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ARMENTO - La
Corona Votiva Aurea
Un
capitolo di oreficeria lucana del IV sec. a. C., ed i suoi problemi
Fino da tempi remoti, volendo onorare un loro simile - da vivo o da
defunto - gli uomini avevano trovato che uno dei tanti modi di
esprimere particolari sentimenti di amore era quello di offrire
corone di fronde d’alberi o di fiori da porre sul capo. In
determinate ricorrenze religiose o festive intere popolazioni si
incoronavano per partecipare più intimamente alle celebrazioni, come
a Roma, quando nella ricorrenza delle “Paliliae” - l’anniversario
della Fondazione dell’Urbe - i “Fasti Capitolini” ricordano
espressamente questo particolare. Quell’intimo contatto con la
natura delle grandi civiltà fiorite intorno al Mare Mediterraneo,
che traspare da tante loro istituzioni religiosi e civili e
conferiva a tutta la loro vita un carattere particolare, doveva
assai per tempo portarli ad una precisa differenziazione nell’arte e
nell’uso delle corone2
1 C. I.
L., Inscriptiones latinae antiquissimae, ed. altera, pars prior,
Berlin 1893: p. 210, Fasti Esuilini: PAR N CONOR. OMN.; Fasti
Caeretani: PAR NP FER. COROÌATIS OM
2 Greci e Romani abbondavano nelle corone d’ogni varietà,
ricorrendo ai più svariati generi di essenze vegetali, dalla quercia
e dall’alloro fino al sedano, sempre con precisi significati. Non è
stato chiarito, fino al presente, se talune corone di lamina d’oro,
oppure di rame dorato, trovate in capo a scheletri nell’apertura di
numerose tombe, in particolare quelle con fronde di quercia e di
alloro, debbansi considerare onoranze “post mortem”. Così come non è
chiaro il preciso significato di altre corone vegetali riproducenti
rametti di mirto o di olivo. HIGGINS, p. 120/121, tav. 23; MARSHALL
p. XXXI F. DAREMBERG & SAGLIO, p. 1, 2, 1887, p. 1520 - 1537, in
particolare p. 1522/1523, fig. 1976, a proposito della i “Corona da
Armento”, aggiungendo “… une statuette d’or, où l’on vojait les
images de Jupiter, Junon, de Minerve”. La corona lucana anche in
E. Bosc, Dictionnaìre de l’art, de la curiositè du bibelot,
Paris 1883, alla voce “Couronne”, ill. a. 227.
A. BAUMEISTER,
Denkmaler des klassischen Altertums, Vol. II, Munchen -
Leipzig 1887, p. 795, fig. a p. 794.
I popoli
delle antiche civiltà — e come essi anche quelli della civiltà
cristiana medioevale — avevano coscienza precisa dei sottilissimi e
misteriosi legami che uniscono l’uomo in ogni momento della sua
travagliata esistenza al mondo che lo circonda, che intorno a lui
vibra
di una molteplicità di manifestazioni di vita misteriosamente
intrecciata. Una coscienza che l’umanità di oggi ha perduto
completamente — ritrovandosi più povera e solitaria ed intristita —
una coscienza che rivive, ma soltanto per brevi attimi, nei
fanciulli, in qualche artista in momenti di particolare stato di
grazia e, non ultimo, in qualche Santo. Nelle civiltà più evolute,
poi, questi legami dell’uomo con la natura entro la quale viveva,
sempre più si differenziavano e si approfondivano di significati,
quando il mondo politeistico veniva posto in relazioni cosmiche —
nel mondo degli astri — e naturalistiche — nei tre regni del creato:
pietre, piante, animali.
A Zeus —
Jupiter si addiceva la quercia, a Phoibos Apollo l’alloro, ad Athena
Pallas l’ulivo, a Poseidon — Neptunus il pino, ad Aphrodite — Venus
il mirto e le rose, a Dionysos — Bacchus i pampini ed anche l’edera;
e sono soltanto pochi esempi ai quali vorrei solo aggiungere ancora,
concludendo l’esemplificazione, le spighe di grano sacro a Demeter —
Ceres.
Quando poi, a
conclusione della vita, si apprestavano
i funerali, in un estremo gesto
d’amore sul capo della salma venne poggiata ancora una corona di
fronde o fiori. In condizioni ambientali particolarmente favorevoli,
come in Egitto, i professionisti della violazione delle tombe, gli
archeologhi, molte volte hanno lasciato, nei loro scritti,
testimonianza della loro intima commozione, quando su i grandiosi
sarcofaghi dei Faraoni potevano, talvolta, trovare ancora gli avanzi
di una coroncina di fiori ormai anneriti3.
3 Così per esempio
sul sarcofago del Faraone Tuth-Anch-Amon si poterono osservare gli
avanzi di un serto di fiori. L’uso di formare corone di fiori sembra
perdersi nelle oscure origini delle civiltà umane. Indubbiamente non
erano ispirate alla mera funzione di ornato, ma vi dovevano essere
indubbiamente presenti anche determinate credenze:
rapporto tra le divinità
e le piante loro sacre: rapporto tra l’uomo e le piante, specie con
quelle ritenute medicamentose o dotate di recondite “virtutes”. Fino
ad arrivare a funzioni più direttamente dietetiche, quando i romani
si incoronavano di petali di rose durante i banchetti, credendo che
le rose potessero evitare le conseguenze dell’ebbrezza.
Con
l’affinamento delle capacità delle tecnologie artistiche doveva
nascere anche il desiderio di realizzare corone che non durassero
soltanto, nella loro fragile fragranza, “l’espace d’un matin”.
Orefici e gioiellieri si apprestavano a foggiare corone in oro,
argento, rame dorato, riproducendo or’ più or’ meno fedelmente
quanto il mondo vegetale poteva offrire di materia all’ispirazione
artistica. E’ stato il vanto di orefici e gioiellieri dell’Ellade,
della Magna Graecia, degli Etruschi e dei Romani l’aver’ foggiato un
grande numero di simili gioielli che ancora oggi non soltanto
costituiscono un godimento estetico particolare, ma, oltre questo e
più ancora, anche motivo di tanti ripensamenti4.
La corona
vegetale diventata gioiello, sul capo di un vivo ben presto doveva
assumere significati più complessi di un prestigio personale, anche
di fronte alla collettività — fino a diventare segno visibile e
tangibile di un supremo potere, come con l’affermazione
dell’”Imperium”. Basti ricordare il celebre discorso di Demosthenes
ai suoi concittadini, che avevano deliberato di conferirgli una
“stephànos”.
Ma il
duraturo gioiello foggiato su i modelli di rami frondosi
e fiori molto spesso era destinato anche a qualche
caro defunto,
come attestano, soprattutto qui in Italia, numerosi rinvenimenti.
All’oro, al rame dorato, talvolta si accompagnano grani di corallo,
perle, qualche gemma, perfino qualche smalto. V’érano artefici che
eseguivano le foglie di alloro o di quercia su stampi, nella
caratteristica tecnica del “lavoro a foglia”, mentre altri le
ritagliavano dalla lamina a mano libera, e con fini punteruoli vi
tracciavano le venature e le pieghe. Talvolta in mezzo alle fronde
si muovono Amorini.
In pochi
casi sono state trovate corone pregevolissime poggiate in modo tutto
eccezionale entro il sepolcro, certamente perché la loro particolare
e complessa struttura non acconsentiva di metterla in testa al
defunto — come lo si può dedurre dalla documentazione pervenutaci,
fortunatamente, proprio a proposito della corona votiva aurea,
rinvenuta quasi 160 anni or’ sono nel territorio di Armento. Dopo
vicissitudini, esattamente documentate, essa ha trovato una
degnissima sistemazione nelle Antikensammlungen di Monaco,
in Baviera, dove costituisce il cimelio più prestigioso della già
stupenda collezione di oreficerie elleniche ed etrusche.
