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Albano di Lucania

da "la Basilicata nel Mondo" (1924 -1927)

 

 

Albano di Lucania ai propri Caduti

Il discorso del prof. Francesco Galgano
Nel numero passato, pubblicammo la cronaca della inaugurazione del monumento ai Caduti gloriosi di Albano di Lucania.
Pubblichiamo ora integralmente il magnifico discorso dell’illustre avv. prof. Francesco Galgano, dell’Università di Napoli, e componente la Commissione Reale per la Riforma dei Codici, giovine e autentico rappresentante della forza del pensiero lucano.


Or sono 8 anni! E in questi giorni la guerra più sanguinosa che la storia ricordi si conchiudeva con la più grande nostra vittoria.
Gli eserciti nemici sbaragliati e vinti, gli scopi immediati e più strettamente nazionali della lotta raggiunti, e gli ideali più universali di essa conseguiti: liberate e ricondotte nel seno della Patria le città sorelle, il cui nome ci era stato additato fin dall’infanzia come sacro, ma di cui l’amore si era alimentato della tristezza disperata del distacco; assicurati i naturali confini del paese; il nostro tradizionale nemico annientato ed alla sua artificiosa organizzazione statale sostituite organizzazioni nuove a base nazionale; altre terre liberate dallo straniero, e sopratutto liberata l’Europa dalla peggiore delle soggezioni, quella fondata sulla pretesa supremazia etnica di un popolo, sulla superiorità di razza predestinata, in ossequio alla quale la Germania credeva di potere e di dovere condurre la propria guerra.
Giorni frementi di gioia. La notizia della vittoria era corsa fulminea ,dai piani e dai monti ancora risonanti dell’ eco delle battaglie alle città ed ai borghi via via più lontani, ed aveva dato moto irresistibile e sonorità gioconda ai bronzi di tutte le torri, e soffio ed anelito a tutte le bandiere, aveva schiusa l’anima a tutti i canti, risuscitato i caduti, dato splendore a tutte le ferite, e spianato il volto delle madri contratto sotto il morso del dolore.
O giorni, giorni ineffabili! Come rivivervi? Come obliarvi?
E pure la dimenticanza sopravvenne più rapida di ogni possibile immaginazione. Dopo il primo guizzo di gioia, l’evento immenso comincio ad essere discusso, ed assoggettato ad un’analisi minuta e preconcetta, avida del dettaglio e senza occhi per le grandiose conseguenze,. avvelenata dal rancore e senza un alito di carità di Patria.
E la vittoria venne a poco a poco sminuita, rinnegata, distrutta.
Ma il senso pieno di essa fermentava nascosto nell’anima del popolo. Il popolo era stato di essa il massimo artefice, aveva dato per essa il sangue di tutte le vene, il pianto di tutte le pupille. Come non sentirla profondamente? Bastava quindi guardare anche superficialmente nell’anima delle masse, per intendere quanto poco occorresse per riappiccarvi il più grandioso incendio e la più vivida luce.
La fortuna d’Italia volle che, dopo un breve periodo di smarrimento, questa constatazione divenisse coscienza sempre più generale.
Difendere la Vittoria ,,, non solo perché ciò era giusto contro le artificiose ed infondate menomazioni, non solo perché era imposto dalla doverosa riconoscenza per i caduti ed i superstiti, ma anche perché nella generale riconquista della sua coscienza era il miglior lievito per la rigenerazione delle anime e la forza più vigorosa per la ricostruzione nazionale e 1’avviamento del paese verso i suoi futuri destini.
Difendere la Vittoria ,,. Così ammoniva ancora di recente la voce poderosa del Capo del Governo; così ammonisce, nel suo simbolo, questo nobilissimo bronzo, che oggi s’inaugura ad eternare la memoria sacra dei nostri Caduti.
E così la Vittoria è divenuta il faro luminoso del cammino dell’ Italia per le vie del mondo, il monumento più maestoso che i suoi figli abbiano costrutto, il maggiore orgoglio per ogni cittadino.
Ma essa incede su un tappeto di carne umana e lo sterminato numero dei fiori della sua ghirlanda crebbe nel sangue e nel pianto.
Non pochi di tali fiori nacquero su questa Terra, adusata al dolore e al sacrificio. Trapiantati nei campi di battaglia, distrutti dal furore della mischia, rinati più vermigli nei solitari cimiteri di guerra, ciascuno di noi portò ad essi sempre, anche nei periodi più tristi, la rugiada della nostra rimembranza e 1’alito caldo del nostro amore.
Oggi, tutti raccolti intorno a questa pietra, la nostra rimembranza e il nostro amore vogliamo insieme elevare ad una intima comunione di spiriti con i nostri Morti, che ci consenta di rivivere con essi, di rivedere in tutta la sua grandezza il sacrificio da essi compiuto, e farne il viatico della nostra restante vita.

