[Articolo di Renzo Pocaterra, pubblicato in "Linea Treno", Maggio
1995, pagine 30-31]
Il libro "Un treno, un'epoca: storia dell'8017" di Mario Restaino
sull'incidente di Balvano è andato subito esaurito. E anche l'articolo
con cui "Linea treno" rievocava l'oscura tragedia avvenuta nel marzo
1944 sulla linea Battipaglia-Potenza ha sollevato un grande interesse
nei lettori. Torniamo quindi sull'argomento arricchendo di particolari e
di approfondimenti l'analisi di una delle più gravi e più misteriose
tragedie ferroviarie della storia.
Balvano. L'inchiesta continua
di Renzo Pocaterra
Ha suscitato l'interesse di numerosi lettori la rievocazione del tragico
incidente di Balvano, pubblicata lo scorso febbraio da questa rivista.
L'oscura tragedia in cui trovarono la morte oltre 500 persone, per
asfissia, nel marzo 1944 sulla linea Battipaglia-Potenza è avvolta in un
mistero che difficilmente potrà essere del tutto chiarito.
La nostra rievocazione si basava essenzialmente sul libro recentemente
pubblicato da Mario Restaino (Un treno, un'epoca: storia dell'8017)
frutto di un'attenta inchiesta condotta su documenti e testimonianze
inedite e la consultazione dei pochi resoconti pubblicati in epoche
varie, da giornali e riviste. L'inchiesta condotta dalle Ferrovie e
dalle Forze Armate Alleate non è mai stata ritrovata.
Speravamo nell'intervento di qualche nostro lettore con ulteriori
notizie. Un contributo molto interessante ci è venuto da Nicola Raimo,
che ringraziamo, autore di un articolo sulla vicenda, pubblicato nel
novembre 1980 su Strade ferrate, una rivista edita a Frosinone fino a
dieci anni fa a cura di appassionati di storia delle ferrovie.
Nicola Raimo ha raccolto l'importante testimonianza di Luigi Ronga,
allora fuochista sulla locomotiva di testa dell'8017, l'unico
sopravvissuto del personale di macchina perché, colpito da malore,
svenne e cadde dalla macchina trovando a livello del suolo un po' d'aria
respirabile.
Secondo questa testimonianza vi sono alcuni elementi discordanti
rispetto alla versione di Restaino, da noi ripresa: il numero delle
vittime, la posizione delle leve per la marcia avanti o indietro delle
due locomotive e il numero dei ferrovieri sopravvissuti.
Sul numero delle vittime, Raimo sostiene che furono 521 e forse è la
verità, ma non è dimostrabile. C'era una guerra in corso e gli
interventi di soccorso furono affrettati e approssimativi.
Sulla questione della posizione delle leve di comando, la maggior parte
delle versioni pubblicate concorda con la tesi di Raimo, nell'affermare
che la prima locomotiva era disposta per la marcia avanti mentre nella
seconda la valvola d'inversione era disposta per la marcia indietro.
Secondo la testimonianza raccolta recentemente da Mario Restaino,
ambedue le locomotive invece erano disposte per la marcia indietro.
Per la verità vi sono altre discordanze nei pochi racconti di chi ha
avuto parte nella vicenda, ma se consideriamo il tempo trascorso e la
forte tensione di quei momenti, la cosa non può destare meraviglia.
Preferiamo soffermarci sui fatti, che tutte le versioni sembrano
accreditare:
- il treno si arrestò in galleria perché le ruote delle locomotive -
ambedue a cinque assi accoppiati - slittavano (inspiegabilmente, dice
Ronga) sulle rotaie, malgrado le sabbiere fossero normalmente in
funzione e la pendenza (13 per mille) non fosse proibitiva, fino a che
il treno fu costretto ad arrestarsi;
- dopo l'arresto il treno fece un tentativo di retrocessione di pochi
metri, per poi arrestarsi definitivamente. Quasi certamente il treno
era, in quel momento, frenato;
- la cattiva qualità del carbone, indubitabile, non influì quindi tanto
sulla capacità di trazione delle macchine, ma sui tempi a disposizione
dei macchinisti per affrontare l'emergenza. La galleria era quasi
certamente ancora satura del fumo lasciato dal treno precedente;
- il treno era dotato di frenatura parzialmente continua. Ciò significa
che alcuni carri erano dotati di freno continuo, il rimanente di
frenatura a mano.
Oltre a questi pochi elementi sui quali tutte le versioni sembrano
concordare, vanno tenute presenti alcune disposizioni regolamentari:
- la retrocessione, nel tratto in questione, non avrebbe costituito
infrazione al regolamento. Come "estrema ratio" non era infrequente. Lo
vedremo più avanti;
- i frenatori erano tenuti, per regolamento, a chiudere i freni
d'iniziativa solo in caso di spezzamento del treno. Tale ipotesi è assai
improbabile;
- il regolamento segnali prevedeva che l'ordine ai frenatori per la
chiusura dei treni veniva dato con "tre o più di tre, fischi brevi e
vibrati", l'allentamento con "un fischio lungo seguito da un altro
breve".