4 Si vedano passim
MARSHALL, SEGALL, Becatti.
La “Corona da Armento”
— come la si trova abitualmente
denominata dai numerosissimi autori stranieri che l’hanno studiata —
gli autori italiani sono quasi assenti — costituisce, sotto molti
aspetti, un assoluto “unicum”. Assai complesse le tecniche e la sua
strutturazione — inspiegabili, o quasi, taluni contrasti nella forma
e nella tecnica tra la figura di Dea alata e coronata e gli Amorini
e genietti Femminili, come sorprendono i contrasti stilistici tra
elementi vegetali stilizzati ed altri, per giunta in maggioranza
assoluta, naturalistici, anzi veristici nel modo più completo, al
punto da permettere, senza difficoltà alcuna, l’identificazione con
le varietà botaniche più comuni della vegetazione “a macchia” lungo
le coste e nei terreni semi-aridi.
I genietti
femminili sono da identificare con vere e proprie Nikai? Oltre il
chitone indossano scarponi.
E v’è di
più ancora: questa corona non ha nulla della composizione compassate
delle corone funerarie elleniche, italiote, etrusche e romane.
Tutt’alcontrario v’è in essa un gioioso senso di vita, un erompere
dall’animo dell’artista di un gioia, infantile quasi, con la quale
durante una passeggiata ha voluto cogliere rami fioriti e fronzuti
per tradurli in oro, in tutta la sempre cangiante variabilità
delle forme vegetali. Il primo studioso tedesco che volle affrontare
alcuni problemi tecnologici della “Corona da Armento”, Marc
Rosenberg, ha saputo dare, per primo, la più calzante definizione
del carattere di questo singolare capolavoro dell’arte orafa italica
o, più precisamente, lucana: “… eine ùberful le von Blàttern und
Bluten, wild wie ein Feldstrausz...:
é
una strabocchevole abbondanza di fronde e fiori selvatici, come un
mazzo campestre”5. Analizzerò, più avanti, le essenze
vegetali che hanno impegnato l’artista nella non lieve fatica di
riprodurle.
Ma non
soltanto un fresco e variopinto mazzo si portò a casa quel maestro
innamorato di fiori e piante — al ritorno lo seguiva qualche ape,
oppure si posò sul mazzo già collocato nello studio: perché, si sarà
chiesto l’artefice di questa meraviglia, anche riprodotte in oro
queste api non dovevano seguitare a ronzare tra tutti questi fiori?
E quanto avrà faticato quest’uomo per staccare qualche ramoscello di
quel robustissimo rampicante, al quale il popolo, sempre creatore di
felicissime immagini, ha affibbiato il meritato “nome di
Strappa-brache”? Anche quel caratteristico groviglio è stato
attentamente riprodotto…
5 Rossemberg, passim.
Per
fortuna buona, delle circostanze del rinvenimento di
così eccezionale gioiello si possiede una ben precisa documentazione
a suo tempo adeguatamente pubblicata e riprodotta anche
nell’apparato bibliografico e di note critiche che conclude questo
saggio6. Da questi documenti si rileva che fin’ dai primi
giorni del mese di Luglio del 1814 il “Capolegione” o “Colonnello”
Sponsa, con l’opera di quattro escavatori ingaggiati ad Anzi, aveva
iniziato una campagna di scavi in una località chiamata e “Serra
d’Oro” a tre miglia all’incirca, da Armento. Oggi la stessa zona
viene indicata come “Serra Lustrante”: i due toponimi indicano, fin
troppo chiaramente, che anche in decenni precedenti qui debbono
essere tornate in luce cose preziose, disperse, fuse, svanite nel
nulla. Lascio la parola al funzionario Giuseppe di Stefano che ne
riferì ai suoi superiori a Napoli con un dispaccio in data 8 Agosto
1814:
” .... Il
Sig. Colonello Sponsa continuando lo scavo in detto luogo rinvenne
un altro sepolcro più ricco di quel primo che
vi descrissi, e fu alli due corrente agosto; in d. o sepolcro trovò
una statuetta di bronzo, un candelabro di bronzo, molti vasi
d’argento al peso di dieci rotoli, tre vasi grandi di primo ordine
con moltissime figure e tutte di disegno; trovò in fine una corona o
sia una ghirlanda d’oro al peso di un rotolo e due once; in detta
ghirlanda vi sono pampini, uve e sei Geni alati di uno straordinario
disegno. Testimoni oculari sono il Signor Asselta Sindaco di
Laurenzana, il Signor Franchini Giudice di Pace di Laurenzana, il
Signor Cataldi Comandante civico di Corleto ed altri. Questo luogo è
lontano da Armento tre miglia e si chiama la Serra d’Oro, ed il
fatto corrisponde al nome ...7.
6 DOCUMENTI N. 1.
7 DOCUMENTI N. 2.
Altri
particolari del rinvenimento vennero registrati in seguito e
meritano di essere a loro volta valutati, anche se, come spesso
accade nella raccolta di sempre più numerosi elementi, questi
concorrono non poco a rendere sempre più complicati i già molteplici
problemi.
All’apertura
della “Terza Tomba” scoperta dallo Sponsa — e qui non si comprende
bene se si trattasse di una tomba a piccola camera oppure di un
grosso rudimentale sarcofago — si trovarono gli avanzi calcinati di
ossa, sicuro indizio di una regolare cremazione. Sopra questi miseri
resti era collocata una graticola di ferro e su questa apparve
appoggiata la corona. Un gruppo di vasi d’argento che vi erano
collocati intorno, a contatto con l’aria in breve tempo si
sgretolavano in polvere. Di altre due tombe, aperte dallo Sponsa in
precedenza, soltanto la “Seconda Tomba” presentava un ricco corredo
di oggetti d’oro, mentre la prima conteneva, tra altri oggetti di
minore conto, una statuetta di bronzo raffigurante un Satiro
inginocchiato.
Purtroppo tanto lo Sponsa,
quanto poco prima di lui altri scavatori, come riferisce il
Funzionario Giuseppe de Stefano all’intendente di Basilicata “hanno
rinvenuto delle belle cose e …
l’hanno portate a Napoli a
venderle…”. Uno dei tanti episodi a testimonianza di quel massiccio
esodo di oggetti d’arte ellenica ed italiota, i quali dal mercato
d’arte napoletano andavano ad arricchire le grandi collezioni
pubbliche estere e private che, a loro volta, trovarono assai più
conveniente rivolgersi ad agenti stranieri oppure direttamente ai
grandi collezionisti stranieri. L’attività di Lord Hamilton a Napoli
è fin troppo nota anche sotto questo particolare aspetto.
Si aggiunga
che in quel momento a Napoli regnava Gioacchino Murat, marito della
bella Carolina Bonaparte, sorella di Napoleone I. Al contrario del
consorte che preferiva le arti della guerra, Carolina si
appassionava per gli oggetti di scavo e, appena comparve sul mercato
antiquario la “Corona da Armento”, la acquistò insieme a numerosi
altri oggetti provenienti dagli scavi di Armento, compreso il
piccolo bronzo, il Satiro.
L’anno
successivo la preziosa corona venne presentata all’Accademia di
Storia e Belle Lettere di Napoli, la quale diede incarico al Cav.
Francesco Maria Avellino di studiare il pezzo e di redigerne una
memoria. Di questa una copia venne consegnata
alla regina Carolina,
mentre la pubblicazione avvenne solo molti anni più tardi, nel 1822,
nelle “Memorie della Reale Accademia Ercolanese di Archeologia”8.