Cesare Raggio - Studente di istituto tecnico soldato di fanteria.
Il ciclo epico si apre, subito dopo 1’inizio della guerra, con 1’olocausto di uno dei più giovani della schiera eroica, di un figlio di quella borghesia, la quale doveva dare il maggior contributo di sangue, di Cesare Raggio.
Vent’anni appena compiuti Egli aveva; ma aveva conservato, nella innata ritrosia e timidezza, una pura ed incontaminata anima di fanciullo, che gli traspariva dai grandi occhi miti.
Sorpreso dalla guerra, vi si dispose come all’adempimento di un dovere superiore, cui non sia lecito sottrarsi, e, nella sua anima profondamente cristiana, si preparò all’idea della morte come ad un sacrificio voluto da Dio per la grandezza dell’Italia. E la morte aspettò con animo pacato e sereno, non turbato che da un solo pensiero, quello del dolore inconsolabile che ne sarebbe derivato alla famiglia.
“Nel caso che io dovessi perire,— scriveva, — sotto il peso di un sicuro presagio, — al padre, non piangetemi, perché così avrà voluto il Signore. La vita? la vita che è così bella a vent’anni, io l'ho perduta; rimpiango soltanto il fulmine che cadrà sulle vostre teste per la mia perdita. Ma tu, caro padre, tu che hai fatto tanto per il tuo povero figlio, affinché fosse divenuto lo specchio della casa, tu almeno potrai gridare forte a tutti: mio figlio è morto per noi, ma non per l'Italia.
Poche ore dopo si dileguava per sempre. Il 16 agosto 1915, uscito dalla trincea per una ricognizione, non vi fece più ritorno; né fu dato di ritrovare il suo corpo, né di accertare come, quando e il luogo ove fosse caduto. Forse, dopo una lotta disperata con una pattuglia nemica, presentataglisi di fronte inopinatamente, dovè soccombere all’avversario più forte. Forse invece rimase vittima di un agguato o di altra insidia o di un comune incidente, condannato a perire senza la possibilità di una qualsiasi reazione, stretto da una fatalità contro cui sia vano insorgere, senza la possibilità di un gesto eroico, senza prospettiva di gloria, forse anzi con il dubbio della inutilità del sacrificio.
Sorte, non meno meritoria e benedetta dalla Patria, ma particolarmente trista per un combattente, ed amara e logorante pei familiari.
Il povero padre, anima semplice ma generosa e cavalleresca, cresciuto ai racconti garibaldini ed alle gesta degli eroi del Risorgimento, nel distaccarsi dalla sua creatura, quando il pensiero del ritorno, nel quale si effondeva tutto il suo cuore, vide attraversato dal dubbio atroce, aveva segretamente augurato che, se fosse stato segnato dal destino, il suo Cesare avesse potuto involarsi in una fiamma di eroismo.
Il voto non fu esaudito; ed il padre, curvato sempre più sotto il peso di un dolore disperato e senza orgoglio, seguì, dopo non molto, il figlio nella sorte.