È abbastanza inverosimile che tutti i frenatori abbiano potuto
confondere questi messaggi ai quali erano abituati.
Secondo la testimonianza di Mario Motta, il manovratore che provvide ad
allentare i freni, i carri trovati frenati erano ben tredici:
- oltre ai fischi di segnalazione rivolti ai frenatori esisteva anche un
codice di comunicazione, per mezzo del fischio, fra gli equipaggi delle
locomotive in doppia trazione.
Non è da escludere che, nella concitazione del momento, i frenatori
abbiano male interpretato i fischi di segnalazione emessi da una
locomotiva per attirare l'attenzione dell'altro equipaggio.
L'ultimo dubbio riguarda il numero dei ferrovieri sopravvissuti. Secondo
Restaino e Raimo, oltre al fuochista Luigi Ronga si salvò solo il
frenatore di coda Roberto Masullo, il primo a raggiungere la stazione di
Balvano e a dare l'allarme. Secondo la versione di Cenzino Mussa ("E la
morte scese sul treno", Famiglia cristiana 1979) si salvarono anche
Giuseppe De Venuto "operaio delle ferrovie che faceva da frenatore che
viaggiava sull'undicesimo carro" e Michele Palo, frenatore che, secondo
Mussa, raggiunse per primo Balvano e diede l'allarme. Il racconto di
Cenzino Mussa riguardo ai tre frenatori è molto particolareggiato,
sembra attendibile e di prima mano, ma nulla dice in merito ai freni e
nessuno, a quanto sembra, ha raccolto la versione di questi importanti
testimoni.
Un'ultima notizia vogliamo proporre ai nostri lettori. Si tratta di una
cartolina scritta dieci anni dopo, nel 1954, ad un collega bolognese, da
un macchinista di Bologna trasferito al Deposito Locomotive di Catanzaro
Marina.
A quel tempo i ferrovieri al sud scarseggiavano e le carenze venivano
compensate con trasferimenti obbligati dal nord. Il macchinista (si
chiamava Ettore Soverini) così scriveva dando sue notizie: "... come
servizio non c'è male ma con certe macchinacce che a noi ce le serbano,
le 625 Caprotti non c'è neanche male, una macchina leggera e si fa un
buon servizio, ma le 476 a 5 assi accoppiati, una leva (del regolatore,
ndr) che vuole in due a
girare,
e si fanno dei trenacci per Crotone dove passiamo una galleria lunga un
3 km in salita che trovi il 20 per mille, e con quei rubiconi si fa la
spinta alle volte: spesso capita di retrocedere, come è capitata a
tanti, se si comincia a slittare è già persa".
E fu persa davvero per il disgraziato equipaggio dell'8017. Tentarono di
retrocedere ma non ci riuscirono. Il treno era frenato, i perché sono
solo congetture. E fu la morte per oltre 500 persone.
La locomotiva 480.016 che si trovava in testa al treno 8017, fotografata
nel 1966, ancora in servizio nel Deposito Locomotive di Catania (foto
Boddi, collezione Cinzio Gasparini).
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[Pubblicato in "L'avvenire della sicurezza. Esperienze e prospettive"
di Pasquale De Palatis, Roma, CIFI, 2001, pagine 21-23]
Ricordo del dott. F. Cesari tratto da "Appunti su: I grandi incidenti
del passato".
Il massacro della galleria
"La relazione d'inchiesta sull'incidente in esame fu, a suo tempo,
redatta, sia pure con i limitati mezzi a disposizione in quell'epoca
tormentata, da funzionari dei Compartimento di Napoli. Noi avemmo
occasione di visionarla, ma attualmente non risulta più disponibile.
Le notizie da noi esposte possono risultare inesatte soltanto nella
localizzazione del tratto di linea in cui l'incidente ebbe a
verificarsi, mentre nella sostanza esse corrispondono sicuramente al
vero.
In un giorno dell'ottobre 1944, verso le 22, partì da Battipaglia in
direzione di Potenza un treno composto da bagagliaio ed una ventina di
carri merci aperti, tutti protetti da normale copertone.
Il treno era trainato in doppia trazione in testa da due potenti
locomotive a vapore di costrizione americana, servito da freno continuo
e scortato da Capotreno e due frenatori. Di questi ultimi uno aveva
preso posto in bagagliaio, mentre l'altro si trovava in cabina del freno
dell'ultimo veicolo del treno.
Tutto il personale operativo, di macchina e di scorta, apparteneva alle
FS.
Si era in piena guerra e le linee intorno a Napoli, compresa quella che
portava da Battipaglia a Potenza, erano chiuse al normale traffico
viaggiatori e merci, a disposizione esclusiva dell'Autorità militare
alleata. Era però praticamente tollerato, salvo il caso di trasporti
particolari, sia dal personale ferroviario, sia dai militari di scorta,
che chi se la sentiva di correre il rischio potesse arrampicarsi sul
materiale e sistemarvisi per il viaggio.
Verso le 24 il treno si avviò dalla stazione di Atena (ci pare) verso la
successiva stazione di Sala Consilina.
La linea in quel tratto si presenta in forte ascesa al limite del
consentito dallo standard FS (come noto 35 per mille) e comprende, fra
le altre, una galleria assai lunga con numerose curve a stretto raggio.