Con la
caduta della monarchia muratiana, la restaurazione dei Borboni, e la
fucilazione di Gioacchino Murat a Pizzo in Calabria, Carolina
dovette lasciare Napoli, portandosi via le sue preziose raccolte
archeologiche. Assumendo il nome di Contessa Lipona cercò rifugio in
Austria. Come avevano accolto, per motivi dinastici prima ancora che
i politici, l’ “Aiglon” con il titolo di un Duca di Reichstadt, così
gli Asburgo offersero asilo anche alla zia del “Roi de Rome”. Questa
si insediò in una villa a Frohsdorf nei pressi di
Wiener-Neustadt, sistemandovi le sue raccolte. Raccolte che
costituivano, a quanto pare, tutta la sua ricchezza, per la quale
ragione gradatamente le disperse.
Nell’anno 1826 re
Luigi I di Baviera acquistò dalla regina Carolina tutto un blocco di
antichità, tra le quali la “Corona di Armento” ed il già ricordato
Satiro in bronzo. Alla morte di questo sovrano, un sincero e
sensibile conoscitore delle antichità classiche — riuscì ad
assicurare alla Glyptothek di Monaco tutte le figure dei due
frontoni del Tempio di Aphaia nell’isola di Egina, restaurate dal
Thorwaldsen a Roma — ed anche un munifico mecenate per gli artisti
del suo tempo, tutta la sua raccolta privata passò nel “Konigliches
Antiquarium”, trasformato successivamente nel “Museum Antiker
Kleinkunst”. Attualmente, questa raccolta si trova sistemata,
definitivamente, nella sede di pretto gusto neoclassico sul
Konigsplatz di Monaco, di faccia alla Glyptothek, ora in
trasformazione per una sistemazione più moderna.
In tutto
l’insieme di fiori, fronde, rami, compresa la figurina di Nike
alata, la “Corona da Armento” misura un’altezza massima di cm. 37
Ca. E’ eseguita interamente in oro quasi puro, con un titolo di fino
pari a 988/1.000; dunque con solo 12/1.000 di impurità, che finora
non sono state specificate, ma che in prevalenza dovrebbe trattarsi
di rame e, forse, tellurio.
L’oro è
stato ridotto in lamine assai sottili, con spessori variabili da
1/20 ad 1/10 di millimetro. I fili d’oro, tutti tirati in filiera,
presentano diametri da 1/4 a 3/4 di millimetri. Tutto l’insieme è
montato “ab antiquo” su di una canna d’oro formante un cerchio del
diametro di 19 centimetri, con un diametro della canna pari a 5
millimetri. Nella parte inferiore del cerchio, corrispondente alla
parte occipitale, una antica saldatura venne trovata rotta al
momento dello scavo e solo in data recente la vecchia rabberciatura
con filo d’oro è stata rimossa e là rottura saldata.
A parte questa rottura riparabile, manca nel serto un
intero mazzetto di fiori ed un Eros e, forse, qualche ape. Nel suo
complesso la conservazione deve essere considerata addirittura
perfetta,
ove si ponga mente al fatto che si tratta di una
costruzione quanto mai esile, per non dire fragile. Lo stesso stato
di conservazione avvalora l’ipotesi che il sepolcro fosse a camera
o, per lo meno, un sarcofago a tenuta quasi stagna.
Sul
cerchio, a quattro coppie per lato, sono saldati otto cannelli di
0.12 - 0.16 cm di altezza. Nella parte alta, la frontale dunque,
altri tre cannelli da 5 cm di lunghezza debbono sostenere i perni
della Dea Regina e di figurine alate maggiori.
In ognuno degli altri cannelli
è infilato un mazzetto di fiori e di fronde, uno dei quali mancante,
forse fin dal momento della scoperta. Sono saldati direttamente sul
cerchio tre grandi rose per ogni lato, come pure i fili a costole
con fronde, viticci e grappoletti di frutti. Dirò subito che ancora
in data recente un insigne archeologo tedesco, commentando la
“Corona da Armento” volle vedere in questi rami l’edera ,ignorando,
forse, che questa non produce viticci ma si arrampica su tronchi e
muri con l’ausilio di radici avventizie e con infiorescenze,
grappoli, poi dl frutti di aspetto ben diverso. Si tratta in realtà
dello “Smilax aspera” detto dal popolo “strappabrache” liana tipica
della macchia, con rami angolosi, foglie lanceolate sempreverdi,
arrampicandosi su altre piante con l’ausilio di lunghi viticci di
spine lungo i rami e sotto le foglie e fiorisce in primavera con
delicato profumo, maturando destate grappoletti di bacche rosse
lucide.
Nei mazzetti ancora
conservati si trovano, saldati successivamente, viticci a spirale,
rametti di quercia con una, due o tre foglie e ghiande; poi piccole
rose a coppie. In cima sporgono due foglie lanceolate che ricordano
fronde di castagno. Tra queste, infine, sporgono fiori di
convolvolo, altri fiori a forma di scodella — da identificarsi forse
con fiori di malva. Nei convolvoli sono riprodotti sei stami, mentre
tutta la corolla è coperta di smalto azzurro intenso. Anche altri
fiori, di libera invenzione, a forma di stella, presentano una
decorazione a smalto.
Le api, che già ho ricordato sono riprodotte a
sbalzo, con notevole fedeltà e proporzionate alla grandezza dei
fiori.
Un capitoletto a se viene costituito dal gruppo delle
figurine. Si tratta di una grande figura femminile alata e coronata,
poggiata su una base recante una iscrizione dedicatoria. Intorno al
collo un semplice filo sottile con un pendaglio in granulazione.
Erano previsti anche orecchini, dei quali sono rimasti soltanto i
fori nel lobo degli orecchi. Dalla base sorgono elementi vegetali
fortemente stilizzati. Due Nikai, assai più piccole, della
i figura centrale, sono seminascoste tra i fiori e le fronde. Lo
stesso dicasi degli Erotes che si alternano con le Nikai. Erano in
origine quattro, ma uno ne manca, forse fin dal momento della
scoperta.
Mentre la statuetta al centro è fusa e
cesellata a tutto tondo le rimanenti figure sono lavorate in lamina,
ma dal solo lato anteriore.
La grande figura indossa un “chitone” che ne modella
le spalle ed il petto, mentre un più pesante “hymation” avvolge il
resto del corpo, cadendo in larghe pieghe dalla spalla sinistra e
dal braccio, secondo un tipo iconografico diffusissimo nella
scultura ellenica. Nella mano destra recava, forse, uno scettro,
mentre con la sinistra tiene una patera. Ai piedi reca calzari
chiusi, dalla tomaia larga con grossa suola, lavorati evidentemente
in cuoio morbido, con suola spessa — chiaramente visibile al piede
destro
— ed a punta tonda. Sulla ricca chioma, accuratamente
acconciata, poggia una corona a punte. Ampie le ali formate da piume
remiganti lunghissime.
Anche se alquanto convenzionale, la modellazione
della figura, nei suoi ricchi panneggi, è svolta con notevole cura.
Ad impreziosire l’opera dell’artista sbalzatore e cesellatore
concorre una decorazione a granulazione, disposta largamente sul
manto; mentre la corona e la basetta cubica sono state eseguite con
filo semplice. L’intenzione dell’artista, usando la granulazione,
era indubbiamente quella di ammorbidire taluni contorni, soprattutto
di smorzare in un più diffuso scintillio i forti riflessi prodotti
dalle grandi pieghe, oltre che rendere la sensazione di un tessuto
assai più pesante.