Francesco Armento - Falegname-ebanista, sottotenente dei Bersaglieri; decorato della medaglia d’argento, con motivazione riportata nei testo.
La gloria invece sfiaccola veemente, nella sua fiamma sanguigna ed abbagliante che attinge le stelle, dal sacrificio di un altro dei nostri, il più anziano ed il più maturo nella schiera degli eroi giovinetti: di Francesco Armento.
Nell’adolescenza e nella prima giovinezza era stato incerto nella via da scegliere ed insofferente della disciplina che il cammino in ciascuna di esse richiede; ed era passato a volte a volte dagli studi, cui era stato iniziato da quella forte tempra di umanista che fu lo zio Innocenzio, al mestiere del padre, all’arte dei campi nel modesto possedimento famigliare: ma subito stanco dopo i primi tentativi, e sempre inquieto e scontento. Era questo suo fare inteso come svogliatezza, scarso attaccamento al lavoro e persino come stranezza. Si trattava invece di una sproporzione profonda fra le sue intime aspirazioni, allora vaghe e non venute a coscienza, fra le ideali tendenze della sua anima elettissima e le condizioni esteriori di ambiente e di vita.
La guerra doveva offrirgli 1’occasione di rivelare ed affermare, con impronta indelebile la sua personalità, e porlo di fronte al suo vero destino, un destino di grandezza e di gloria.
Fu interventista dalla prima ora, facile all’entusiasmo ma prontamente deciso all’azione. Fin dall’ottobre 1914 chiedeva di essere arruolato come volontario, desideroso, come diceva nella domanda, di marciare pel riscatto dei nostri fratelli ed alla riconquista delle nostre terre ,,. Finalmente esaudito, dopo la rinnovazione della domanda fatta nell’aprile successivo, ed assegnato ad un reparto che non gli sembrava sufficientemente esposto, chiese di essere destinato ad altro corpo e mandato in trincea; e dall’arrivo in prima linea la sua vita non è che una serie ininterrotta di maravigliosi atti di valore.
Non di valore soltanto, ma atti al tempo stesso di pietà e solidarietà umana, determinati dai sentimenti più generosi di cui sia capace l’anima nostra. Perché, appunto, la individualità singolare di Francesco Armento non si esaurisce nella sua qualità di soldato di eccezionale coraggio, ma è molteplice e varia, e trae carattere di nobiltà particolare da altre idealità, alle quali pure Egli volle fare olocausto della sua vita.
Il suo interventismo prese origine dalla coscienza che attraverso la guerra si dovevano realizzare delle sacre aspirazioni nazionali, ma ebbe anche moventi ulteriori e più universali. La guerra, che, in una pagina piena di fervore, Egli chiamava” antiteutonica ossia non diretta soltanto contro 1’Austria, doveva essere anche strumento di difesa della civiltà latina dal tentativo di sopraffazione di quella germanica, ed era inoltre un dovere di tutti i popoli civili verso Nazioni, sopratutto le piccole Nazioni, colpite all’improvviso dall’aggressione di Stati più forti.
Riascoltiamo quanto Egli scriveva al principio della guerra al Giornale d’Italia: “ Il cooperare a fine di fiaccare prepotenze note di discendenze barbare, cercanti perfidamente e brutalmente di soggiogare le più grandi civiltà del mondo non è solamente da uomini moderni, ma anche da uomini grandi ‘ E più in là, dopo una sferzata ai neutralisti, che contrastavano 1’intervento dell’ Italia “ prezioso, come Egli diceva, al Belgio, al Montenegro ed alla Serbia ,,, ammoniva che “ nos non nati sumus solum pro nobis sed etiam pro aliis.
E non diversamente durante la guerra. Non vi fu atto di audacia da compiere contro il nemico che Egli non si assumesse spontaneamente. Ma gli atti di Lui che più colpiscono e commuovono sono quelli di valore e di pietà insieme; di valore quale tramite della pietà. “ Molta volte Egli espose la vita per raccogliere e soccorrere compagni caduti ,, dice la motivazione della medaglia d’argento alla sua memoria. “ Spontaneamente si offriva all’operazione di trasfusione del sangue per salvare la vita ad un capitano colpito da gravissima emorragia ,, continua la stessa motivazione. Gesti sublimi, che rinnovano la poesia e l’incanto di quelli del Serafico che abbraccia il lebbroso, del Nazareno che dà il proprio sangue per la salvezza dell’umanità, e dinanzi ai quali si è costretti a prostrarsi in adorazione, come dinanzi ai segni certi della divinità.
Accesa da queste luci ideali la sua passione non poteva non ardere in un fuoco sempre più intenso ed in un ascensione sempre più alta. Di qui una ricerca affannosa del pericolo; una persistente sfida alla morte, e come una divina sete di supplizio e una disperata volontà di immolazione.
Insofferente della permanenza nel corpo del Genio Pontieri, chiede ripetutamente e finalmente ottiene il passaggio in quello dei Bersaglieri. Inoltre, con la mente ancora piena dei ricordi delle guerre di altri tempi, ricche di fatti d’arme individuali e di gesti eroici talora decisivi, credendo che ancor oggi alcuno di questi si potesse utilmente rinnovare da uno o più combattenti decisi a tutto, al principio della guerra scriveva al Giornale d’ Italia: “ Se tra i volontari di guerra, soldati e cittadini italiani, vi fosse chi volesse imitare i Mille e che siano in numero che il caso richiede, il sottoscritto è capolista. Però con un condottiero meritevole di noi, che ci conduca ad incontrare una morte ben degna di noi, rendendoci non immeritevoli discendenti di Attilio Regolo, di Pietro Micca e di Muzio Scevola! Similia cum similibus: nobiltà di sentimenti con nobiltà di grandissima morte.
Parole, queste ultime, che scolpiscono in perpetuo la figura del nostro eroe: nobiltà di sentimenti, febbre di martirio e senso di grandezza e certezza della gloria.
In questo stato d’animo, in questa specie di esaltazione mistica, Egli trascorse i suoi 2 anni e mezzo di guerra. E tale stato d’animo traspare anche dalle lettere che, nelle pause del combattimento, scriveva ai suoi famigliari ed agli amici, ed in alcune delle quali lo stile attinge le supreme vette dell’arte. Quando con l’anima gonfia di passione, al limitare della battaglia, all’ombra della morte, il pensiero corre alla madre lontana, la parola assurge inconsapevolmente ad espressione lirica, fissata nei secoli.
Sentite questo mirabile passo, tutto pervaso di gentilezza trecentesca e di spirito della Vita Nova, in una lettera senza data alla sorella Assunta.
Ti mando, con gioia al cuore di combattere per la grandezza della mia sacra Italia, forse l’ultimo addio... Sii superba, cara sorella, che se tuo fratello muore da valoroso e coraggioso quale è, tu ti piglierai il vanto di essermi sorella ,,.
Ed in altra lettera alla madre: “Che se mi toccherà morire per la grandezza della mia Patria, io sono contentissimo, e lascio a Voi il mio più ricco dono, che con la mia vita non potrei darvi, di onore e di gloria.
Questo stato di beatitudine non venne meno, anzi traboccò come un torrente di luce dalla sua ferita, quando sopraggiunse il momento dell’offerta suprema. La morte, la morte fausta e bella, la grandissima morte, inseguita con tanta passione, lo colse nel momento più propizio: nel fatale autunno della Patria, mentre questa sanguinava da mille ferite e sembrava che stesse per essere sommersa; quando solo uno sforzo supremo di tutti i suoi figli poteva salvarla; quando il sacrificio era più colmo di frutti: condizione per la esistenza del Paese, esempio e monito particolarmente significativi ai compagni colpiti dalla sconfitta e dalla sfiducia. E, mentre l'anima si dipartiva, le sue ultime parole, sangue che diveniva Verbo, furono d’ incitamento ai suoi bersaglieri.
Figura plasmata pel monumento: figura di leggenda, del novero di quelle che, come fu detto, sul limitare dell’eternità si allungano a dismisura, come le ombre al tramonto.
Alla madre ed alla sorella, a noi tutti basta il monumento offertogli con le dieci parole della motivazione della medaglia d’argento: “Costante mirabile esempio di slancio e coraggio: primo sempre per zelo e spirito di altruismo.
Queste parole, noi le vogliamo incidere nelle tavole di bronzo della storia della nostra Terra.