Quando il treno si trovava nella suddetta galleria venne a mancare la
necessaria forza di trazione, forse per difetto delle locomotive, la cui
manutenzione era alquanto trascurata, o, più probabilmente, per la
scadente qualità dei combustibile.
Il treno finì per fermarsi in galleria salvo il veicolo di coda che
rimase a cavallo fra imbocco galleria e piena linea.
Quello che in realtà avvenne durante la salita del treno in galleria non
è stato ricostruito con assoluta sicurezza. È probabile comunque che ci
siano stati tentativi di raccordo tra i due macchinisti per riuscire a
riprendere la corsa in un senso o nell'altro; ma o per la concitazione
del momento o per effetto del veleno dell'anidride carbonica che
cominciava a far sentire i suoi effetti, l'accordo non ci fu e la
situazione diventò irrimediabile. Infatti i soccorritori trovarono i
"regolatori" delle due locomotive in posizioni opposte, l'uno per la
marcia avanti, l'altro per la marcia indietro.
Il fumo invase rapidamente la galleria e l'anidride carbonica finì per
sopraffare tutti i poveretti che si trovavano, per una ragione o per
l'altra sul treno.
Tutti morirono miseramente.
L'unico che si salvò fu il frenatore di coda che pur trovandosi nella
parte del veicolo in galleria avvertì tempestivamente il pericolo, scese
dal treno e si incamminò a piedi verso la vicina stazione ove diede
l'allarme.
I soccorritori ritrovarono 432 cadaveri, tante erano le persone fra
ferrovieri, militari di scorta e viaggiatori abusivi che si trovavano
sul treno.
Non fu evidentemente un incidente tipico perché fra le cause prevalenti
vi fu la situazione storica, quella particolare in cui si svolse la
corsa, lo stato delle locomotive, la qualità del combustibile, ecc. Ma
fu probabilmente il più grave disastro per il numero di vittime di tutti
i tempi per le FS e forse per il trasporto su rotaia in generale in
tutto il mondo.
Nessun risarcimento fu allora corrisposto ai familiari dei viaggiatori,
che pure ebbero a richiederlo dopo la fine della guerra, sia perché
l'evento fu considerato come risultato di cause di "forza maggiore" per
la determinante influenza che avevano avuto le particolari condizioni di
corsa di cui si è detto sopra, sia perché tutti i viaggiatori furono
considerati, come in realtà erano, abusivi. Andò bene agli eredi se non
furono chiamati a pagare penalità per l'illecito viaggio dei disgraziati
congiunti.
Anni dopo, ci pare verso la fine degli anni 60, si presentarono nel
nostro Ufficio della Direzione Generale delle FS alcuni giornalisti
americani, se non andiamo errati del noto periodico "Selezione" per
chiedere notizie sull'incidente.
Quando l'accaduto fu ricostruito in un articolo molto colorito e non
sempre corrispondente alla realtà obiettiva specie per quanto riguarda
il comportamento dei soccorritori, pubblicato dal giornale che ha
diffusione mondiale, esso determinò notevole scalpore nell'opinione
pubblica, tanto che le FS ritennero infine di rivedere la propria
decisione in fatto di indennizzi, sia pure di limitata entità, ai
familiari delle vittime.
Tra l'altro comparve, alquanto misteriosamente, un biglietto di viaggio
rilasciato dagli operatori di scorta al treno (tutti morti), giustamente
datato, che sarebbe stato rilasciato nominativamente ad uno dei
viaggiatori deceduti nell'incidente".
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[Articolo di Simone Navarra, pubblicato in "ilNuovo.it", 2 marzo
2002]
Balvano, la tragedia dimenticata
Oggi ricorre l'anniversario del disastro ferroviario del '44 in cui
morirono oltre 600 persone. E ancora ci sono dubbi sulle responsabilità.
Colpa degli americani che sovraccaricarono il treno o inevitabile fato?
di Simone Navarra
ROMA - Una tragedia dimenticata e che per molti non ha ancora una
spiegazione. Oggi è l'anniversario di uno dei più gravi incidenti della
storia ferroviaria d'Italia eppure ancora non si riesce a individuare un
responsabile certo per quanto accaduto all'espresso 8017 nella tratta
Napoli-Potenza, nella galleria di Balvano, alle prime ore del mattino
del 3 marzo 1944. L'unico dato certo, dopo 57 anni, sono le 526 persone
morte per aver respirato i gas venefici della vecchia locomotiva a
vapore, rimasta bloccata nel tratto in salita, poco prima dell'arrivo
alla stazione del paesino della Basilicata. Tutto il resto è un
interrogativo senza risposta. Una congettura carica di dolore su cui si
possono al massimo lambiccare gli storici interessati.
Secondo quanto scriveva "Il Giornale del Sud", martedì 7 marzo la causa
di tutto è da attribuire al gran numero di clandestini che avevano preso
d'assalto quello strano convoglio, con dodici vagoni a carico normale e
33 ufficialmente vuoti. Ma non sembra così certa questa verità. Più di
uno tra i superstiti parlò chiaramente di ordini dati dai soldati
americani di aggiungere vagoni in almeno quattro stazioni intermedie.
