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CAPITOLO XVI

Un uomo viene liberato da una piaga maligna a un braccio alla vista del bastone e delle sporte del Beato.

Roberto detto Maccarono(l) abitante a Senise, che aveva un braccio devastato da una vecchia e brutta piaga, tanto che era del tutto inabilitato all'uso dell'arto(2), andò da un chirurgo per chiedere il soccorso di qualche medicamento. Il medico gli disse: l'umore maligno è molto avanzato, infatti ti ha corroso il braccio sia sopra che sotto. Se mediante un'incisione non arriviamo alla radice del male non ti posso dare nessuna medicina efficace. Ma Roberto non accettò, presentendo questa cosa come una specie di martirio. Frattanto si cominciò a parlare della morte del santo uomo Giovanni, che tutti ritenevano di grandi meriti presso Dio, e il malato, avendo con gioia sentito ciò, disse: non prenderò una medicina terrena; credo che quest'uomo santissimo mi impetrerà dal cielo la guarigione. E con una fiducia più grande di quanto si possa dire, si reca al Monastero del Sagittario ed entra nella piccola cella del santo Giovanni, ove l' Abate gli dice più o meno così(3): Questo è il bastone che il vecchio era solito portare in mano, queste le piccole ceste che egli stesso intrecciava. L' Abate non aveva ancora finito di parlare che l'ammalato si guardò e subito si vide guarito. E tutti i presenti subito son presi da grandissimo stupore, vedendo all'improvviso il membro tumefatto e debole, putrido e ulceroso, guarito, forte e sano tanto che, straordinariamente, non si vedeva più nessun segno della malattia o della piaga.

 

Note

1. Soprannome interessante che, riferito a una persona, significa ingenuo o stupido; ma il termine, come si sa, ha sempre indicato un tipo di pasta alimentare lunga e grossa: i maccheroni, appunto, che, sicuramente, erano in uso non solo al tempo in cui visse il Beato, ma da molto prima. L'etimologia è tra le più incerte: dal greco macròs — lungo; da màchaira, che significa coltello, quasi tagliati con il coltello; da macharìa, che vuol dire beatitudine, ma anche banchetto funebre, nel quale si usava, appunto, questo tipo di pasta, e altri ancora.

2. Nota marginale dell'Autore: Lettura 6 e responsorio 8. Si intende sempre dell'Ufficio liturgico del Beato.

3. La tecnica usata dal De Lauro nella sua narrazione è quella tipica classica, che considerava la storia come un'opera di eloquenza, non lontana dall'arte drammatica, perciò i tanti discorsi diretti, tutti, ovviamente, solo immaginati; di qui lo scrupolo dell'Autore, che, accingendosi a riportare le parole dell'Abate a Roberto Maccarono sente il bisogno di notare un "più o meno", per dirci che le parole le ha immaginate colui che narra; ma queste sono cose ovvie.

 

 

CAPITOLO XVII

Una donna con la tunica del Beato Giovanni guarisce di una fistola al braccio.

Anche Tomasella, figlia di Giovanni di Maestro Odone(1), della stessa terra di Senise, aveva anch'essa un braccio devasta-to da una vecchia fistola che un po' alla volta stava arrivando alle ossa(2). Il padre la portò al Cenobio del Sagittario e, incontrato l'Abate, gli rivolse questa preghiera: Mostraci il corpo del Santo, se per caso volesse degnarsi di guarire la mia figliuola. L'Abate gli rispose: Non posso mostrarti il sacro corpo del Servo di Dio (lo aveva, infatti, messo in un posto segreto, affinché un così grande tesoro non corresse pericolo di essere rubato) ma ti darò un pezzo(3) delle sue vesti, in cui avvolgerai il braccio malato, e se il Signore vorrà, potrà glorificare il suo Santo nella tua figliuola. Così fecero e pernottarono lì. Si deve pensare che al contatto con la veste subito avvenisse la guarigione; ma siccome non scoprirono il braccio se non dopo aver sciolto un voto che avevano fatto, solo allora si accorsero che era totalmente guarito(4); e mentre erano arrivati al Monastero colmi di tristezza, ritornarono a casa pieni di letizia.

