà stringe tra le mani e un canto lontano si leva nel suo cuore a
modulare nell'eterno tre parole, note per una musica del paradiso:
"Addi' donna Giulia. Addi'".
Al lamento del papà, solo mi unisco, e anch'io elevo col flicorno un
canto silente che si fa parole d'infinito amore. "Aspettami, mamma,
aspettami. Ci rivedremo da qualche altra parte. Aspettami".
Pà-pà-pà. Pà-pà-pà. |
[Articolo di Pietro Spirito, pubblicato in "Linea Treno", Febbraio
1995, pagina 29]
Cronaca di un disastro annunciato
di Pietro Spirito
Mario Restaino, in un libro di grande interesse storico, Un treno,
un'epoca: storia dell'8017 (Melfi, 1994), si cimenta nella ricostruzione
delle fasi della tragedia di Balvano, inquadrandola nel periodo in cui
si svolge, restituendo al lettore, attraverso ricordi ed immagini, la
precarietà di quegli anni difficili.
La tragedia matura nelle condizioni di viaggio di un Paese devastato
dalla occupazione e dalla guerra. Due settimane prima dei fatti, il
sottosegretario di Stato alle comunicazioni per le ferrovie, la
motorizzazione ed i trasporti in concessione, Giovanni Di Raimondo (nel
dopoguerra diventerà direttore generale delle Ferrovie) segnalava che il
treno bisettimanale per viaggiatori civili Bari-Napoli "si è dimostrato
assolutamente insufficiente rispetto alle esigenze della numerosa
popolazione delle regioni attraversate".
Sulla stessa tratta, il 10 gennaio 1944, si era verificato un incidente
mortale, costato due vite e sei feriti. Così racconta questo episodio,
nel suo rapporto, il capitano dei carabinieri Aldo Giannone: "Sportello
aperto vettura treno viaggiatori 7144 Polignano-Bari per forte urto
contro carro merce fermo, staccavansi ed alcuni viaggiatori, che causa
affollamento trovavansi sul predellino, cadevano". C'erano quindi i
segnali di una situazione precaria nei collegamenti ferroviari lungo la
linea. Ma, in un clima difficile come quello della guerra, era
estremamente complesso attivare meccanismi di prevenzione e di
intervento. Cosi si arrivò alla tragedia del treno 8017.
La notizia della tragedia rimbalza in Italia da Lisbona soltanto alcuni
giorni dopo, con un comunicato della Reuters ripreso dai giornali
nazionali. Anche questo dato sta a testimoniare la precarietà dei tempi
e la difficoltà con la quale le informazioni circolavano. Mario Restaino,
nel suo sforzo di ricostruzione degli eventi, riporta anche brani
dall'elenco degli oggetti rinvenuti da persone sconosciute sul treno,
dopo la tragedia.
È uno spaccato della povertà di un'Italia divisa, dedita al commercio
per la sopravvivenza, largamente condizionata dal mercato nero che era
diventato la forma principale di transazione.
Negli oggetti sequestrati dai carabinieri dopo l'incidente si leggono in
filigrana le microstorie di quel tempo: 28 kg di salsa sfusa, 25 kg di
salsa in lattine, 50 kg di frutta, 15 scatolette di salsa, 15 kg di
tabacco in foglie, 22,7 kg di sigari toscani, 3 kg di sigari di Roma, 19
kg di sigari toscani e mezzi sigari, 6,25 kg di fiammiferi di zolfo.
In una notte di marzo del 1944 l'incidente di Balvano spezzò quel
commercio e tante vite umane. Ne rimane oggi, anche grazie al pregevole
lavoro di Restaino, la memoria. Al libro mancano le relazioni tecniche
delle Ferrovie dello Stato e i documenti del governo alleato. L'autore
ha cercato, senza riuscirvi, di consultarli. È una ricerca che varrebbe
la pena di continuare.
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[Articolo di Renzo Pocaterra, pubblicato in "Linea Treno", Febbraio
1995, pagina 26-29]
La notte tra il 2 e il 3 marzo 1944, il treno 8017 partì da Balvano e,
tragicamente, non arrivò mai alla stazione successiva. Uno dei più gravi
e misteriosi disastri ferroviari della storia, ma anche un drammatico
fascio di luce gettato sulle condizioni di vita di un paese sconvolto
dalla guerra.
Balvano: anatomia di un mistero
di Renzo Pocaterra
La Battipaglia-Potenza ha un triste primato. Cinquanta anni fa, nella
notte fra il 2 e il 3 marzo 1944, fra le stazioni di Balvano e
Bella-Muro, ebbe luogo il più tragico incidente della storia delle
Ferrovie italiane e uno dei più gravi nel mondo. Con precisione non si è
mai saputo cosa sia realmente avvenuto né il numero delle vittime che
certamente furono più di cinquecento.
La vicenda è stata ricordata in alcuni articoli di giornali e riviste e,
quest'anno, in un libro di Mario Restaino che merita una segnalazione
soprattutto perché, forse per la prima volta, mette in luce le vere
cause della tragedia (vedi recensione a pag. 25).