Così da allungare, in modo innaturale, la sequenza di carrozze. E si
aggiunge subito dopo altre domande: possibile che i macchinisti non si
rendessero conto di creare una camera a gas? E se sì, perché
continuarono ad alimentare le caldaie?
A partire da questi interrogativi Gennaro Francione, giudice e
scrittore, ha costruito un romanzo dal sapore d'inchiesta, "molto
intriso di ricordi", Calabuscia. E' la storia semplice e pulita di donna
Giulia (la nonna di Francione) che faceva da corriere per il ricco
mercato nero partenopeo e che prendeva spesso quel treno. "Era una
signora eccezionale, con un grande coraggio. In un periodo tanto
difficile riuscì a procurare il mangiare per i suoi figli e ad essere
punto di riferimento per tutte le persone che la conoscevano. In calce
al mio libro invito tutti coloro che sono in grado di riferire su questo
tragico fatto con ricordi, testimonianze di scrivere alla redazione che
provvederà a stilare un libro bianco. Purtroppo l'oblio però rischia di
mangiarsi la memoria e di far scomparire questa ferita tutta italiana".
L'ossido di carbonio uccide, secondo i manuali, in cinquanta o sessanta
secondi eppure non c'è ricordo di allarmi o di allerta. I primi
soccorritori si trovarono di fronte allo spettacolo allucinante di una
massa compatta di corpi l'uno sopra all'altro. "Sulle prime nei vagoni -
si legge nel romanzo - tutti i passeggeri si sono accorti che il
convoglio si è fermato e sono inquieti, anche se non sanno bene cosa
stia succedendo. Nell'oscurità totale degli antri metallici ricolmi di
uomini e cose volano borbottii, commenti, lamenti, bestemmie. Solo alla
fine, quando il fumo invade l'ambiente in maniera sempre più fitta e la
gente prende a tossicchiare, il panico comincia a diffondersi, anche se
ancora nessuno osa muoversi. Il non sapere cosa stia succedendo
impedisce d'intuire il cosa fare". E' l'inattività fatale. "Spero che un
giorno venga sollevato il velo - conclude Francione - su un fatto tanto
grave. E forse alle famiglie delle vittime dopo tanto tempo basterebbe
che le Ferrovie e il ministero della Difesa deponessero un mazzo di
fiori. Basterebbe quello".
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[Ansa, 28 febbraio 2004]
INCIDENTI FERROVIARI: MARZO '44 BALVANO, OLTRE 500 MORTI
(ANSA) - BALVANO (POTENZA), 28 FEB - Squadrato, silenzioso, l'Eurostar
passa ignorando la stazione di Balvano (Potenza) - due binari,
l'edificio da una parte, il fiume Platano dall'altra, nessuno in attesa
- e imbocca un ponte, poi una serie di tunnel, lentamente, i binari
salgono, finché entra nella galleria delle Armi: gli occhi dei
viaggiatori tornano sul giornale, senza sapere che stanno attraversando
la scena del più grave - e più atipico - incidente ferroviario della
storia italiana, avvenuto proprio sessant'anni fa, nella fredda e umida
notte fra il 2 e il 3 marzo 1944.
Oltre cinquecento morti, asfissiati, come in una camera a gas: non
deragliò, quel treno - numero 8017 - non si scontrò con un altro,
semplicemente si fermò nella galleria delle Armi. Non riuscì a
proseguire, non riuscì a tornare indietro (è uno dei misteri di quella
vicenda): due locomotive con le caldaie al massimo, una quantità di fumo
impressionante, prodotta della combustione di un carbone di cattiva
qualità perché carico di zolfo. Il fotogramma successivo: oltre 500
cadaveri da rimuovere e seppellire nel cimitero di Balvano. Oltre 500
persone asfissiate, una breve notizia su qualche giornale del 6 e del 7
marzo: incidente «in una galleria ferroviaria dell'Italia meridionale»,
i «disgraziati viaggiatori» vittime di «soffocazione». La vita deve
continuare: la guerra non è ancora vinta, l'Italia è divisa in due e gli
Alleati anglo-americani hanno altro a cui pensare.
Ecco gli elementi di quella tragedia, che - è proprio così - soprattutto
la grande pietà napoletana per i morti (napoletani e campani per la
maggior parte) ha impedito che fosse completamente dimenticata.
LA «FOLLA STRAGRANDE» SUL TRENO DELLA FAME - Appena due settimane prima
della tragedia, Giovanni Di Raimondo, sottosegretario alle comunicazioni
per le ferrovie e, nell'Italia repubblicana, Direttore generale delle
Ferrovie dello Stato, scrive al Governo e avverte del pericolo sulla
linea Bari-Napoli, via Potenza. Troppi viaggiatori nelle stazioni,
attese lunghissime, fermate casuali e treni presi d'assalto da centinaia
di persone che cercano cibo in Basilicata.