 

Note

1. Non c'è bisogno di ricordare che nel '300 non esistevano cognomi come noi li intendiamo, e le persone venivano indicate o con il nome dei genitori, come in questo caso e come indicano tanti cognomi ancora attuali, ad es. Di Matteo, Di Pierro, Di Lorenzo ecc. o da qualche particolarità fisica, ad es. Russo, Bianco ecc. o dal mestiere esercitato, es. Calzolari, o da qualche particolare atteggiamento o modo di fare, es. Svelto, Veloce, Malinconico; e cose simili.

2. Nota marginale dell'Autore: Lettura 7 e respons. 10.

3. Il testo usa qui un termine, pantidem, che se non è un errore di stampa, non so da dove derivi; ma dal senso generale della frase e dal riscontro con il passo parallelo dell'Anonimo trecentesco, di cui, in questo punto, il De Lauro ripete le identiche parole, non può esserci dubbio alcuno circa il significato: l'Anonimo, infatti, usa qui la parola particulam, cioè, alla lettera, particella, che è l'interpretazione proposta.

4. L'Anonimo, invece, scrive che il braccio fu sciolto solo al ritorno dei due a Senise, ove poterono constatare la guarigione avvenuta.

 

 

CAPITOLO XVIII

Un sacerdote al sepolcro dell'uomo di Dio riacquista 1a voce perduta.

Don(1) Giovanni Capano della stessa Terra di Senise, nel giro di un biennio, ebbe la voce quasi totalmente soffocata, e nessuna abilità di medici cercati in lungo e in largo potè in alcun modo giovargli(2), così che era giunto a tal punto di disperazione che aveva deciso di girovagare per il mondo, vergognandosi, in tale condizione di infelicità, di continuare a vivere umiliato tra i conoscenti e gli amici(3). Finalmente, privo di ogni aiuto umano, si rivolse alla bontà di Dio e ricorse ai meriti del Beato Giovanni da Caramola. Si recò, dunque, il presbitero senza voce alla tomba del servo di Dio, ove per tutta la notte vegliando inginocchiato umilmente e pregando con molta devozione che gli fosse restituita la limpidezza della voce, finalmente, stanco e vinto dal sonno, si appoggiò sopra il tumulo del Beato, e svegliatosi dopo pochissimo tempo, si accorse subito di aver riacquistato la salute di prima. Da questo momento in poi avvenne che Don Giovanni Capano mai allontanò dalla sua bocca(4), mai dal suo cuore un così grande beneficio ricevuto da Dio per i meriti e l'intercessione del Beato Giovanni da Caramola, e sempre rendeva grazie a Dio che non solo aveva allontanato da lui quel motivo di vergogna(5), ma gli aveva ridato un organo perfettamente sano e una voce più limpida e più chiara di prima per lodare il largitore dei doni e benedire il suo santo servo.

 

Note

1. Il testo dice Domnus, cioè dominus, che vuol dire signore; ma si è preferito tradurre Don, perché il domnus è qui riferito a un sacerdote; e già al tempo in cui il fatto avvenne, si attribuiva il don, o, meglio il dom ai sacerdoti, anche se riservato all'inizio, ai prelati, agli abati e ai monaci benedettini.

2. Nota marginale dell'Autore: Lettura 7 Respons. 12.

3. L' Autore in questo inizio del terzo racconto segue, quasi alla lettera, il dettato dell' Anonimo del Trecento.

4. Cioè ne parlava continuamente.

5. Se ne vergognava sia perché, si può immaginare, quella voce esile e fioca poteva essere, fra gente tutto sommato rozza e ignorante, motivo di facili motteggi e battute di spirito, sia perché un sacerdote inabile al canto e alla predicazione era automaticamente escluso da buona parte del suo ministero.

 

 

CAPITOLO XIX

Un ragazzo è liberato dal tremore del braccio per i meriti del Beato Giovanni.