Non condivido il giudizio del tutto negativo che di
questa decorazione granulata a suo tempo ne volle dare Marc
Rosenberg, secondo il quale questa granulazione sarebbe “ein
misslungener “Versuch, das Ubergewand der bckronenden Figur als
wollig “zu charakterisieren”, cioè “un mancato tentativo di
caratterizzare il soprabito della figura, predominante come lanoso”.
Mentre gli smalti convaliderebbero un naturalismo
intenzionale. Assai più modeste appariscono, al confronto con la
figura
principale, le due Nikai minori, dalle ali ampie e gli abiti
svolazzanti delle quali si potrebbe intravedere, con un po’ di buona
volontà, un lontano ricordo delle vesti agitate tanto della Nilke di
Peionios quanto di quella da somotrake. Anche le vesti di queste
fanciulle alate recano una granulazione, disposta disordinatamente.
Ma calzano, in compenso, scarpette eleganti.
Così sono anche abbastanza convenzionali, nella
modellazione i tre Erotres, riflettenti, però, uno stile
arcaicizzante, specie nella modellazione della testa e della chioma.
Sulla base quasi cubica, che attraverso un lungo
pungolo è inserita in uno dei cilindri saldati sul cerchio, si
decifra, tratteggiata su quattro righe, la leggenda:
cioè: “Critonio ha dedicato la corona”. Le
lettere sono eseguite in filo semplice. L’incorniciatura ed una
fascia ornamentale sono in filo perlinato.
Non sono un epigrafista, né, alla luce dei risultati
strabilianti degli scavi del mio caro amico Prof. Dino Adamasteanu,
proprio nella zona di “Serra Luatrante” presso Armento, avrei potuto
limitarmi a citare vecchie e superate interpretazioni ed i loro
autori. D’accordo con il Prof. Adamesteanu ho potuto interpellare
uno dei maggiori epigrafisti specializzatisi in questi ultimi anni
nello studio delle epigrafi italiche, il Prof. Michele Lejeune
Presidente dell’Institut d’Archeologie Méditerranéenne. Questi, con
squisita cortesia e con sorprendente sollecitudine ha voluto aderire
all’invito di commentare questa breve iscrizione.
In uno stile chiaro e
conciso — oserei dire di “tacitiana concinnitas” — è esposta
l’analisi lettere per lettera, parola per parola — la quale, di
colpo, ha posto in una luce del tutto nuova l’importanza della
“Corona di Armento” — ma più ancora il significato sacro degli
avanzi riportati in luce in località “Serra Lustrante”.
Di comune accordo con l’insigne autore, con il Prof.
Adamesteanu e con il D. Borraro, abbiamo deciso di riprodurre
il testo dell’insigne epigrafista francese nella lingua originale.
Nel rinnovare al Prof. Lejeune i miei personali ringraziamenti,
ritengo di esprimere anche la viva gratitudine di quanti stanno
assistendo — sorpresi ed entusiasti a questa “materializzazione”
sempre più consistente di quella forte gente italica che erano stati
i Lucani.
Non sapremo mai chi è stato questo Kreithonios, a chi
e con quale motivazione aveva voluto fare omaggio dì un così
eccezionale gioiello. Forse ne era stato o doveva essere insignito
il personaggio nella tomba del quale la corona è stata trovata e
tanto più si rimane addolorati dal fatto che nessuna epigrafe sia
stata trovata? Forse, questa avrebbe potuto essere di grande aiuto.
Rimane, tuttavia, un fatto significativo: che al
momento della cremazione della salma sul rogo, la corona venne
tenuta in disparte, ben rendendosi conto i congiunti e gli amici del
morto quale pregio artistico essa rappresentava. Sistemate le ceneri
nell’avello, su queste venne posta una graticola di ferro per
appoggiarvi, con amorevole cura, le fronde ed i fiori, con la Dea
Regina, le Nikai e gli Erotes, perché anche nell’Al-di-là nel loro
splendore potessero allietare l’anima di chi in vita bene aveva
meritato l’onore di una corona.
Due sono i problemi importanti che questo eccezionale
“gioiello” pone in modo particolare: quello della datazione e
l’altro della localizzazione della bottega, entro la quale con tanta
attenzione ed amorevole cura la corona era stata eseguita.
Adolf Furtwangler, partendo dallo stile della figura
centrale e da qualche elemento paleografico dell’iscrizione
dedicatoria volle proporre il V secolo. Altri studiosi tèdeschi, tra
i quali Joseph Sieveking, che per ultimo volle dedicare un breve
saggio monografico — con alcune inesattezze —propendono per il IV
secolo. Marc Rosenberg, del quale già ho ricordato la felicissima
definizione dell’ornato floreale, definendolo argutamente ”un mazzo
di fiori campestri”, infine, pensa piuttosto al III secolo. Egli
considera gli innegabili arcaismi come ritardi evolutivi,
giustificando così quelle che egli volle definire “inibizioni
provinciali” per quanto riguarda il linguaggio formale e di stile
delle figurine. Come riconosce all’artista una ingenua gioia
nell’abbondanza dei particolari naturalistici.
Anche se il Rosenberg non è stato un cultore
dell’archeologia classica, ma piuttosto uno storico delle arti
minori, un appassionato cultore degli studi di storia dell’arte
orafa in base all’evoluzione tecnologica, ritengo che i suoi
giudizi debbano accogliersi con particolare considerazione.
Proprio nella sua qualità di storico dell’oreficeria
del passato, sopratutto di quella medioevale, quello studioso poté
sempre di nuovo constatare quel singolare fenomeno che sono i
ritardi stilistici e formali. Ritardi che talvolta, se raffrontati
con le correnti artistiche sostenute da sovrani laici ed
ecclesiastici nell’architettura e nella scultura, come pure nella
pittura, possono raggiungere anche i 150 anni.
Proprio per questo sono assai significativi i ritardi
stilistici dell’arte orafa medievale nell’Italia Meridionale, in
particolare della scuola di Napoli — la quale, sotto molti aspetti,
si evolve secondo gli schemi della Toscana, prima di Siena e,
successivamente, di Firenze. Quando nella prima metà del
Quattrocento fa la sua comparsa in Toscana lo smalto filigranato,
esso viene applicato sulle coeve forme del primo Rinascimento, come
per esempio nella famosa “Urna di San Bernardino” nella Chiesa
dell’Osservanza a Siena.
La stessa tecnica di smalto filigranato compare a
Napoli quasi nello stesso periodo. Ma mentre qui, con l’avvento
degli Aragonesi Alfonso I spalanca le porte all’architettura e
scultura del Rinascimento chiamando ad operarvi Francesco Laurana
con i suoi collaboratori, gli orefici sono ancora fermi alle forme
del gotico angioino del XIV secolo ed inseriscono questa nuova
tecnica su strutture che con le loro trifore ad arco acuto, i
contrafforti, i pinnacoli, si richiamano all’architettura gotica
venuta dalla Francia. Ne sono precisa testimonianza, tra altri
cimeli superstiti, le ferule vescovili di Tropea, Reggio Calabria ed
Agira.
Purtroppo è andata perduta la parte goticheggiante
della ferula dell’arcivescovo Antonio de Angelis di Potenza, oggi
conservata nella Pierpont Morgan Librarj, presso il Metropolitan
Museum of Art di Nuova York.
In numerose botteghe orafe italiane, anche in quelle
tecnologicamente più avanzate, ancora al presente non si esita un
momento di ripetere, fino alla noia, le forme del barocco romano,
sovraccaricandole di sconsiderate aggiunte, sino a creare —mi si
perdoni il bisticcio — il “barocchismo” — e si batte, così, il
“record” dei ritardi stilistici e formali con ben tre secoli! Questi
ritardi stilistici in un epoca a noi così vicina o addirittura
contemporanea, del resto, non rimangono limitati alla sola Italia.