QUELLA NOTTE - Il treno 8017 (ultima cifra dispari, perché viaggia da
nord a sud, 8 prima cifra perché è un convoglio straordinario),
proveniente da Battipaglia (Salerno), arriva nella stazione di Balvano
che è circa mezzanotte. Due locomotive «in doppia trazione»: una 480
italiana (un modello identico è visibile nel museo ferroviario di
Portici) e una 476 austriaca, giunta in Italia come bottino della Prima
Guerra Mondiale (una macchina simile è al museo ferroviario di Campo
Marzio, a Trieste). Due locomotive da montagna, che trascinano oltre 40
vagoni: dappertutto, oltre 500 viaggiatori. Molti dormono, cercano di
dormire: in tanti, nei posti più insoliti e anche pericolosi. Ma è
impossibile fare qualcosa per impedirlo.
VIAGGIATORI - Quasi tutti dalla Campania. Contrabbandieri, è stato detto
spesso. Qualcuno sì, ma tanti sono solo affamati, una famiglia da
mantenere: hanno qualcosa, lire da spendere, oggetti da scambiare.
Lasciano Napoli e altre città della Campania per dirigersi in
Basilicata: c'è chi viaggia con due giacche, due cappotti. Uno lo
baratterà con generi alimentari. Gli oggetti più incredibili: un cinto
per ernia, quattro cappelli alpini usati, boccette di tintura, attrezzi,
pennelli, una divisa da avanguardista (il proprietario ha capito che è
fuori moda). Ma il viaggiatore più misterioso è lei: «Sesso femminile,
sconosciuta, età apparente anni 28 circa», è scritto nel rapporto dei
carabinieri. È incinta. Non ha merce da scambiare con cibo, solo «un
fazzoletto con bandiera e croce uncinata e una fotografia».
CHE AVVENNE NELLA GALLERIA - L'8017 lascia Balvano, prossima stazione
Bella-Muro, orario di arrivo si vedrà. Nella galleria delle Armi, il
treno si ferma: è troppo pesante, i binari forse bagnati per l'umidità,
il carbone di cattiva qualità: i macchinisti (uno di loro, Matteo
Gigliano, è giovane, ma già notissimo per la sua bravura) danno tutto
vapore per salire? La galleria si riempie di fumo assassino. Spingono
per tornare indietro mentre i frenatori, in coda, hanno bloccato il
treno (rispettando le procedure) e i fischi delle locomotive sono
azionati male o non vengono uditi? Stesso risultato, galleria piena di
fumo e viaggiatori asfissiati. Altre ipotesi non hanno mai trovato
elementi validi per essere sostenute.
UNA STRAGE - L'allarme (il treno non arrivò mai a Bella-Muro) giunse a
Potenza nel cuore della notte: all'alba, la scoperta. Il treno fu
riportato a Balvano. Centinaia di cadaveri allineati sul marciapiede,
qualcuno "ripulito" dai soliti sciacalli: i soldati caricano i corpi sui
camion e li trasportano nel cimitero. Quattro fosse comuni: tre per gli
uomini, una per le donne.
TANTI ANNI DOPO - A Balvano arriva Salvatore Avventurato, che quella
notte aveva perso il padre e il fratello. Prima fra lo scetticismo dei
balvanesi, poi con il loro sostegno, fa costruire una cappella, un
"asilo di pace", e rimuovere le fosse comuni. Una lapide di marmo (è
sbagliata la data dell'incidente, posticipata di un giorno) parla di 509
morti (408 uomini e 101 donne). Anno 1972. Oggi il suo viso è in una
fotografia sull'altare della cappella. La pietà napoletana per i morti
porta a Balvano ogni anno, due volte all'anno (nel giorno
dell'anniversario e il 2 novembre), decine di persone. Nella cappella si
celebra la messa, anziani e giovani ricordano quelle vittime. Che non
vogliono essere dimenticate. (ANSA).
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[Articolo di Alberto Bobbio, pubblicato in "Famiglia Cristiana", 29
febbraio 2004, pagine 50-53]
BALVANO, LA PIÙ GRANDE TRAGEDIA FERROVIARIA D'EUROPA
UN DISASTRO CANCELLATO
NELLA GALLERIA DELLE ARMI MORIRONO ASFISSIATE 517 PERSONE. DOPO 60 ANNI,
SIAMO RITORNATI SU QUEI BINARI INSANGUINATI CON DOMENICO STRIANO CHE
QUELLA NOTTE PERSE LA MADRE...
di Alberto Bobbio / foto di Giancarlo Giuliani
La Galleria delle Armi; prende il nome dai briganti che due secoli fa si
rifugiavano sulla montagna.
C'è un buco nero
sotto la montagna, roccia grigia che brilla nel mezzogiorno tra le cime
impervie della Lucania. Questa è la storia di un pellegrinaggio della
memoria. Stringe il cuore, buca l'anima: è un viaggio della pietà.
Domenico Striano si appoggia al bastone. Il sentiero fa una curva. Ecco
la galleria, ecco il Monte delle Armi. Adesso Domenico Striano si
inginocchia, una preghiera sulle labbra, il segno di croce. Sono passati
60 anni da che la sua mamma Giuseppina è morta là dentro il buco nero,
soffocata sul treno 8.017 insieme ad altri 500 passeggeri, la più grande
tragedia ferroviaria d'Europa, il disastro della Galleria delle Armi,
incidente nascosto, dimenticato, cancellato. Non ebbero nemmeno un
funerale quei morti. Non hanno nemmeno una tomba.