Cerchiamo ora di rievocare quei fatti con un'attenzione particolare agli
aspetti ferroviari, rimandando i lettori interessati agli aspetti umani
della tragedia, alla lettura del libro. Il 1944 fu il peggiore dei
cinque terribili anni della seconda guerra mondiale.
Se al nord la popolazione era nella morsa della guerra e della fame, al
sud si combatteva solo la fame che però era tanta. Il valore dei beni
era quotato alla borsa nera secondo la logica della sopravvivenza. A
Napoli venivano sbarcati gli approvvigionamenti delle Forze Armate
Alleate: un fiume di ricchezza che passava sotto gli occhi di una
popolazione che non aveva più nulla.
Quello che successe sconfina nella leggenda ed è già stato raccontato.
Meno noto è il traffico che potremmo definire indotto, fra la costa e
l'interno dove alcuni beni erano introvabili a causa delle difficoltà di
comunicazione. Le ferrovie, unico mezzo di trasporto, erano in mano al
Servizio Ferroviario Militare delle Forze Armate Alleate che se ne
servivano principalmente per le necessità belliche. Per i civili vi
erano pochissimi treni e per salirvi era necessaria una speciale
autorizzazione.
Fra Bari e Napoli, ad esempio, erano stati concessi due treni la
settimana con un massimo di 600 persone per ogni treno. Tutti i treni
venivano presi sistematicamente d'assalto e ben poco potevano fare i
militari di scorta ai convogli o di guardia nelle stazioni. Ecco perché
il treno 8017, merci Napoli-Battipaglia-Potenza, partì da Balvano alle
0,50 del 3 marzo 1944, trainato da due locomotive e composto da 12
vagoni carichi e 35 vuoti nei quali si era introdotto un numero
imprecisato di persone, probabilmente attorno alle 600.
Non arrivò mai a Bella-Muro. E qui si affaccia il primo mistero della
vicenda. L'esercizio della linea era a dirigenza locale. La distanza fra
le due stazioni è di 8 chilometri. Soltanto alle 2,40, dopo quasi due
ore, i dirigenti movimento delle due stazioni si misero in contatto
telegrafico perché mancava il "giunto", il prescritto dispaccio da parte
di Bella-Muro a Balvano che il treno 8017 era arrivato regolarmente.
Alla constatazione che il treno era ancora in linea non seguì nulla.
Tutte le rievocazioni concordano sull'assoluto disinteresse delle due
stazioni ad accertare i fatti. Nessuno diede l'allarme, nessuno andò a
vedere.
Soltanto dopo le 6 venne inviata da Balvano una locomotiva di soccorso.
Il treno 8017 venne trovato sotto la galleria "delle Armi", lunga 1966
metri. Soltanto i tre carri di coda erano fuori. Nelle locomotive vi era
ancora fuoco, tanto che la galleria era ancora piena di un fumo molto
denso che ne impediva l'accesso. I soccorritori poterono entrare solo
perché muniti di maschere.
Il treno venne riportato a Balvano con il suo carico di morte. Secondo
un testimone una cinquantina di viaggiatori erano ancora vivi, per
quanto svenuti, e la cosa, dopo sette ore, ha dell'incredibile.
Le vittime identificate furono 429, si ritiene però che fossero più di
500. Vennero sepolte in quattro fosse comuni e anche per questo non è
stato possibile accertarne il numero preciso.
L'inchiesta sul disastro non venne resa nota. Di ufficiale è stata
ritrovata solo una relazione, inviata dal Ministero dei Trasporti a
quello del Tesoro, nel 1952, a causa delle richieste di risarcimento
(poi accolte) avanzate da alcuni familiari delle vittime. Secondo questa
relazione, che riprendiamo da un articolo di Cenzino Mussa su Famiglia
Cristiana (1979), "il treno si fermò perché il macchinista fu colpito
dalle tossiche esalazioni dei prodotti gassosi delle esalazioni del
carbone, particolarmente ricco di ossido di carbonio". Tentiamo ora di
approfondire le caratteristiche tecniche del convoglio. Composto da 47
carri e lungo circa 500 metri il treno era trainato da due locomotive,
ambedue poste in testa. Le locomotive erano del tipo cosiddetto "da
montagna": la 480.016 e la 476.038, ambedue dotate di cinque assi motori
accoppiati.
La 480 era stata creata negli anni '20 per il servizio sulla linea del
Brennero, passata all'Italia dopo il 1918. Era considerata
un'arrampicatrice veloce, forse la più potente locomotiva del parco
ferroviario italiano.
La 476 era una locomotiva di costruzione austriaca, passata all'Italia
dopo il 1918 in conto riparazione danni di guerra, ottima per i
tracciati di montagna anche se meno potente della 480.
Il peso del treno è stato calcolato sulle 500/550 tonnellate, tenuto
conto anche delle persone trasportate.