Prospero Bollettino-Studente d’ ingegneria; sottotenente di Artiglieria; decorato della medaglia d’argento con la seguente motivazione: “ osservatore in trincea di un Comando di gruppo, mentre assolveva il suo compito durante un violentissimo combattimento, ebbe l’osservatorio distrutto. Uscito dalle macerie, onde proseguire le sue osservazioni, salì allo scoperto, sull'argine del conteso Piave, ed ivi cadde da prode ucciso da granata nemica — Montello, 15 giugno 1918
Ad alcuni mesi di distanza, nel primo giorno della battaglia vittoriosa per eccellenza, nella quale il nemico impegnò tutte le migliori riserve e che perciò, con il fatale declinare di esso, segnò l'inizio del graduale indebolimento di tutta la coalizione avversaria, in quel primo giorno veniva reciso un altro magnifico fiore della nostra Terra.
La mattina del 15 giugno 1918, continuando il bombardamento nemico durato tutta la notte, mentre più numerose piovevano le granate e un fumo micidiale avvolgeva nelle tenebre e nella morte le nostre truppe, in un esiguo camminamento della riva destra del Piave, due giovani sottotenenti, nella solennità dell’ora, si strinsero la mano, si guardarono negli occhi profondi, si baciarono e mormorarono a vicenda: fino alla morte ,,. Poco dopo, uno dei due, investito da una granata, si abbatteva fulmineamente, con una sola suprema invocazione:” Mamma ,,. L’altro, mentre si accingeva ad adagiare al suolo la salma del compagno cadutagli fra le braccia, veniva catturato dalle prime pattuglie avversarie riuscite a varcare il fiume.
Per tre giorni e notti la lotta continuò implacabile, fra la rabbia furibonda delle due artiglierie nemiche. Il terreno, sconvolto in ogni sua zolla e ricolmo di mucchi di cadaveri, era divenuto irriconoscibile. In tanta rovina, quando la pugna ebbe tregua, e le truppe nemiche furono tornate sulla sponda donde erano partite, non fu possibile alla mano pietosa dei superstiti, che tentarono di dar sepoltura ai compagni, di rinvenire la salma del sottotenente caduto.
Cominciò allora nella famiglia lontana, nella mancanza di notizie, il dubbio sulla sorte, più atroce della certezza della morte, dubbio che solo la fine della guerra ed il ritorno del compagno dalla prigionia poterono sciogliere, ridando alla madre la dolcezza del lungo pianto ed al nostro paese 1’orgoglio di un altro eroe.
Quel sottotenente éra Prospero Bollettino. Appena ventenne anche Lui; predestinato anche Lui al sacrificio ed alla gloria.
La famiglia voleva farne un professionista dalla vita sedentaria ed attaccata alla cornice di uno scrittoio. Le condizioni di salute gli consentivano di sottrarsi al servizio militare ed in ogni caso a quello di prima linea. Egli invece, che fin dall’adolescenza aveva sentito trasporto per la carriera militare, al momento delle definitive determinazioni, non esitò a scegliere la sua strada. La circostanza che il Paese era in guerra e che nei due anni già trascorsi questa era apparsa in tutta la sua tremenda ferocia, non operò sul suo spirito in senso diverso. Anzi acuì il fascino primitivo.
Gli è che anch’ Egli aveva la nostalgia del pericolo. Ben presto in prima linea, la zona del fuoco divenne la preferita. La vita delle retrovie, nei turni di riposo, gli era intollerabile. Le lettere inviate ai famigliari ed agli amici durante tali periodi sono ricolme di stanchezza per la monotonia non rotta da nessun. avvenimento, che, come Egli diceva, facesse fremere od esltare.
E del tempo di uno di questi forzati riposi, e precisamente del 6 giugno, una lettera inviata alla sorella nell’imminenza del di lei onomastico. Fra altro Egli scriveva: “ Che dirti dei nostri auguri? Tu li conosci, perché sono la meta delle nostre aspirazioni, delle nostre continue lotte. Un buon passo si è fatto, ancora molto c’è da fare, lo sappiamo. Ma in noi sentiamo la volontà e la forza di riuscire, perché specialmente abbiamo con noi un’arma potentissima: l’intelligenza. A noi il futuro!
Sei giorni dopo cadeva fulminato.
(1) Traggo le notizie, che qui seguono da una lettera inviata il 31 gennaio 1919 alla famiglia Bollettino dal S. Ten. G. Cerioio, riproducendola anzi in più punti testualmente.
Per la morte di un altro eroe giovinetto, il Capo del Governo, in una pagina remota ma indimenticabile, (1) rilevava che per i giovanissimi la guerra deve essere religione e poesia insieme. “ C’ è, in verità, qualche cosa di religioso, di poetico, di profondo nel sacrificio di questi giovani. Deve cantare nella loro anima la voce della Patria, con accenti e ritmi che ci sono ignoti. Un uomo che cada a trent’anni dà alla Patria un “ di meno ,,, perché ha già vissuto; un fanciullo, invece, che deve ancora vivere, che si è appena affacciato alla vita, che non ha “preso ,, ancora niente della vita, dà tutto: il suo presente ed il suo futuro; ciò che è, ciò che avrebbe potuto divenire
E, bene, questo rilievo è particolarmente vero per il nostro Prosperino. Perché per questo fanciullo l’avvenire non era qualcosa di vago e indeterminato od addirittura impensato ed ignoto. Questo fanciullo, dell’avvenire suo e della famiglia aveva una consapevolezza piena, e la vita gli si presentava tutta promesse e ricca di conquiste, e il futuro era chiuso nella sua giovane mano come il destino in quella di Dio possente.
Sacrificio intero, dunque, offerta completa, ma avveramento pieno al tempo stesso della previsione maschia. Perché nell’atto stesso che il suo avvenire crollava, il tempo si impossessava della sua figura e della sua morte e le eternava. Il dono del proprio futuro alla Patria è la conquista di un futuro senza limiti, dell’immortalità. Ed anche in questo senso è vera la sentenza: “ il sacrificio perfetto è sempre una vittoria futura