Un ragazzo di Noia di nome Gentile(l), ma veramente cattolico e cristiano per fede(2), era tormentato da un continuo tremore del braccio, tanto che se, qualche volta, per provare la gravità del suo male tentava di prendere con la mano un vaso pieno d'acqua, subito cadeva tutta per terra(3). Non avendo trovato altrove rimedio alcuno, si raccomandò, con la dovuta pietà dell'animo e con fede sincera, al Beato Giovanni da Caramola. Tale fiducia non andò a vuoto, infatti per i meriti di questo Santo e per la sua preghiera, subito, al di là di ogni speranza, quel ragazzo, che non aveva potuto ottenere la guarigione attraverso gli aiuti dei medici, si trovò completamente guarito.

 

Note

1. Come per gli altri episodi già riportati, il De Lauro ricalca anche qui il racconto dell'Anonimo trecentesco, aggiungendo, tuttavia, in modo esplicito, che il ragazzo aveva nome Gentile, mentre l'Anonimo aveva detto testualmente solo Gentilis puer senza il termine nomen (nome), il che avrebbe potuto far pensare non che il ragazzo si chiamasse Gentile di nome, ma che fosse gentile, cioè nobile, perché nel Trecento il termine "gentile" significava prima di tutto nobile.

2. Qui l'Autore, una volta identificato il nome Gentile come nome proprio del ragazzo, scherza su un altro significato del vocabolo, quello di pagano, perciò fa un gioco di parole: il ragazzo era Gentile (cioè pagano) di nome, ma vero cristiano e cattolico per fede.

3. Nota marginale dell'Autore: Lett. 8.

 

 

CAPITOLO XX

Una donna zoppa ottiene 1a salute presso il sepolcro del servo di Dio.

Una donna della stessa terra di Noia(l) soffriva da molto tempo di un duro gonfiore sul piede, e per questo non poteva in alcun modo né stare in piedi né camminare se non appoggiandosi a un bastone. Sentite le cose straordinarie che tutti narravano del Beato uomo Giovanni da Caramola, andò, portata su un giumento, al sepolcro del Beato, ove, dopo aver pregato Dio ottimo massimo(3) che volesse guarirla per intercessione del Beato Giovanni, quel tumore, per la grazia di Dio e per la virtù di questo Santo, scomparve più velocemente di come scompaia la cera dinanzi al fuoco o il ghiaccio davanti al sole; e colei che era venuta inferma e zoppa, ritornò a casa guarita, piena di gioia e rendendo grazie a Dio.

 

Note

1. L'Anonimo trecentesco dice che ha personalmente conosciuto questa donna, ma che non ne ricorda il nome.

2. Nota marginale dell'Autore: Dalla stessa lettura.

3. Queste espressioni sono reminiscenze umanistiche che durarono a lungo soprattutto nello stile lapidario.

 

 

CAPITOLO XXI

Un barone al contatto(1) delle erbe del letticciuolo dell'Uomo di Dio guarisce di un'ulcera alla tibia.

Non si deve tacere un fatto meraviglioso e celebre, degno di memoria, che capitò a Giovanni, Signore del Castello di Armento(2). Questo barone Giovanni(3) aveva una tibia così molle, ulcerata in maniera così brutta che non si sapeva più quale parte in essa fosse sana e quale malata. Non appena il Barone entrò nella piccola cella di questo Santo, al contatto con le erbe che il Beato soleva stendere sul suo giaciglio, la brutta piaga scomparve da tutta la tibia, immediatamente fu risanata ogni rottura ulcerosa, e dove la carne era stata corrosa si rimarginò. Per questo subito si può capire come l'infinita bontà di Dio curasse gli infermi e aiutasse i bisognosi anche tramite il giaciglio del suo servo Giovanni da Caramola.

 

Note

1. Nel Titolo originale un errore di stampa tractum per tactum.

2. Armento era un feudo del Vescovo di Tricarico, perciò questo barone Giovanni che è detto Signore di Armento doveva essere un amministratore del Vescovo o un signorotto locale.