Domenico Striano vive a Corsico, alle porte di Milano, con la moglie
Annunziata. Ci ha scritto: «Voglio andare a ricordare quegli "ultimi".
Venite con me?». Non è una storia sua. Dovrebbe essere patrimonio del
Paese. La racconta in auto, insieme alle sorelle Anna e Maria, mentre
infiliamo la superstrada per Potenza. Bisogna andare sulla montagna di
Balvano, nella Lucania scossa dal terremoto del 1980. Ma è una storia
che comincia a Ercolano il primo marzo 1944, il peggiore degli anni
terribili di guerra: «Incubi e tanta fame. La mamma piangeva. Il treno
era una speranza». Partivano da Napoli, carri merci, locomotive a
carbone, personale italiano e direzione alleata del Military railways
service.
Il treno della fame
L'8.017 quella sera era diretto a Potenza, 47 vagoni e due locomotive
per superare le pendenze. Andava a caricare legname, per ricostruire i
ponti distrutti dalla guerra. Ma, come accadeva sempre, centinaia di
persone assaltavano il treno per combattere la fame. In montagna
potevano scambiare un po' di biancheria con uova e formaggio, salsa di
pomodoro con un pezzo di carne, roba da poveri in guerra, borsa nera
come unico mercato. «Mamma era partita con un pugno di lire cucite nel
corsetto. La vedo salire sul treno, tirata su da mille braccia», dice il
signor Striano. Era la sera del 2 marzo. Già il giorno prima, mamma
Giuseppina aveva cercato di salire sul treno. Ma non si fermò. Domenico
tornò a casa dalle sorelle. Vivevano tutti in una stanza. La mamma non
tornò più.
I cadaveri sul marciapiede della stazione.
Il 7 marzo il quotidiano napoletano Risorgimento, l'unico autorizzato
dalle autorità alleate, scrisse di un incidente ferroviario a un treno
merci, pochi accenni vaghi, nessuna indicazione sul luogo, né sul numero
delle vittime. A Milano il Corriere della Sera è più preciso. Ribatte un
dispaccio dell'agenzia Reuters: 500 morti per asfissia in una galleria
dell'Italia meridionale. II Governo Badoglio si riunisce il 9 marzo a
Salerno. Dedica la seduta alla sciagura. Nel verbale si legge che «è da
attribuirsi alla pessima qualità di carbone fornito dagli alleati» e che
il treno era troppo pesante, 600 tonnellate contro le 350 previste.
Anche gli alleati aprirono un'inchiesta. Ma i risultati a 60 anni di
distanza sono ancora segreti. Nel 1951 il Times scrisse che gli alleati
nascosero «l'incidente per evitare l'effetto deprimente sul morale degli
italiani». Era il 1944.
Da sinistra: Liberata Gaizza, Pino Scardamaglio, Francesco Scognamiglio,
Luigi Abruzzese, Francesco Sannino e Domenico Striano mostrano un
articolo di Famiglia Cristiana, n. 11 del 1979, dedicato al disastro di
Balvano.
A destra: Domenico e Annunziata Striano con la foto di mamma Giuseppina
davanti al sacrario dedicato alle vittime nel cimitero di Balvano.
Domenico Striano vede passare la ferrovia lungo la piana del Sele.
Sicigniano, Buccino, Romagnano al Monte, paesi appesi alle rocce, gole
profonde che tagliano i monti: «Chissà cosa pensava la mamma?». Molti
passeggeri si erano addormentati. Il treno si ferma a Balvano. Davanti
c'è un altro merci. Passa mezzanotte. Il capostazione dà il segnale di
via e batte sul telegrafo l'avviso per la stazione di Bella Muro al di
là della galleria. Ma l'8.017 non ci arriverà mai.
La conta dei morti
Alle 5 del mattino uno dei frenatori scende sui binari sconvolto: «La
galleria è piena di morti». Il treno si era fermato, i macchinisti
aumentarono la pressione. Forse non si capirono: uno tirava verso
l'uscita, altro verso l'entrata. Il monossido di carbonio è un veleno
micidiale. La stazione di Balvano oggi è chiusa. Si ferma solo un treno
al giorno. Vincenzo Pacella quella mattina lo chiamarono per tirar giù i
morti dal treno, aveva 22 anni: «I primi morti li trovai sul tender: 4
uomini e 2 donne. Li stendevamo sul piazzale, divisi uomini e donne. A
mezzogiorno arrivarono gli americani.
La cappella nel cimitero
L'affresco che ricostruisce la tragedia, dipinto nella volta della
cappella.
Costantino Di Carlo davanti alla tomba del trisnonno Francesco.