Menico Menonno - Studente di farmacia; sottotenente degli Arditi, decorato della medaglia di bronzo, con la seguente motivazione: “ Al Comando di un plotone d’assalto, in due successivi combattimenti affronto il nemico più forte di numero, e benché questo si difendesse disperatamente ne spezzava la resistenza facendo numerosi prigionieri. Scoperta una mitragliatrice avversaria, che, portata a breve distanza, produceva col suo tiro perdite gravi fra le nostre truppe, l'affrontò risolutamente con pochi Uomini e, mentre stava per catturarla, cadde ferito a morte. Monte Asolone, 29 ottobre 1918.
La chiusura del ciclo eroico coincide con la fine della guerra. Nell’ultima ora di questa, il 29 ottobre 1918, sul Monte consacrato della Patria, alla Vittoria veniva offerto il sacrifizio del sangue più puro ed immacolato, quello del più giovaue fra i soldati, del fanciullo fra i fanciulli, di Menico Menonna. La nostra guerra meritava che l'ultima vittima fosse un giovane appena diciottenne.
Voi lo ricordate tutti il piccolo Menico,, bruno, magro, snello, piuttosto taciturno ed appartato, e come intento al culto di una segreta fiamma interiore.
Natura gli aveva dato saldezza di fibra. Dalla madre, nobilissima, bianco volto di Madonna umbra, Egli aveva ereditato la distinzione della figura ed una mitezza ed una dolcezza ineffabili; dal padre, anima diritta e lavoratore indefesso, gli erano derivate la tenacia e la resistenza al sacrificio ed al dolore; del fratello, il santo della casa, consunto a trent’anni da una febbre d’ascetismo, aveva il fervore religioso, e delle pie sorelle l'umiltà, la purezza, il candore. In Lui si raccoglievano e si fondevano in una unità mirabile le virtù e le doti di tutti i suoi famigliari. Non di rado avviene che le famiglie si affermino, per così dire, e si potenzino in uno solo dei propri componenti, il quale per ciò ne diventa come il segno esteriore più completo ed al tempo stesso la più felice espressione, 1’orgoglio più alto e la suprema speranza.
Tale era per la famiglia Menonna il piccolo Menico.
La guerra lo sorprese a diciassette anni ed il destino volle, che questo fanciullo dall’anima tremula per ogni estrema delicatezza, tutto mistica bontà, fosse assegnato all’arma balzata nell’ultimo anno della lotta dalla disperazione della Patria: agli arditi, l’arma del corpo a corpo, del pugnale e delle bombe a mano, dei colpi di mano violenti, dei fulminei attacchi, della strage spietata.
Egli si acconciò subito al compito impensato, ma ne prescelse e ne fece propria la parte meno truce ed idealmente più bella, quella di balzare ogni volta per primo all’assalto, in testa alle sue truppe, a cogliere le primizie della battaglia.
E primo balzò all’attacco nel giorno fatale, come testimonia il suo Maggiore in una lettera vibrante di patriottismo e di ammirazione, “affrontando e travolgendo con i suoi mirabili arditi il nemico numericamente più forte ,,.
Ma quel giorno Menico aveva un balzo più felino, una passione più accesa, un fervore più travolgente, un anelito più spesso ed il volto come trasfigurato e raggiante. Era giunta la notizia che la manovra del nostro Comando Supremo era riuscita, che le armate nemiche del piano erano in ritirata precipitosa, che quelle del monte erano anch’esse in ripiegamento e che l'ultimo baluardo austriaco era costituito dalle posizioni sul Monte Grappa. Una volta queste espugnate, la battaglia era vinta e la guerra finita.
Occorreva dunque uno sforzo supremo, un attacco irresistibile, un balzo senza ritorno. Avanzare e vincere ad ogni costo. Tale era il comando. E questo fanciullo lo brandì come una bandiera, e, raccolto tutto il respiro, lo lanciò come grido di guerra ai suoi compagni.
Avanti! Avanti! Avanti! A noi! È la vittoria! E la vittoria di tutte le battaglie, la conquista di tutte le trincee, la vittoria di tutta la guerra! A noi! Avanti! Avanti!
Nell’empito del grido e nell’oblio dello slancio, nella certezza della conquista e nella pienezza della gioia, l’eroe fanciullo non si avvide che ad un certo momento un grande varco sanguinoso gli si era aperto nel petto e continuò nella corsa e nel grido. Ad un certo punto cadde; ma gli parve d’essere Incespicato, e quando tentò invano di rialzarsi, gli sembrò di essere impedito solo momentaneamente, e, pur costretto al suolo, continuò nel grido e nell’incitamento, sempre, fino al cessare della mischia. Ed allora gli parve che lo sforzo sovrumano lo costringesse a adagiarsi più distesamente sul terreno ormai non più conteso, e reclinò su di un fianco, come preso da un sonno profondo.
Intanto, in lontananza guizzavano le ultime luci della battaglia, e ad intervalli sempre più lunghi tuonavano gli ultimi colpi di cannone.
I suoi arditi, tornati a Lui, lo trovarono immobile, con gli occhi ancora aperti e luminosi.
Il suo corpo avvolto nel tricolore, fu portato (è lo stesso Comandante che narra) al piano, e, con gli onori militari, tumulato nel cimitero civile di Bassano ,,.
Ebbene, o amici, o fratelli, lasciate che in questo giovinetto, caduto al limitare della Vittoria, in istato di beatitudine, e trasportato dai suoi soldati alla pace della tomba avvolto nella bandiera della Patria, fra le ultime luci della battaglia e l’eco recente del cannone, io ravvisi il simbolo perfetto della giovinezza eroica d’ Italia.