3. Nota marginale dell'Autore: dalla stessa lett. 8.

 

 

CAPITOLO XXII

Un religioso è liberato da una grave malattia e da pericolo di morte

Un religioso, chierico del Sagittario, di nome Taddeo, di cognome Terracio(1), mentre frequentava il corso di filosofia(2), si ammalò di dissenteria con acuti e pungenti dolori di ventre, con febbre altissima e vomito. Totalmente sfinito, senza dubbio, per la continua perdita di sangue, i continui dolori e la febbre, esaurite tutte le forze del suo corpo, era arrivato già alla fine, non avendo preso, come cibo, nient'altro che il Santissimo Sacramento dell'Eucarestia come viatico, tanto frequentemente l'infermo era tormentato dal vomito. E mentre i Padri in lacrime raccomandavano la sua anima a Dio, Taddeo mentalmente si rivolse con la massima devozione al Beato Giovanni da Caramola per la sua salute. E colui che per due ore non era stato capace di parlare e che i Padri pensavano che da un momento all'altro sarebbe morto, ecco che si alza dal letto e dice di voler andare all'altare del Beato Giovanni. I presenti si rallegrano e gli infermieri sono pronti a sostenerlo. Ma lui, che non era capace di avvicinarsi alla sedia posta vicino al letto se non aiutato almeno da due persone, andando alla chiesa rifiutò l'aiuto sia degli infermieri che degli altri e persino del bastone. Giunto passo passo al detto altare, di nuovo si raccomandò con grandissima devozione al Beato Giovanni; poi, fatto sul ventre il segno della Santa Croce, con il piede stesso del servo di Dio che, reciso dal corpo, è, come sopra s'è detto(4), conservato con lo stesso sacro corpo; dopo aver ricevuto l'Eucaristia, prese una lozione della stessa santa reliquia(5); ed ecco che subito la febbre si allontana, si ferma il flusso del sangue, finiscono i forti dolori e si ritrova guarito; solo che per alcuni giorni rimase debole per la lunga inedia e per l'abbondante perdita di sangue. Sia lui stesso che gli altri, pieni di gioia nel rendimento di grazie, diedero gloria a Dio e all'umile suo servo Giovanni.

 

Note

1. Di questo fatto e di quelli che seguono non c'è traccia nell'Anonimo trecentesco, e nemmeno nell'Ufficio in onore del Beato. Infatti, al contrario dei miracoli precedenti, qui non vengono citati dall'Autore né la lettura né il responsorio corrispondente. Certamente si riferisce a racconti di miracoli tramandati verbalmente.

2. E' interessante questa nota che ci fa sapere come il Sagittario fosse anche un centro di studi, come, del resto, tutte le Abbazie del tempo.

3. I sintomi della dissenteria sono stati descritti con una certa precisione. La malattia, piuttosto comune in quei tempi di scarsa igiene, era spesso mortale.

4. Quando s'è parlato della mutilazione del cadavere fatta per accontentare i Tolosani.

5. Di che lozione si tratta? C'è, in questo punto del racconto, una certa confusione e poca chiarezza; l'Autore è stato più bravo a parlare della malattia che della guarigione del giovane religioso; anche perché a noi forse non piace quel mettere insieme cose tanto diverse come la fiduciosa preghiera mentale del malato e il Sacramento dell'Eucaristia, con questo strano segno di croce fatto sul ventre del malato con il piede.

 

 

CAPITOLO XXIII

Un converso con la lozione delle sacre Reliquie del Beato Giovanni è liberato dal flusso di sangue e dalla febbre.

Fra Cosimo di cognome Vacca, converso della Santa Casa, vedendosi per un flusso di sangue e per una fortissima febbre prossimo alla morte, si rivolse con piena devozione al Beato Giovanni da Caramola suo Patrono; e, presa con somma fiducia un'abluzione delle sacre Reliquie del Beato Giovanni(1), che aveva chiesto che gli fosse portata dal Priore, chiamato Marzio Frezza, subito si trovò guarito dal flusso del sangue e dalla febbre altissima, e si riconobbe sano suscitando l'ammirazione del Priore e dei Monaci.