I ritardi stilistici, nel mondo antico e medievale si
possono spiegare sia con un particolare senso di conservativismo
caratteristico delle botteghe artigiane, sia anche con un improvviso
isolamento dalle grande correnti di pensiero artistico e culturale.
Nelle botteghe questo tradizionalismo si spiega — e può essere
controllato in ogni momento ancora oggi, per esempio a Roma, nelle
botteghe della città vecchia — con la conservazione di modelli, di
forme, di ferri speciali, che dopo un primo particolare uso vengono
accantonati “perché potranno servire ancora”.
L’altro ritardo stilistico, dovuto all’improvvisa
interruzione dell’afflusso di idee e forme più evolute dai maggiori
centri, mi sembra trovare conferma proprio in queste terre del
Meridione. L’antica Magna Graecia, con l’avanzata dei Romani, venne
ad un certo momento assorbita nell’orbita della nuova capitale,
mentre vengono ad allentarsi i legami con l’Ellade, la madre-patria
di tutte queste splendide “poleìs”, le città-stato non solo di
elevata tradizione artistica, ma anche focolai di fecondi correnti
del pensiero speculativo. Tutte coniavano monete, tra le più belle,
che hanno coniato gli antichi — cd è esperienza storica che i
maestri di zecca erano, sempre, artisti di chiara fama, scultori ed
orefici: da Euainctos e Kimon, di Siracusa, ad Eligius di Nojons
alla corte dei Merovingi, fino a Benvenuto Cellini alla corte di
Papa Paolo III ed oltre... .
Purtroppo il più ed il meglio dei gioielli ellenici
tornati in luce nelle soleggiate terre della Magna Graecia è andato
a finire nelle collezioni estere, senza che se ne conoscano le
precise scientifiche circostanze del rinvenimento privandoci, in
tal’ modo, di insostituibili elementi di studio.
Tuttavia ritengo che attraverso un complesso di
considerazioni si possa giungere a qualche approssimativa
localizzazione, oltre che alla datazione così tardiva proposta dal
Rosenberg.
V’è anzitutto questo gusto per il naturalismo da una
parte e dall’altra il singolare compiacimento per il sovraccarico,
quale esso ci appare, nella ceramica, nella produzione italiota
sopra-tutto. Basti pensare al policromismo stranamente forzato dei
vasi di Centuripe, al sovraccarico ornamentale di quelli di Canosa,
per avere già elementi di raffronto se non diretto, almeno tale da
caratterizzare l’atmosfera di un determinato ambiente in un preciso
momento storico.
Momento storico che si deve identificare con
l’ellenismo avanzato, il quale, assorbito da un ambiente italico
particolarmente sensibile, doveva spingere un artista ad affrontare
fiori e fronde nel loro immediato aspetto reale — come nella grande
statuaria gli scultori osavano immobilizzare gli attimi dl gioia, ma
spesso ancora il sofferto dolore umano. Salvo, poi, di inserire, in
opere come questa corona, elementi figurativi alquanto schematizzati
di periodi precedenti.
Questo singolare contrasto tra la vibrante
naturalezza del serto di piante botanicamente precisabili e di
figure eseguite, come quella dominante della Dea Regina, con stile e
tecnica tanto diversi — diversità che risalta ancora di più noi due
Erotes induce a formulare una nuova ipotesi, che contribuirebbe non
poco a spiegare questo estremo contrasto di gusto, di forme e di
stile.
Nella “Corona da
Armento” ci troviamo di fronte all’opera di almeno due artisti ben
distinti — che possono avere collaborato in una unica grande
bottega. Uno, più portato verso la riproduzione di forme naturali si
preoccupò di comporre liberamente dopo una passeggiata lungo le
siepi fiancheggianti un viottolo di campagna fiori e fronde. L’altro
artista eseguì la figura centrale nella complicata tecnica della
granulazione, riproducendo, forse, su stampi vecchi conservati nella
bottega le altre
figure e,
probabilmente, anche le api. Forme, queste, che evidentemente erano
opere di altri maestri, di almeno una generazione più indietro.
L’ipotesi è impostata
sull’esperienza delle botteghe orafe insediate in una determinata
località attraverso lunghi periodi di tempo. Basti pensare a quanto
accade, sotto i nostri occhi, a Parigi, dove in Place de la
Madeleine i discendenti dei grandi “Maitres orfèvres du Roi” Odiot
continuano la tradizione avviata fin dai tempi di Luigi XIV — oppure
in Rue Royale, dove il lussuoso negozio della Ditta Christoffle è in
grado di fornire ancora oggi, grazie agli enormi depositi di forme e
disegni accumulati in quasi un secolo di attività, oggetti dei vari
stili che dalla caduta del Primo Impero in avanti si sono susseguiti
fino ai nostri giorni. Su scala minore questo fenomeno è
riscontrabile in certi vecchi laboratori di oreficeria a Roma, come
in Via del Pellegrino, Via del Orsini ed alcune adiacenze di Piazza
Campo di Fiori.
Gli ori, gli argenti, i gioielli antichi, e poi
ancora i nielli e gli smalti, non vanno studiati unicamente sotto
gli aspetti di forma, di stile, di costume, ma andrebbero esaminati
anche - ed ampiamente, per giunta — molto attentamente sotto
l’aspetto delle tecniche orafe. A cominciare dalle caratteristiche
tecnologiche. Come ho fatto notare, della “Corona da Armento”, si
conosce il titolo di oro fino nella lega utilizzata dai maestri che
seppero forgiare questo singolare gioiello; con i calibri sono stati
misurati i diametri dei fili e gli spessori delle lamine. Si sono
potuti individuare — attraverso un ragionamento “alla rovescia” —
gli utensili dei quali disponevano le botteghe orafe della Lucania,
formatesi con la tecnologia della Magna Graecia... .
La Lucania: ecco l’ambiente artistico nel quale, alla
luce dei più recenti studi e dei reperti archeologici si dovrebbe
localizzare la bottega nella quale operarono gli artefici della
“Corona da Armento”. Dalla stessa ubicazione della località qualche
elemento utile, forse, si potrà ricavare.
Del nome antico di Armento poco o nulla si sa.
Qualcuno propose di identificarla con una località lucana Calesa.
Che nel paesino lucano-ellenico potesse fiorire una bottega
orafa di tali capacità artistiche e tecniche, non è del tutto
assurdo pensare. Le vie che collegavano da tempi antichissimi questa
località con i grandi centri lungo il Litorale Adriatico e le sponde
del “Sinus
Tarentinus”, conducevano identificandosi
con i grandi “tratturi” ed i fiumi, verso NE in direzione di
centri importanti, dapprima a Vensusia, poi a Canusium
nella valle dell’Aufidos, l’Ofanto dei giorni nostri; verso
SE, lungo la valle del Cosuentus, l’attuale Valle dell’Agri,
dritto su Herakleia; l’altra seguiva il corso del
Bradanus,
l’attuale Basento, verso Metapontion. Da qui, lungo il
litorale, si raggiungeva Taras.