Perché ,,? “ Perché ,,?
Quattro nomi, e quattro forme dello stesso sacrificio e le quattro fasi caratteristiche della nostra guerra.
E gli altri morti? Gli altri nostri 54 morti?
Erano di tutte le età e di tutte le condizioni; tornati a raccolta dai lidi più lontani; disseminati per tutto il fronte, dall’inferno di tutte, le trincee all’algore di tutte le vette; presenti a tutti i combattimenti, predestinati a tutte le immolazioni. La loro rassegna e quella delle loro gesta sono al tempo stesso la storia della nostra guerra.
Nella loro schiera quadrata marciano in testa gli eroi fànciulli: Mito Trivigno, Lorenzo Sammauro, Michele Molfese. E loro alfiere Francesco Giura, diciottenne, il figlio della stirpe più forte e più provata, uno dei tre figli della madre eroica. E nella stessa legione sono, meno giovani, ma particolarmente segnati dal destino, i compagni dello stesso sangue e dello stesso ceppo: gli altri due Giura, i due Allegretti, i due De Feis, i due Fusillo, i due Mona, i due Angerame.
Segue la legione, più numerosa, degli anziani della trincea e dell’esistenza, dai più giovani: Giovanni Padula, Rocco Rugino, Giuseppe Elefante, Michele Lenge, Vito Carbone, Vito Gentile, Vito Tammone, Rocco Canzoniere, Luciano De luliis, Vito Giorgio, Giuseppe D’Anzi, Antonio Valenzano, Vito Sammauro, Giuseppe Giura, Giovanni Giorgio, Spinelli Giuseppe. Segue la legione dei soldati della riserva: Vito Bollettino, Giovanni Adamo, Vito Lorenzo, e più gravati di anni e di dolore, Salvatore di Perna e Michele Lorenzo, trentottenni.
Procede da ultimo la lunga teoria dei soldati del sacrificio fuori del tempo e oltre ogni forma, dei soldati dispersi: Giovanni Adamo, Salvatore Falotico, Salvatore Giura, Giovanni Giura, Canio De Grazia, Giuseppe Garrammone, Rocco Perrone, Domenico De Cataldo, Giovanni Coppola, Vito De Grazia, Rocco Guarino fu Michele, Rocco Guarino di Canio, Rocco Guarino fu Innocenzo, Antonio.. Bollettino di Vito, Giovanni Cioffredi, Gennaro Dragonetti, Rocco Civita, Michele Pignataro.
(*) Non pochi degli emigrati di Albano tornarono dalle Americhe, al richiamo delle classi rispettive. Fra questi da annoverare Luciano De Iuliis morto in seguito a ferita riportata in combattimento.
Cinquantaquattro morti! Come farli rivivere, almeno in qualche tratto della loro personalità, in questo momento di devota rimembranza?
Voi mi siete testimoni che, nell’accingermi alla rievocazione di questi nostri fratelli, io tentai di raccogliere, attraverso una religiosa peregrinazione, da ogni parte, gli elementi per una ricostruzione della loro vita e delle loro gesta. Ed, invano rovistati gli archivi pubblici, la mia ansia si diresse agli amici ed ai famigliari degli Estinti. Ed anche qui, rimasta insoddisfatta la mia sete, io mi rivolsi ai pargoli, alle spose, alle madri, agli uni per cercare di scoprire nel volto qualche lineamento recante come l'impronta indelebile della figura del padre che non conobbero, alle altre per avere qualche cenno sulla interiorità più profonda del caro che lasciò deserti il letto e la mensa, alle altre ancora, custodi fedeli e vestali purissime di tutte le rimembranze, per evocare alcuna di queste o almeno sentirmi ripetere alcune delle parole più dolci ed armoniose, di quelle che sanno dell’estasi della culla o della disperazione della bara, di quelle che solo le madri sanno e possono dire.
La mia ansia e la mia sete rimasero insoddisfatte. I pargoli mi risposero con il silenzio dei loro occhi profondi e inconsapevoli, ma già velati di dolore; e, delle spose, delle madri non seppi altro, altro non vidi che un immenso sospiro, e 1’adombrarsi , delle pupille nella luce del pianto, e dalla gola stretta e dalla lingua attanagliata venir fuori un disperato. interrogativo: Perché? perché?
Interrogativo terribile, quando promana dall’anima piagata di una madre. Dolce interrogativo però, nella cui risposta è la misura più adeguata del sacrificio dei nostri morti e la sua più elevata esaltazione.
Perché della morte sul campo è generalmente viatico sublime il culto di un’idea, del trionfo della quale i1 sacrificio è condizione. E nella disposizione al sacrificio, ogni seguace porta il particolare fermento della propria anima: 1’accensione dello spirito in una sete di gloria ed in un bisogno di eterriamento; il fervore proprio degli adolescenti e dei neofiti,, per cui l'idea è sogno e passione; la rassegnazione dei martiri nella pacata visione della necessità.
Ora nessuna guerra fu mai santificata da tanti ideali nazionali ed universali, come la nostra. La nostra guerra mirava al tempo stesso alla liberazione dei fratelli oppressi dallo straniero, alla reintegrazione dello Stato nei suoi naturali confini, alla difesa dei popoli deboli, alla tutela della civiltà latina e del patrimonio più sacro dell’umanità, la libertà e la giustizia.
Ma questi nostri contadini analfabeti, delle terre irredente non sapevano nulla; i confini terrestri dello Stato avevano per essi la lontananza dell’ ignoto e della Patria essi avevano soltanto la vaga sensazione loro derivante dall’attaccamento a questa Terra, di cui tenacemente irroravano con immenso sudore gli aridi solchi, o verso cui, dagli estremi lembi del mondo, ogni sera, cessato il rude lavoro, tornava sui flutti dell’Oceano la loro anima nostalgica. E dal loro cuore semplice e primitivo era lontano ogni allettamento di gloria e d’immortalità.
E pure, al momento dell’appello, risposero senza esitazione ed in quello del cimento dettero la vita.
Perché? perché? Terribile e dolce interrogativo, che celi nel tuo seno la luce più splendente del filone più profondo della nostra Terra!.
Perché in questa terra il dovere è religione che si pratica con fede cieca, senza discutere né approfondire; perché lo spirito di sacrificio è tradizione di razza, nata dalla infecondità delle petraie e dalla inclemenza del cielo; perché la rinunzia è l'aria dei nostri polmoni é l'alimento dell’anima nostra.
Occorreva morire ed i nostri soldati morirono, senza sapere e senza chiedere perché; senza prospettiva di gloria e d’immortalità, con gesti di eroismo da eternare, ma che nessuno potrà raccogliere giammai, compiuti in umiltà, nell’oscurità e nel silenzio.
Forma di sacrificio la più alta, vetta del martirio la più eccelsa, e gloria la più pura.
Chi disse che v’è una gloria dell’alto e una gloria del profondo; che v’è una morte bella ed una morte più bella? La bellissima morte è quella che si consegue con il sacrificio integrale, con il sacrificio pel sacrificio, tutta offerte e dono, senza alcun compenso: pura consacrazione all'ignoto, nuda devozione alla morte ,,.
E’ questa la incomparabile gloria del profondo. E’ la gloria che aleggia sull’Altare della Patria intorno al Milite senza nome e senza figura, senza grado e senza segno d’arma, designato fra undici bare dal pianto di una madre; è la gloria che aleggia intorno a questo monumento, intorno ai nostri Caduti.