 

Note

1. Continua l'incertezza di cui s'è detto prima: di che liquido si tratta? Nell'episodio precedente si parlava di un poculum lotionis, in cui il poculum (tazza, bicchiere) fa pensare a qualcosa che si beve, e la lozione a qualcosa che lava o che unga; qui si parla di sumpta ablutione, in cui la parola abluzione fa pensare a qualcosa che serve per lavare e il termine latino sumpta fa pensare al bere. Di che si tratta, dunque? Anche perché, quando l'Autore ha parlato della morte del Beato e di ciò che avvenne dopo la morte, ha parlato solo degli oggetti di cui il Beato s'era servito in vita e di nient'altro, di nessuna lozione e di nessun liquido in generale. Ma forse si tratta, più semplicemente, di un po' di acqua che tocca le reliquie del Beato.

 

 

CAPITOLO XXIV

Anche un oblato guarisce miracolosamente dalle stesse infermità.

Fra Giovanni Camillo Donadio, di Castelluccio, Oblato del Cenobio del Sagittario, gravemente prostrato dalle stesse infermità, era arrivato a tal punto che di lui non si aveva, oramai, alcuna speranza di salvezza, e lui stesso, il malato, si lamentava della brevità dei suoi giorni e chiedeva insistentemente un qualche rimedio perché potesse vivere ancora. Finalmente con grande devozione e profonda umiltà, chiese di esser confortato con la lozione del Servo di Dio Giovanni da Caramola. Il Priore predetto, prese le reliquie del Santo Uomo, le lavò e infine fece bere la lozione(l) all'Oblato che soffriva di emorragia e di febbre altissima. E per la grazia di Dio Onnipotente e del suo servo avvenne che subito il malato riacquistò la salute e rese infinite grazie a Dio e al suo servo Giovanni presso l'altare a lui dedicato.

 

Note

1. Sì, sembra che sia proprio così: si beveva l'acqua che era passata sopra le reliquie del Beato.

 

 

CAPITOLO XXV

La Contessa di Saponara, alla vista del velo con cui era stato coperto il sacro Corpo del servo di Dio, è liberata dalla malattia e dal pericolo di morte.