Quale fosse la precisa condizione economica e sociale
di Herakleia e Metapontion tra il IV ed il III secolo, non lo
sappiamo. Ma la loro posizione sul mare, circondate da fertili
campagne, doveva dare loro anche dopo il declino e sotto la
dominazione romana, ancora quel tanto di benessere da giustificare
la presenza di botteghe orafe. Tuttavia il centro più importante e
prestigioso di quella zona era rimasta Taras, la nostra Taranto,
della quale è tramandato il fiorire di scuole d’arte, sopratutto
nella scultura e nell’oreficeria, della quale il Museo Nazionale di
Taranto vanta una piccola, ma preziosissima raccolta — in
particolare di gioielli, i quali sempre di nuovo sbalordiscono per
La leggiadria delle forme e per la raffinatissima profusione di
ritrovati tecnologici.
Tutti questi gioielli sono lavorati in lamina
sottilissima, spesso nel procedimento del “lavoro a foglia”,
realizzato con l’ausilio di stampi accuratamente preparati. Sulla
lamina compariscono filigrane delicatissime, anche più fini di
quelle riscontrabile sulla “Corona da Armento”, insieme a vellutate
granulazioni. Non conosco i diametri delle sferette di queste
granulazioni elleniche, né mi consta che qualcuno si sia preso la
cura di misurarle. Su gioielli etruschi sono state riscontrate
granulazioni con sferette da 0.3 a 0.5 millimetri di diametro, con
una regolarità ed uniformità di diametri sempre di nuovo
sorprendente.
Riassumendo queste svariate analisi e considerazioni,
ritengo che, allo stato attuale delle conoscenze acquisite intorno
alle arti minori della Magna Graecia, ed in particolare della sua
arte orafa, si debba concludere che questo festoso capolavoro qual’è
la “Corona da Armento” nel Museo di Monaco di Baviera non debba
considerarsi opera di artisti orafi attivi sotto l’influenza di
Taras — Tarentum tra la fine del IV e gli inizi del III secolo
avanti Cristo, ma non tarantini — e tanto meno Greci.
Rimane un ultimo
quesito, al quale si dovrà cercare una risposta: a che cosa avrà
servito questa eccezionale corona?
Un fatto è certo: esaminando la sua delicata
struttura, questo gioiello non poteva essere portato in capo da
nessuno, uomo o donna che fosse. Quel delicato gioco di racemi di
“Smilax” che riempie tutto il centro del cerchio d’oro lo rendeva
praticamente impossibile.
Era, dunque, veramente un oggetto votivo da destinare
ad un santuario — ma perché, allora, Kreitonios non ha voluto fare
sapere anche la divinità alla quale intendeva donarlo? Sorge allora
il problema, certamente mai risolvibile, perché un oggetto
consacrato ad una divinità — e quindi esposto in un sacrario
—dovesse trovare un ultimo rifugio entro un sepolcro all’interno
della Lucania.
Ma il problema si
risolve d’incanto, formulando l’ipotesi che la corona poteva essere
dedicato ad un personaggio meritevole di questa eccezionalmente
preziosa onoreficenza. Quell’ignoto personaggio, sulle ceneri del
quale con tanta cura si volle collocare il gioiello, in modo da
preservarlo da possibili danneggiamenti ed alterazioni, può essere
stato un grande poeta, un musicista, un uomo che nella vita pubblica
di una, delle città anelleniche lontane dalla costiera aveva svolto
un ruolo particolare, del quale poi si è perduta ogni memoria? In
conseguenza delle movimentate vicende sofferte dalla potente Taras,
nelle lotte con i Lucani, poi con il re epirota Pirro, i Romani,
ancora nella Il Guerra Punica, un personaggio Lucano avrà cercato un
rifugio in quella remota cittadina Calesa. Ed ivi venne
sepolto con quella corona che per lui doveva avere avuto un
significato tutto particolare. Ma quale? Rimarrà uno dei tanti
misteri che proprio come tali rendono, in certi momenti, la ricerca
archeologica particolarmente affascinante — perché sempre di nuovo
ci si trova di fronte a quelle entità così cariche di mistero quali
sono la psiche maturata dalle esperienze nell’uomo
A sfatare definitivamente l’attribuzione di questa
“stephanos” all’arte orafa ellenistica di uno dei centri maggiori
della Magna Graecia concorrono molti elementi che soltanto un
attentissimo esame di ogni minimo particolare — soltanto in
apparenza trascurabile — permette di percepire, sì da poterne
enunciare definitivamente il suo carattere anellenico.
Confrontando l’opra nel
suo insieme con quanto è dato conoscere oggi nell’arte orafa della
Magna Graecia, sopratutto con le splendide corone funerarie — ma
erano veramente destinate unicamente ai defunti? — rinvenute in
sepolcri a Canusium, presso Sant’Eufemia e Cuspiano, datate
anch’esse nella splendida stagione artistica dell’ellenismo tra il
declino del IV ed il III sec. a.C., appare una prima evidente
differenza.
Il grande serto da Canusium, cosparso di piccoli
fiori e rametti terminali di un cespuglio, chiaramente
identificabile come “Myrthus tarantinus” già mostra il prevalere di
una severa disciplina costruttiva e di proporzioni di fronte ad una
nascente tendenza verso un naturalismo di carattere teocriteo.
Questa disciplina formale e stilistica risulta ancora
più evidente nei diademi da Crispiano e Sant’Eufemia (a Taranto, nel
Museo Nazionale il primo; a Londra, nel Bnitish Museum il secondo).
Nel primo il cespo di foglie appare severamente stilizzato, partendo
da foglie di castagno — e non di acanto, come scrive il Becatti — si
dissolvono in eleganti racemi a spirale ed accentuano la curvatura
di questo frammento di gioiello. Nel secondo pezzo un ampio ornato a
linee sinuose movimentate nella sua ariosità non occulta la rigorosa
struttura geometrica, con il timpano adorno di un Gorgoneion.
Anche se di uno stile del tutto diverso, ma
appartenenti allo stesso periodo dell’ellenismo, tra il IV ed il III
sec. d. C., meritano di essere ricordati anche i diademi provenienti
dalle necropoli delle città elleniche insediatesi lungo le sponde
boreali del Ponto Eusino e della Propontide. Così quella da
Pantikapaion, oggi Kertsch, nelle Antikensammlungen di Monaco, da
Phanagoria, l’attuale Taman, nel Museo dell’Eremitaggio di
Leningrado; poi ancora l’esemplare dalla Tessalia, attualmente nel
Museo Benaki di Atene, tutti indistintamente caratterizzati
dall’elemento frontale a forma di “Nodo di Ercole” e dalla struttura
severamente composta. Il comune denominatore per questi gioielli — a
parte l’eccezionale abbondanza di granati almandini tagliati su
sagome e misure predisposte dal gioielliere per il lapidario — è,
anche per questa regione periferica della ecumene ellenica, la più
rigorosa strutturazione, anche nell’equilibrio cromatico raggiunto.
Vi si avverte anche una notevole limitazione nell’uso degli elementi
vegetali.
Che queste austere norme venissero seguite anche in
altre regioni elleniche, lo testimonia un diadema, oggi nel
Metropolitan Museum di New York, proveniente, forse, da Madytos, sul
lato europeo dell’Ellesponto, di fronte alla più famosa Abydos.
Nella sua struttura presenta, anzi, notevoli e sorprendenti affinità
con il diadema da Sant’Eufemia.
Con tutte queste opere d’arte orafa fin qui
brevemente analizzate e commentate la “Corona da Armento” non
presenta la benché minima affinità — e di proposito i raffronti sono
stati limitati ad altre corone e diademi. Ma anche volendo allargare
verso le prestigiose collane od i raffinatissimi orecchini di questo
stesso periodo, la situazione, rimane immutata se mai ulteriormente
convalidata e rinsaldata.