“Madre, madre, il figlio tuo è ritornato,,
(1) Nel pellegrinaggio d’amore il mio passo fu irresistibilmente sospinto verso la madre delle madri, l’addolorata sovra ogni altra, la predestinata dalla sorte.
Io sapevo che anch’Ella s’era dipartita e che il suo posto era stato occupato da altra madre in lutto. Ma volli andare tuttavia alla sua casa, per rinnovare le trafitture che sempre mi procurava il vederla, vivente statua del dolore, nei pomeriggi estivi, accoccolata sui gradini della porta d’ingresso, immobile come la pietra, con l’anima tutta tesa dietro un pensiero fisso e tormentoso, con il volto consunto e pallido, luce bianca senza calore, spiccata sul nero del grande fazzoletto a croce che le fasciava il petto.
Povera Modesta! Da quando cominciò la guerra, ogni anno, l'autunno triste le recava l’annunzio della perdita di un figlio. Nel 1916, cadeva il frutto del suo primo amore, Giuseppe, e 1’anno dopo, sul Monte Grappa, con i gracili giovinetti accorsi a far diga dei propri petti alla rotta rovinosa, Francesco, il frutto dell’amore ultimo. Il terzo autunno sopravvenne e tutti i figli non falciati dalla battaglia tornarono alle madri. Ma 1 ultimo superstite della stirpe eroica non ricomparve.
E pure, nessuno di quei fogli gialli, a Lei terribilmente noti, con le quattro parole lapidarie: “ Caduto sul campo dell’onore ,,, Le era arrivato. Solo, dopo tanto tempo, venne la notizia che lo si riteneva disperso. Oh, nuova terribile piaga aperta nel cuore trafitto! oh, nuovo e più angoscioso tormento! Alternativa incessante di speranze, che si aggrappano ad ogni più esile filo, e di abbattimenti pieni di abbandono; di sgomenti per le immaginate morti, le più tragiche e paurose, e di ricostruzioni fantastiche degli eventi più strani; balzi nel sonno delle notti e spasimo intollerabile delle veglie; lama sottile che fruga senza posa ed incide senza pietà nell’anima sanguinante; “plusquam gladium, re vera pertransiens animam et perlingens usque ad divisionem animae et spiritus,,, come dice 5. Bernardo dell’Addolorata trafitta dalle parole: “Mulier, ecce filius tuus.