L'Illustrissima Signora Donna(1) Delia, della nobilissima stirpe dei Sanseverino, moglie dell'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore Don Giovanni Sanseverino, Conte di Saponara(2), sfibrata dai dolori per l'aborto di due gemelli, tormentata pesantemente per molti giorni dall'ardore delle febbre e dallo strazio, era giunta, oramai, in pericolo di vita, anche perché da molti giorni non riusciva più né a dormire, né a riposare, né prendeva cibo alcuno, cosicché era, ormai, quasi priva di sensi. E il Conte stesso, per l'amore tenerissimo che le portava, sentiva il martirio di cui lei soffriva nel più profondo del suo cuore, tanto che sembrava che anche lui presto dovesse ammalarsi per l'eccessivo dolore. Dopo che, inutilmente, si era rivolto, per avere qualche rimedio, ai medici più famosi, alla fine, con grande fede fece ricorso, con la mente, ai meriti del nostro Beato Giovanni pregandolo devotissimamente che volesse aiutare in questa necessità la Contessa sua sposa. Tutte queste cose vennero a mia conoscenza(3). Una mattina scesi dagli appartamenti abbaziali nella cappella dedicata al servo di Dio e, aperto il sacro tesoro, dopo aver prima acceso le candele, cantati conventualmente(4), con grandissima devozione, secondo il solito, l'inno, l'antifona, il verso e la colletta(5) con la pietà e la riverenza confacenti e dovute, presi il sacro velo con cui era coperto il corpo del Beato Giovanni da Caramola e lo mandai, ben nascosto, insieme con una mia lettera, all'Illustrissimo ed Eccellentissimo Conte, allo scopo di aiutare, per quanto mi era possibile, la Contessa e il Conte nella loro necessità. E la fiducia di ambedue ebbe il suo frutto; non appena, infatti, la Contessa ebbe visto e onorato il sacro velo del Servo di Dio, subito riacquistò tali forze che si alzò dal letto e immediatamente cominciò a camminare per il castello, come attesta lo stesso devotissimo Conte in una lettera a me indirizzata che si esprime in questi termini. Fuori(6): Al Reverendissimo Padre mio osservandissimo, il Padre Don Gregorio Lauro Abate del Monastero del Sagittario. E dentro: Reverendissimo Padre. Quando gli amici sono veramente amici, non aspettano di essere richiesti nell'occorrenza, ma da se stessi, conoscendosi necessaria la loro opera ve l'impegnano senza indugio, e con fervore; come a punto ha fatto V.P.(7) Reverendissima, nell'havermi inviato il velo del Beato Giovanni, ch'è stato miracolosissimo per la Contessa mia; dove subito veduto, e riverito, ha in un istante pigliato forza tale, che ha incominciato a camminare per il castello, donde si spera riceverne in tutto la desiderata grazia: ne resto però(8) molto tenuto a V.P. Reverendissima, e all'incontro vorrei, che mi porgessi occasione di poterla servire gionto con tutti cotesti Padri e li baccio le mani. Saponara 3. ottobre 1651. Di V.P. Reverendissima servitore, il Conte della Saponara. Il Padre Abate del Sagittario.
Allora tutti quelli che erano presenti, stupiti per il fatto meraviglioso, resero moltissime grazie a Dio per il fatto che avevano potuto vedere con i loro occhi una cosa tanto straordinaria; e quelli che erano assenti, sentendo ciò che era accaduto, furono rafforzati in una devozione più vera verso il servo di Dio e, pieni di gioia, lodarono e glorificarono Dio nell'umile suo servo.

 

Note

1. L'Autore ha usato prima il termine domina (signora) poi domna, che è proprio il titolo che ancora oggi, soprattutto nell'Italia Meridionale, si dà come il corrispondente maschile don, alle signore di un certo riguardo.

2. E' l'attuale Grumento Nova che fino al 1863 si chiamava Saponara, poi (dal 21 aprile 1863) Saponara di Grumento, e infine (3 novembre 1932) Grumento Nova, risuscitando il nome dell'antica città, colonia romana, che sorgeva in basso nella zona che la gente del luogo chiamava Civita. — La Contea di Saponara era dei Sanseverino già dalla fine del sec. XIII (1298) quando Riccardo d'Avella, che era ammiraglio del Regno e Conte di Saponara, la diede in dote alla figlia Margherita che sposava Ruggiero, figlio di Tommaso conte di Marsico (Cfr. T. Pedio, La Basilicata dalla caduta dell'Impero Romano agli Angioini, Bari, vol. IV, pag. 325).

3. Come si vede, l'Abate De Lauro, dopo aver narrato tanti miracoli dei tempi passati, ne narra uno del suo tempo e di cui lui stesso è, in qualche modo, attore.

4. Cioè in coro, tutta la Comunità insieme.

5. E' la preghiera propria del Beato.

6. Noi diremmo: sulla busta. Ciò che segue è in italiano nel testo, e viene riportato con la massima fedeltà.

7. Vostra Paternità.

8. Nel significato antico di perciò (dal latino per hoc).

 

 

ULTIMO CAPITOLO

Perché non sono riportati molti fatti meravigliosi.