Avevano pane bianco e non ci dettero nemmeno da mangiare. Poi verso il
pomeriggio ci misero in mano i badili e ci portarono al cimitero a
scavare le fosse. Pioveva». Il cimitero è in cima al paese. La signora
Striano stringe un mazzo di fiori blu. Donato Grieco, il custode, apre
la cappella. L'ha fatta costruire negli anni '70 Salvatore Avventurato
che nella sciagura perse il padre, un fratello e un cugino. «Almeno
adesso non camminiamo più sui morti», dice il custode. Domenico Striano
venne qui la prima volta nel 1967: «Posammo i fiori per terra. Era
straziante». I morti vennero seppelliti in quattro fosse comuni,
cosparsi di calce. Maria Le Caldare ha 103 anni: «Vennero dei camion da
Potenza. Mamma mia. Caricavano i cadaveri e salivano per il paese. Il
prete ebbe il tempo solo per una benedizione. Sembrava che gli inglesi
volessero bruciarli». Il cimitero non aveva spazio, stretto alla
montagna. Francesco Di Carlo era il macellaio e possedeva un terreno a
monte del cimitero. Quella mattina andò dal sindaco e gli regalò la
terra per le sepolture. La storia la racconta il trisnipote Costantino:
«Poi il sindaco ci fece avere l'atto con la donazione e ci regalò la
tomba di famiglia. Il mio trisnonno morì quella notte. Aveva 77 anni. Il
cuore non resse all'emozione di quei momenti terribili».
Don Antonio Polo, parroco di Balvano, come tutti i suoi predecessori,
ogni anno celebra una messa per i morti della Galleria delle Armi. Negli
anni '70 alcune famiglie, per iniziativa di Salvatore Avventurato, con
l'aiuto del Comune di Balvano, si tassarono per far riesumare poche
ossa, che ora si trovano nei loculi della cappella.
Il treno 8.017 era lungo circa 500 metri,
con 47 vagoni.
Ma lo Stato dov'è?
Quanta gente morì sul treno 8.017? La lapide fatta incidere da Salvatore
Avventurato indica 509 persone: 408 uomini e 101 donne. Il verbale del
Governo di Badoglio parla di 517 morti. Gerardo Quagliata, dirigente
dell'ufficio demografico del Comune di Balvano, mostra l'atto originale
compilato quel giorno: «Risultano 235 morti. Ma si tratta di quelli
identificati». In un libro pubblicato dieci anni fa da Mario Restaino,
giornalista dell'Ansa di Potenza, l'elenco si ferma a 432. Domenico
Striano nel 1967 non trovò il nome della mamma Giuseppina. Ma oggi è un
bel giorno. Gerardo Quagliata nell'elenco dei morti del 1952 trova una
«dichiarazione tardiva di morte: Giuseppina Formisano fu Pasquale».
Adesso scende una lacrima sul viso di Maria, Anna e Domenico: «La mamma
è morta per un dovere naturale. Andava in cerca di cibo per i suoi
piccoli. Cinquant'anni fa abbiamo avuto un piccolo risarcimento, perché
una sentenza considerò il disastro evento bellico. Ma molti orfani hanno
faticato a rimettere insieme la vita in quegli anni duri». A Ercolano
Domenico Striano ne ha rintracciati altri cinque: Liberata Gaizza,
Francesco Scognamiglio, Luigi Abruzzese, Pino Scardamaglio, Francesco
Sannino. «Vogliamo, adesso che sono passati 60 anni, che almeno siano
onorati dallo Stato. Anche il loro è stato un sacrificio per la
libertà».
ALBERTO BOBBIO
Il numero reale dei morti non è mai stato appurato. E continuano a
restare segreti molti documenti sul disastro, il più tragico mai
avvenuto in Europa. |
[Articolo di Antonio Manzo, pubblicato in "Il Mattino", 29 febbraio
2004]
UN DISASTRO DIMENTICATO
DALL'INVIATO A BALVANO
ANTONIO MANZO
I corrieri della fame della plebe napoletana passarono dal sonno alla
morte in una manciata di minuti. Il tempo necessario perché anche gli
ultimi sbuffi delle due locomotive di testa del treno 8017, ormai
paralizzate, rendessero la galleria ferroviaria di Balvano una camera a
gas lunga un chilometro e novecento metri. I calanchi di Balvano erano
già screziati di luna, in quella notte tra il 2 e il 3 marzo del '44,
quando il treno 8017, quarantasette vagoni della bisettimanale tradotta
della miseria Napoli-Potenza-Bari, si bloccò in galleria. Morirono tutti
i passeggeri, asfissiati dal monossido di carbonio, senza neppure il
ringhio perplesso del dolore. Morirono tutti, secondo una stima ancora
indefinita, a sessant'anni dal disastro dimenticato: più di 500 persone,
forse 600, napoletani e salernitani che, in cambio di un cappotto
sottratto ai soldati americani, di un secchio di chiodi o di una
striscia di cuoio, tornavano a casa con un po' di olio, uova, polli,
formaggio delle campagne lucane, dove anche le poche ricchezze della
terra non colmavano l'infinita povertà. Li chiamarono sbrigativamente
contrabbandieri, perché napoletani. Erano, invece, i corrieri della
fame, senza scarpe e senza biglietto del treno.