(1) Modesta Giura, contadina.
Più desolata e derelitta della stessa Vergine questa nostra madre, perché quella poté stare presso la croce e versarvi tutte le sue lacrime, mentre questa vide strapparsi i figli da una tempesta lontana, e di uno di essi, nonostante tutte le preghiere e tutti i tormenti, la sorte le rimase imperscrutabile fino all’ ultimo respiro.
O miei amici di Albano, esaltiamo i nostri Caduti; esaltiamoli in nome della Vittoria, che è la loro conquista sanguinosa e la loro eredità più cara; ma inginocchiamoci in adorazione dinanzi a questa madre santificata dal dolore. Essa è il maggior simbolo della stirpe, è il simbolo di tutte le nostre madri, di tutte le madri d’Italia. Se essa non cadde sul campo, mori per quasi due lustri ogni giorno, ogni ora, ogni attimo, ripetutamente. Se il suo nome non e inciso su questa pietra, il suo spirito è al vertice di questo monumento.
Oh! dinanzi al suo volto bianco, dalle ciglie asciutte e dalle aride labbra, e al suo petto crociato di nero, potrebbero ben sfilare in parata tutti i reggimenti ed inchinarsi tutte le bandiere della Patria, al suo nome potrebbero inneggiare tutte le fanfare e tutte le squille d’Italia!
Ed invece, a questa madre addolorata, io voglio dire la sola parola di dolcezza sicura, annunziare la sola novella capace di stendere le linee del suo volto irrigidito e dare alle sue pupille il divino balsamo del pianto: “ Madre, Madre, il figlio tuo è ritornato, sono tornati gli altri due figli, sono tornati tutti i figli di tutte le madri. Ciò che non poterono le tue preghiere, ha potuto il miracolo del nostro amore. Essi sono qui con noi, e saran sempre con noi. E noi passeremo ed essi rimarranno; aristocrazia ed orgoglio della nostra terra, esempio ai nostri figli, monito ai presenti ed ai venturi, che il sacrificio è davvero, come disse il vate, “la più alta delle vocazioni ed elevazioni in terra

Primato di sangue.
Eccellenza, e Voi altre Autorità della Provincia e dei Comuni vicini, convenute a rendere più vasto questo nostro rito famigliare!
I morti di Albano per la santa causa sono 58 e fra essi tredici appartengono a sei sole famiglie. Il loro numero porta il contributo di sangue di questo paese di 2000 abitanti ad un primato glorioso: il più alto, secondo i dati statistici potuti consultare, in tre circondari della Provincia, superato soltanto da quello di un altro piccolo paese, che voglio nominare: Castronuovo S. Andrea.
In questo rilievo, che commuoverà certamente l’animo vostro e che, sono sicuro, colpirebbe anche quello sensibilissimo di chi regge il timone dello Stato in questa fervida ora, nessun sentimento di orgoglio o di altra natura.
Non di orgoglio, perché questo sentimento, più che dalla misura del sacrificio, trae la sua ragione di vita dalla coscienza del dovere compiuto ed il limite della sua intensità dal fervore della passione.
Ora tutti i paesi di Basilicata possono e devono avere uno stesso grandissimo orgoglio, perché tutti risposero all’appello con una disciplina ed una fede soltanto superati dalla umiltà e dal silenzio.
Non sentimento di altra natura; sopratutto non il desiderio che al peso di tanto sangue fosse per corrispondere una qualsiasi controprestazione.
Il sangue non si baratta.
E se un’altissima voce, in un discorso non remoto e memorando, disse che nell’intendimento del Governo di rivalutare le città e le regioni d’Italia, il criterio fondamentale che sarebbe stato seguito era quello che chi più avesse dato alla guerra maggior diritto avesse di ottenere nella pace ,,; tuttavia questo paese, come tutta la nostra regione, non intende rivendicare ed avvalersi di tale diritto. Fu ben detto che per antica non mai interrotta tradizione, la nostra Provincia tutto dono fece.
No. No. Questo popolo di Albano, oggi numera i suoi morti per un invincibile moto della sua anima: perché, quanti conoscemmo ed avemmo consuetudine di vita con gli scomparsi potessimo rivivere un’ora di comunione spirituale con essi, e perché, ai nostri pargoli che non li conobbero, la mesta rievocazione dei loro nomi dica quanta passione e quanto sacrificio costi l'amore della Patria.
Ben più. Questo popolo, a ritemprare questa fede e la propria devozione, vuole oggi praticare la comunione eucaristica con il sangue dei suoi figli migliori. Ed esso, che conosce le vie di tutte le peregrinazioni, si reca, attraverso i monti e le valli d’Italia, ai cimiteri lontani ed a tutti i luoghi non segnati da una croce; e dinanzi ad ogni tomba si prosterna.
Gli avelli si scoprono, ed i corpi dei Caduti riappaiono intatti, e le ferite nuovamente si infiammano e riversano il loro sangue: e le madri lo raccolgono nelle coppe sante delle loro mani, e lo sollevano e lo appressano alle labbra tremanti dei vecchi e dei fanciulli, degli uomini adulti e delle spose caste.
L’orizzonte è infiammato di sole ed un inno solenne, eroico lo pervade e lo commuove: quello dei compagni risuscitati di tutta la Patria e la invocazione suprema ; Italia! Italia! Italia

FRANCESCO GALGANO

 

 

da "la Basilicata nel Mondo" (1924 -1927)


 

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