Sarebbe molto lungo narrare ed esaminare i singoli casi di quelli che, affetti da varie malattie, venuti con animo umile e devoto al sacro Cenobio del Sagittario, sperando in colui che sana i contriti di cuore, furono completamente guariti per i meriti del Beatissimo Giovanni da Caramola. Ci basta aver narrato quanto all'inizio ci eravamo proposti di fare(1). Non scriviamo molte altre cose non, certamente, perché non vogliamo lavorare, ma non vorrei(2) che, sotto l'aspetto della verità, entrasse nella narrazione qualcosa di falso. Ma, in verità, da quel poco che brevemente abbiamo narrato, è chiaro che tutti i sofferenti o per malattia o per altre cause, o quelli esposti a pericoli, si sentirono tutti, per le sue preghiere e per i suoi meriti, liberati da tutti i mali, anche dalle fauci della morte, e, ancor più, sentirono presente la forza del Signore Nostro Gesù Cristo. E anche verso gli indemoniati lo stesso servo di Dio risultò grande liberatore, com'è detto nello stesso suo Ufficio con queste parole: Libera egli le donne invase dai demoni(3) — chi soffre per le febbri sana il celeste erede. —
Non si deve tacere, inoltre, per far capire sempre meglio la santità di quest'uomo, un'altra cosa, più straordinaria degli altri fatti narrati, e i cui segni visibili si possono osservare ancora oggi: infatti, quando nei secoli passati, o per la violenza delle guerre o per opera dei ladri o per gli assalti dei banditi o per l'astuzia di invidiosi profittatori o per caso o per disgrazia, tutto il Cenobio del Sagittario, il Sacro tempio della Vergine, l'altare del Beato Giovanni da Caramola furono distrutti dagli incendi(4), sia la statua della Gloriosissima madre di Dio, sia il Sacrosanto Corpo del servo di Dio non subirono altro danno, da parte del fuoco che imperversava senza controllo alcuno, se non una bruciatura al braccio del corpo del Beato, e, per quanto riguarda la statua della Vergine, una bruciatura allo sgabello su cui poggiavano i piedi, affinchè in questi punti si potesse leggere, come in un libro, la grandezza del miracolo. Possiamo, infine, aggiungere che ogni volta che i Sagittariensi si sentono oppressi da qualche bisogno particolarmente grave, ricorrono all'intercessione del Beato Giovanni da Caramola, espongono il Sacratissimo corpo e subito si ferma il fuoco, cessa la tempesta delle acque, trovano soccorso nei bisogni e si vedono liberati da ogni pericolo(5).
Gioisci, dunque, o Chiesa del Sagittario(6), ed esulta in lode del tuo Protettore, il quale fino a quando visse con il corpo sulla terra, ti istruì con i suoi esempi di santità, ti decorò con i suoi costumi, ti onorò con le sue virtù; e, finalmente, lasciata questa prigione della carne(7), quando entrò coronato nel Paradiso del Signore suo Dio, ti protegge dagli assalti degli spiriti maligni con la forza invincibile delle sue sante preghiere. Perciò, o famiglia del Sagittario, esulta di gioia spirituale per aver meritato un così grande Patrono, di cui, fino a quando sulla terra tu venererai con amore le Sacre Reliquie, avrai la protezione mediante le sue sante invocazioni nel cielo: qui, infatti, egli presenta le suppliche, che a lui tu affidi, entro il sacrario dell'esaudimento divino. Qui egli implora per te le piogge della fertilità, l'abbondanza dei frutti, la serenità del cielo e l'incolumità dei corpi. Qui apre il seno della divina misericordia e, intercedendo con le sacre orazioni, riapre le orecchie della divina pietà, che Dio stesso aveva chiuse irritato dai peccatori(8). E di quanto pio amore ti ami questo tuo Patrono appare dai miracoli di cui ancora è viva in te la memoria. E, infine, se il Santissimo Dottore Mellifluo inviò a Matteo Vescovo di Albano(9) un pugnale con un manico di avorio insieme con il sermone sul fattore infedele(10), affinchè se vi avesse trovato qualcosa di errato che meritasse di essere tolto via lo tagliasse con il coltello proprio dello stesso Autore, quanto più noi, figlio suo in Cristo(11), non dotto, non puro nella lingua e addormentato nel letto dell'ignoranza, vorremmo inviare il presente opuscolo e tutto questo volume(12) con un coltello e un calamaio a tutti e ai singoli eruditi, affinchè ognuno avesse la possibilità di togliere ciò che per errore o inavvertenza vi potesse trovare di inesatto ed aggiungervi ciò che forse ci manca per ignoranza. Volesse il cielo che ci fossero quelli che potessero correggere, cancellare e aggiungere a maggior gloria di Dio e a lode del Beatissimo Giovanni da Caramola.