La galleria "delle Armi" ha una pendenza massima del 13 per mille, tutto
sommato non eccezionale anche rispetto alla tratta rimanente. Non avendo
a disposizione una planimetria della linea andiamo per approssimazione.
Nei 19 chilometri successivi, da Baragiano a Tito la pendenza media
dovrebbe essere superiore al 17 per mille con punte certamente oltre il
20.
Si può quindi, d'accordo con Mario Restaino, ritenere quanto meno
strano, per quanto pessima possa essere stata la qualità del carbone,
che il treno si sia arrestato per insufficiente potenza di trazione,
viste anche le prestazioni delle locomotive. Da rilevare che il treno,
provenendo da Napoli aveva affrontato in semplice trazione la salita che
da Nocera Inferiore porta a Cava dei Tirreni: 5 chilometri con pendenza
media del 13 per mille.
A questo punto Mario Restaino trova un testimone che offre alcuni
illuminanti e inediti particolari. Si tratta di Mario Motta, in servizio
a Balvano in qualità di Deviatore il mattino del 3 marzo 1944.
Faceva parte del gruppo inviato con la locomotiva di soccorso, Motta
ricorda con precisione che 13 veicoli erano frenati e, per poter far
retrocedere il treno, fu necessario sfrenarli. Non precisa se si
trattava di veicoli dotati di freno a mano o di freno continuo, ma
dobbiamo ritenere si trattasse di freni a mano perché il freno continuo,
se non viene mantenuto carico dal compressore della locomotiva, si
esaurisce entro breve tempo.
Motta ricorda anche di avere udito, molto evidente, durante il viaggio
di rientro, quel battito caratteristico che indica una sfaccettatura
delle ruote dei carri.
Questo avviene quando le ruote sono state serrate a fondo dai ceppi dei
freni mentre il treno continua la sua corsa. Il pattinamento delle ruote
sulle rotaie si mangia letteralmente i cerchioni.
Ecco quindi la più importante, se non l'unica, causa della tragedia: i
freni. E qui ci soccorrono altri due ricordi di Mario Motta.
Egli ricorda che il macchinista del treno di soccorso andò a controllare
la posizione delle leve di comando delle due locomotive. Ambedue erano
nella posizione di retromarcia. Ricorda anche che alcuni superstiti
hanno riferito che il treno, dopo una prima fermata, aveva avuto un
breve spostamento in avanti.
Poi era retrocesso "a scossoni" per fermarsi definitivamente dopo pochi
metri. Sembra anche che, in quei momenti, dalle locomotive fossero
partiti alcuni fischi e questo starebbe ad indicare un ordine ai
frenatori circa la chiusura o l'apertura, dei freni.
In base a questa testimonianza, comunque molto importante, le
possibilità sono due e dipendono dal sistema di frenatura di cui il
treno era dotato. Molto probabilmente si trattava di frenatura
parzialmente continua. Ciò significa che in composizione al treno vi
erano carri dotati di freno continuo e freno a mano. Al momento di
formare il treno, sulla base del peso complessivo, della percentuale di
peso frenato con freno continuo e delle caratteristiche della linea
veniva stabilita la quantità di frenatori necessaria alla scorta. Nel
tratto in questione, tutto in salita da Battipaglia a Potenza, si doveva
assicurare la sola frenatura necessaria in caso di fermata in linea, o
di spezzamento del treno, per evitare la retrocessione. Abbiamo
sottoposto la questione al parere di un esperto. Date le caratteristiche
del treno e della linea era possibile la presenza di una decina di
frenatori.
Mario Restaino ritiene che vi sia stato, alla base della tragedia, un
equivoco fra macchinisti e frenatori e che questi ultimi abbiano chiuso
i freni ritenendo che il treno si fosse spezzato o avendo male
interpretato gli ordini impartiti col fischio.
È una ipotesi attendibile. La chiusura dei freni veniva ordinata dai
macchinisti con "tre fischi brevi e vibrati" mentre per il completo
allentamento veniva emesso "un fischio lungo seguito da un altro breve".
Più che un equivoco però la causa può essere stata l'improvviso
svenimento dei frenatori, dovuto al fumo, dopo aver chiuso i freni.
Sembra abbastanza chiaro che, quando fu fatto il tentativo di
retrocedere, il treno era frenato. La domanda che ci facciamo,
ricordando che le ruote dei carri erano fortemente sfaccettate, è se,
per motivi non accertabili, i freni non fossero bloccati ben prima della
fatale fermata della galleria "delle Armi".
La potenza delle locomotive in doppia trazione può aver reso possibile
la marcia fino all'imbocco della galleria dove la pendenza era più
accentuata. È stato accertato inoltre che in galleria le locomotive a
vapore hanno sempre un calo di rendimento.
Dopo il tentativo di retrocessione, la fine. Una tragedia tenuta
nascosta a causa della guerra in corso. Dei ferrovieri di scorta al
treno si salvarono solo tre frenatori di coda e il fuochista della
locomotiva di testa perché caddero dal treno e trovarono a livello della
massicciata un minimo di aria respirabile.
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