Nessuna Spoon River dei poveri ha mai raccontato le loro storie. Un
disastro dimenticato con la stessa velocità con la quale ufficiali
inglesi e americani intimarono di scavare tre grandi fosse comuni nel
cimitero di Balvano per seppellire le centinaia di cadaveri, che non
sarebbero mai stati conteggiati né fra i morti di guerra né tra quelli
della pace da riconquistare. Erano i morti della miseria, da
dimenticare. Da seppellire in fretta, come i giorni dell'Italia di
Badoglio, sopravvissuta, stremata e distrutta. Erano anche i morti di un
disastro annunciato. Da nascondere dietro un rimorso: c'era stato chi,
pochi giorni prima della tragedia del marzo '44, aveva avvertito della
pericolosità di quel treno bisettimanale preso d'assalto dal popolo
affamato. O peggio dietro l'accusa che il Governo Badoglio, riunito a
Salerno, scrisse nel verbale del 9 marzo '44: «La sciagura deve
attribuirsi alla pessima qualità del carbone fornito dal Comando
Militare alleato perché già si era verificato, sulla stessa tratta, un
caso di morte per asfissia del personale di macchina di un treno
dell'autorità alleata».
«Quando intorno alle sei del mattino del 3 marzo scendemmo dal paese e
raggiungemmo la stazione per i soccorsi - ricorda oggi Vincenzo Pacella,
82 anni, all'epoca appena rientrato dal fronte - non trovammo che
morti». E di fronte a quella tragedia, ricorda ancora Luigi Luccioni, un
medico scrittore autore di un saggio su quel disastro, «neppure al
procuratore del Re che, insieme a due medici, Arturo Lapolla e Rocco
Mazzarone, voleva capire di più, fu consentito di andare avanti».
Il treno 8017 abbandona la stazione di Battipaglia intorno alle 19 del 2
marzo del 1944. È stato già preso d'assalto da centinaia di disperati di
Napoli, Resina, Torre del Greco, Nocera Inferiore, Vietri sul Mare e
Salerno. Altri, per sfuggire ai controlli, prendono il treno al volo
nelle stazioni di Eboli e Serre-Persano. Alle 23,40 il treno lascia lo
scalo di Vietri di Potenza-Romagnano e, stracarico di viaggiatori,
attacca una seconda locomotiva. E sale verso Balvano. Le caldaie sono al
massimo, rifornite di carbone slavo di pessima qualità. A mezzanotte il
treno entra nella gola dei monti di Balvano. Nella Galleria delle Armi,
in forte pendenza, si blocca. Una nube tossica invade la galleria,
muoiono tutti. Riescono a fuggire solo i passeggeri che sono stipati
sugli ultimi due carri merci rimasti fuori dalla galleria. «Là sono
tutti morti», grida Giuseppe Venuto, il frenatore delle ferrovie che
arriva a Balvano paese intorno alle cinque del mattino e lancia
l'allarme. Tutti morti, il lungo elenco di una storia che il giornalista
Mario Restaino ha raccontato con le ricerche, mosso «dalla pietà
popolare dei napoletani nel culto dei loro morti».
Donato Grieco è il custode del cimitero di Balvano, ampliato due volte
nel Novecento e dopo due tragedie: la prima, quella del treno 8017; la
seconda, il terremoto del novembre '80. Lui, come tutti i balvanesi,
ricorda «don Salvatore». Sì, Salvatore Avventurato che perse il padre e
il fratello nella tragedia e fece costruire nel 1972 una cappella per
dare sepoltura dignitosa ai poveri resti delle fosse comuni. E sistemò
all'ingresso del tempietto una lapide per ricordare «509 persone, 408
uomini e 101 donne».
Un ricordo che vorrà testimoniare anche il comune di Balvano guidato da
Ezio Di Carlo, primo cittadino e medico. Lui era sindaco anche nei
giorni del terremoto e sa come incide sulla vita di questa gente il
destino della memoria. Lo stesso che oggi riporta indietro negli anni
Maria Carmela Di Stasio. La sorella, appena ventenne, salvò un
passeggero del treno, un giovane salernitano. Cominciarono da quel
giorno un rapporto epistolare: si innamorarono, fecero progetti di vita.
Ma un giorno la corrispondenza si interruppe. Quel giovane ritornò a
Balvano e al cimitero ritrovò la lapide della ragazza amata alla quale
doveva la vita. «Venne da noi a casa e in lacrime ci raccontò la storia
d'amore e di quelle lettere che poi ritrovammo», racconta Maria Carmela.
Il giovane restò solo con le sue lacrime e ripartì.
Mai un'indagine, ai parenti 320mila lire
Gli atti di morte della tragedia di Balvano, la più grave della storia
ferroviaria italiana, sono custoditi al municipio del comune lucano.
Basta scorrere quegli elenchi per individuare i paesi di provenienza
delle vittime: Napoli, Torre Annunziata, Torre del Greco, Resina, Siano,
Cava dei Tirreni, Portici, Maiori, Vietri sul Mare, Nocera Inferiore,
Corbara, Castellammare di Stabia e altri paesi dell'hinterland
napoletano. Nessuna inchiesta amministrativa fu disposta all'epoca del
disastro. Gli uffici provvidero a liquidare 320mila lire per ogni
vittima a favore dei familiari, nei primi anni Cinquanta.
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