                Amen

Fine della vita del B. Giovanni da Caramola Tolosano Converso del Monastero del Sagittario.

 

Note

1. L'Autore, veramente, dice alla lettera: ciò che abbiamo promesso nella prefazione. Ma che cosa aveva promesso? E in quale prefazione?

2. E' l'autore stesso che passa, volutamente, dal plurale proprio dello stile classico degli scrittori, al singolare che indica la personale responsabilità di chi scrive o parla.

3. Nota marginale dell'Autore: Responsorio II. E' interessante notare come il citato responsorio (tradotto in italiano conservando l'identico ritmo del latino originale) non parli di indemoniati in generale, ma solo di donne possedute dal demonio, e questo, certamente, non perché nel testo latino la parola mulieres (donne) potesse far rima con haeres (erede), ma proprio perché erano quasi solo le donne considerate, purtroppo, suscettibili di possessioni diaboliche; e per questo, soprattutto nel Seicento, tante povere disgraziate subirono processi e incomprensioni, maltrattamenti e sofferenze di ogni genere e persino la morte. Ed erano solo, tolto il caso di qualche esaltata, povere malate o donne stanche o esaurite per le tante fatiche e le tante incomprensioni e tribolazioni che erano costrette a sopportare.

4. Era la causa più comune di distruzione dei monasteri e delle chiese che, tuttavia, risorgevano sempre più grandi e più belle, perché c'era la volontà e il desiderio di rifarle. La vera rovina degli edifici sacri cominciò nel 1806 e 1809 con le disposizioni prima di Giuseppe Bonaparte poi di Gioacchino Murat, e poi, dopo l'unità nazionale, con le leggi del 1866—1867 con cui venivano chiusi i monasteri e, in genere, i luoghi sacri non direttamente utilizzati per la cura dei fedeli. Allora molti monasteri furono destinati a sedi comunali, a scuole, a caserme, o venduti a privati; si poterono, tuttavia, salvare, ancora, molte opere d'arte.

5. Data la posizione isolata del Sagittario, tra i boschi dei monti calabro-lucani, gli incendi, le perturbazioni metereologiche, le carestie, le grandi nevicate, le razzie dei banditi costituivano i pericoli più comuni e più gravi.

6. Apostrofe finale, tipica della storiografia di tipo classico e oratorio.

7. E' la concezione, di ascendenza platonica e, in genere, greca, che vedeva nel corpo la prigione dell'anima, non un elemento che, insieme con l'anima, forma quell'unum che è l'uomo.

8. Non si dimentichi che l'Autore scriveva in pieno Seicento, perciò il gusto, proprio del tempo, delle immagini lussureggianti, esagerate, rare e ricercate non poteva essergli estraneo, come già in altre occasioni è stato notato.

9. Cardinale Vescovo di Albano, nato a Laon, in Francia, intorno al 1085, morto a Pisa nel 1134. Fu prima monaco cistercense a Parigi, poi passò tra i Benedettini di Cluny, ove era abate Pietro il Venerabile. Onorio II lo volle cardinale e Vescovo di Albano. Difese il papa Innocenzo II dall'Antipapa Anacleto. Con S. Bernardo fu a Milano per riportare all'obbedienza di Innocenzo i seguaci dell'Antipapa.

10. E' la parabola dell'amministratore infedele, in Luca 16, 1-8.

11. Il De Lauro si diceva figlio di S. Bernardo perché apparteneva all'Ordine Cistercense fondato dal Santo.

12. Si ricordi che l'opuscolo sulla vita del Beato Giovanni da Caramola, qui tradotto, formava la terza parte dell'opera dell'Abate De Lauro.