Tutto l’insieme
di queste diverse essenze vegetali, solo in minima parte stilizzate,
testimonia per una ,sensibilità tutta particolare, quale poteva
essere congeniale — insieme ad una maggiore confidenza e conoscenza
dell’ambiente naturale — a popolazioni, già molto evolute,
affacciantisi nel proscenio della storia subito dopo essere uscite
da una società quasi esclusivamente rurale e pastorale. Popolazioni,
le quali venute a contatto con la civiltà tanto più
progredita ed evoluta delle “polìs” elleniche lungo le coste del
Mare Ionio, quasi in uno sforzo di autodifesa, da queste
assimilavano quanto strettamente loro occorreva, onde poter
esprimere, con i nuovi mezzi acquisiti, integralmente la
propria sensibilità: nel caso della “Corona da Armento” una fresca,
quasi fanciullesca gioia per i fiori agresti, le essenze delle
siepi, il ronzìo delle api…
Non solo, dunque, la “Corona da Armento” si rivela come un’opera del
tutto estranea all’ambiente artistico della Magna Graecia — quale
che sia la “poleìs” che si voglia scegliere, meno che mai i grandi
centri artistici di alto livello, anche tecnologico, quali erano
state Taras, Metaponton, Heraklea.
La località dove essa è stata rinvenuta, di certo l’antica Calesa,
dalla quale attuale Armento “Serra Lucenta” o “Serra d’Oro” dista
soltanto pochi chilometri, era raggiungibile da Heraklea, sul mare,
seguendo l’antica via di penetrazione costituita dalla fiumara
dell’Agri, circa 55 km.
E’ possibile che a Calesa fosse attiva una “officina auraria”
?
Certamente altri centri lucani di maggiore importanza potevano
attrarre qualche orafo e gioielliere ad insediarvisi con la sua
bottega: Grumentum, Consilinum, Atina, Acia, Potentia. Non di
tutte conosciamo l’importanza che possono avere avuto per la
popolazione italica; ma deve considerarsi oramai un assioma che
ovunque si costituisce un insediamento urbano di qualche importanza,
con le sue fiere, le ricorrenze di festività religiose, più ancora
se vi si trova anche una qualsivoglia autorità, ivi è presente
l’orafo. Così come sarà stato presente anche in quell’antica città
presso Vaglio — della quale ancora non si conosce il nome antico —
con la sua poderosa cinta muraria fatta costruire da NOYMEAAOE APXON
— una delle sensazionali scoperte attraverso le campagne di
scavo che ivi ha condotto il Sopraintendente alle Antichità della
Basilicata, il caro amico Prof. Dinu Adamesteanu.
Ordunque, se già nella forma e nello del suo insieme il monumentale
gioiello trovato nel 1814 nel territorio “Serra Lustrante” non ha
nulla in comune con le altre opere alle quali è stato contrapposto
per un attentissimo raffronto, altrettanto si può dire di tutt’un
complesso di particolari molto significativi.
Vi è, anzitutto, un primo particolare che mi induce a rigettare
definitivamente — dopo molte incertezze e ripensamenti —
l’identificazione della figura femminile maggiore, al centro, con
una Nike di tipo ellenico: il diadema a punte, o fiamme, poggiato
sul capo, dopo che una sottile “stephanos” perlinata appare
tra le
ciocche
dei capelli poco sopra la fronte: dettaglio tanto più significativo,
questo, in quanto le altre due Nikai laterali e più piccole
presentano la chioma fermata con un sottile nastro che scompare tra
le pieghe della capigliatura accuratamente disposta.
Questo tipo di corona sul capo di una
divinità femminile è noto attraverso altri lavori, sempre in oro,
rinvenuti nella Tuscia meridionale: tre statuine assegnate all’arte
etrusco-ionica del VI sec. a. C.: una da caere nel Museo di Villa
Giulia; due, già nella Collezione Campana, ora nel Museo del Louvre
a Parigi. Incerta ne rimane la provenienza da Vulci o da Caere.
Pur appartenendo ad un ambiente artistico molto diverso e di quasi
due secoli anteriore, il particolare iconografico quasi identico
rappresenta un elemento che va ben oltre la mera casuale
coincidenza; permettendo di enunciare la certezza di un preciso
attributo iconografico di una determinata divinità femminile.
Così mi sembra notevolissimo il fatto che in tutte e tre le figurine
provenienti dalla Tuscia queste corone a punta presentano tracce di
smalti; in due di esse sono smaltate anche le collane; in una gli
occhi sono resi vivi con l’inserimento di due granati. Anche nella
corona della figura centrale della “Corona da Armento” sono
avvertibili tracce di smalto.
Mentre le tre statuine già ricordate ripetono il gesto delle “Korai
dell’Acropoli”, sollevando con gesto civettuolo un lembo de! loro
“chiton”, quella da Armento tiene nella mano sinistra una patera per
le libagioni; anche nella mano destra recava un attributo, come
documenta un forellino tondo praticatovi per infilarvi uno scettro.
Ora, riassumendo, corona a punte, scettro e “patera” proprio non
possono definirsi attributi tipici per una Nike. Se mai, ad essa si
addice la foglia di palma, e, qualche volta anche la tromba. Con
foglia di palma la si vede di frequente nella pittura vascolare
greca, oppure in funzione di auriga sulla quadriga
di qualche eroe. Sempre la chioma appare trattenuta da un nastro,
come si può desumere, malgrado la frammentarietà, dall’occipite
della Nike di Paionios nel Museo di Olimpia.
Cadendo, così, l’identificazione della figura centrale con una Nike
— nell’Olimpo degli Elleni pur sempre una divinità di secondo piano,
dai parenti ed antenati alquanto confusi, — la statuetta appare ora
in una luce ben diversa: si trattai indiscutibilmente, di una ‘Dea
Regina”, alla quale solo in un secondo tempo, forse, vennero
applicate le ali. Le quali, anzi, vengono ad assumere una precisa
funzione nel compimento del momento compositivo dell’insieme.
Dopo questa prima precisa identificazione di una “Dea Regina” —
lasciando agli storici delle religioni italiche le ulteriori
indagini per una sua possibile identificazione — anche le altre
figurine vengono ad assumere un nuovo significato: la “Dea Regina”
appare scortata da due Nikai vere e proprie e da quattro Erotes:
dunque una “Dea Regina Triumphans” — che sia possibile
identificarla, forse, con la Juno Regina dei Romani, ma in un
adattamento lucano? Iconograficamente il complesso delle sette
figure — fin dalla scoperta manca un Eros — potrebbe giustificare
proprio il trionfo della regina dell’Olimpo, la dea che proteggeva
le donne dalla nascita alla morte, in ogni momento della loro
vita, ivi compreso il travaglio del parto.
Nella memoria del Prof. Lejeune riportata in appendice la terza
parola dell’iscrizione è stata restituita da tradursi “al nume”,
“al dio”, “alla divinità”. Il fatto che l’esecutore
dell’iscrizione scrivesse questa parola maschile anziché al
femminile potrebbe essere una ulteriore prova per una trascrizione
fonetica con l’oscuramento della vocale, caratteristico ancora oggi
nelle parlate meridionali.
La dedica di Kreitonios ora, di colpo, si chiarisce nel suo
significato integrale: la « Divinità” alla quale egli volle dedicare
la corona è proprio quella che in figura intera, alata, poggia sulla
basetta con l’epigrafe. Egli ed i suoi contemporanei non potevano,
di certo, avere dubbi sull’identità di questa figura ultraterrena —
soltanto noi, tardi posteri, mai sapremo, forse, il vero nome lucano
di questa “Dea Regina” trionfale — con il suo corteo di Nikai ed
Erotes…
Veramente anellenico è, infine, un
altro particolare in tutte e tre le figure femminili : esse recano
grossi calzari di un tipo che è la negazione completa dell’eleganza
femminile, veri scarponi: larghi sul davanti, con suole grosse
chiaramente segnate dall’orefice cesellatore ed allacciate
elegantemente. Non di certo idonee, queste calzature, per una Nike —
come Peionios cercò di renderla quanto più diafana, leggera
possibile.
Mentre la gran maggioranza delle divinità femminili rappresentate in
scultura nel periodo ellenistico viene raffigurata scalza, le altre
calzano leggerissimi sandali, al massimo “accoturno”, ma sempre con
i bei piedi messi in vista. Scarpe, come appaiono sulla “Corona da
Armento”, anche nella pittura vascolare non compariscono quasi mai;
quei casi nei quali è dato osservarne sono sempre raffigurazioni di
personaggi anellenici, cioè di “bàrbaroi” che anche nel rimanente
del loro abbigliamento sono caratterizzati come appartenenti a
stirpi estranei alla “oikoumene” ellenica.
Infine un ultimo elemento anche questo, a mio avviso, probativo per
un’attribuzione ad una bottega di orefice non ellenica:
la granulazione riportata sul manto della Dea Regina e delle due
Nikai.
Non è questo il luogo per rifare la storia della tecnologia della
granulazione, né per riferire intorno alle varie ipotesi avanzate
per la sua realizzazione.
Gli Etruschi la praticavano con somma maestria già agli inizi del
VII sec. a. C., come la sapevano utilizzare i gioiellieri di Taras,
Canusium e degli altri centri, con virtuosismo e raffinatezza
ineguagliati per lungo tempo, ma mancati al maestro esecutore delle
tre statuine. Indubbiamente v’era l’intenzione di accentuare, con
l’applicazione della granulazione, le pieghe del manto, disponendo
le sferule in allineamenti. Allineamenti, si noti, con le sferule
intervallate di un diametro, almeno nel tratto del manto scendente
dalla spalla sinistra, poi ancora nella parte tesa tra l’anca destra
e l’avambraccio sinistro. Nel rimanente la granulazione venne
disposta, sempre diradata, disordinatamente — e così pure nelle
Nikai.
L’effetto voluto ottenere, secondo Marc Rosenberg, doveva essere,
forse, quello di un pesante tessuto lanoso: logico nella Dea Regina,
esso appare del tutto illogico nelle Nikai, le quali
nell’iconografia tradizionale appaiono coperte sempre di vesti
vaporose, facilmente mosse dalle correnti d’aria — come nei
capolavori famosi già ricordati, ad Olimpia e da Samothrake. E’
evidente che questa interpretazione del Rosenberg è sostenibile solo
per la figura centrale; nelle altre due figurine l’applicazione
della granulazione doveva rappresentare una dimostrazione di abilità
in una tecnica del trattamento di superficie, che, nella realtà,
doveva rimanere solo buona intenzione — ove non si voglia supporre,
piuttosto, un’altra intenzione: quella di raggiungere un effetto
semplicemente pittoresco, nel quale caso l’artefice raggiunse ciò
che intendeva: una variazione di effetto del chiaroscuro.
Comunque, questo modo di applicare una granulazione diradata non
trova riscontro né nei prodotti della Magna Graecia, né, tantomeno,
in quella dell’Etruria. E’ comunque immaginabile che la tecnica
della granulazione possa essere giunta tra i Lucani proprio da quei
grandi mercanti di ferro e di bronzo ed anche di oreficerie — che
sono stati gli Etruschi, anche dopo la caduta della loro Dodecapoli
in Campania. Giunsero, come tutti sanno, fino a Paestum, lasciando
il loro nome ad un torrente: il Tusciano, proprio su i confini con
le terre dei Lucani.
Così, nel trattamento della granulazione l’artefice ancora una
volta, forse, si volle distanziare dalle tradizioni delle città
costiere, confermando una solida autonomia artistica in uno spirito
del tutto anellenico.
A convalidare definitivamente tutti questi elementi anellenici
giunge la lucida esposizione dell’epigrafista Prof. Michel Lejeune
riportata integralmente in appendice.
Pur’ avendo così terminato le analisi
condotte su svariati livelli, e pertanto considerare concluso
praticamente il riesame della “Corona da Armento”, mi sono proposto,
prima di vergare la parola “Fine”, di indagare, almeno
sommariamente, intorno ad eventuali opere analoghe a questa
monumentale affermazione dell’arte orafa lucana tra il IV ed il III
sec. a. C.
Ebbene, questa necessariamente breve ricerca ha dato, a mio parere,
un risultato positivo: si tratta di due corone d’oro provenienti da
una necropoli picena nei pressi di Montefortino, a Ca. 34 km da
Ascoli Piceno.
Questi due pezzi, a loro volta di eccezionale qualità artistica e
perizia di orafo, si trovano ora nel Museo Nazionale ad Ancona. La
datazione proposta per il III sec. a. C. appare assolutamente
valida, coincidendo, sotto questo aspetto, con lo stile e le
intenzioni artistiche della “Corona da Armento”.
In quanto all’attribuzione di queste corone ad un determinato
ambiente artistico il Becatti — il quale in soprapiù riproduce il
grandioso cimelio dalla Lucania in una tavola insieme ai due del
Picenum, — ha aperto un equivoco: nel commento definisce questi
cimeli di “arte gallica” — nella tavola, in didascalia, li indica
come di “arte ellenistica”.
Nell’accostamento di questi tre cimeli il Becatti, senza rendersene
conto, si era avvicinato ad una realtà storica, la quale, per la
verità, al tempo dell’elaborazione della sua pur’ così preziosa
opera, non era ancora entrata nella visuale degli studiosi:
l’appartenenza di tutti e tre i pezzi a capacissime botteghe orafe
italiche: dei Lucani la prima corona, dei Piceni le altre due.
Nella prima delle due corone da Montefortino tra ciuffi di foglie
lanceolate — forse di “Iris graminea” — si svolgono viticci a
spirali e sporgono, su sottili gambi, fiori solo apparentemente
naturalistici, dalle corolle con molti petali e stami, mentre i
pistilli sono resi con gocce di smalto. Più fantasiosa ancora appare
la seconda corona, formata da ciuffi di foglie elittico-lanceolate,
tra le quali sporgono corolle di fiori, indicati a suo tempo come di
papaveri, su alti esili gambi oscillano delicate palmette di
purissima linea ellenica. Palmette che ritroviamo, presso che
identiche ai lati della Dea Regina della “Corona da Armento”
Non dunque “arte gallica” nel Picenum meridionale — l’ “Ager
Gallicus”, del resto, si stendeva da Ankon verso NO — ma vera
e propria arte picena, sviluppata nel territorio dei “Picente”,
stendentesi da Ankon verso ed oltre il Tronto.
Il centro irradiatore di arte, civiltà, tecnologia elleniche era la
dorica Ankon, l’attuale Ancona. Era facilmente raggiungibile
dagli abitanti del centro Piceno corrispondente all’attuale
Montefortino: scendevano l’ampia valle del Fiume Tenna fino alla
foce e da qui, lungo la costa pianeggiante e valicando il Monte
Cònero, raggiungevano Ankon — non più di 100 km in tutto.
Il denominatore comune di questi tre singolari cimeli può essere
definito così: un’amorevole, attenta osservazione della natura,
interpretata secondo la sensibilità e l’immaginativa degli artisti
di diverse genti italiche — quell’amorevole osservazione della
natura che le attuali generazioni discendenti dei Lucani e dei
Piceni devono, oggi, faticosamente riconquistare onde poter
ritrovare lungo odorose siepi e nei boschi la perduta serenità e la
gioia di vivere dei loro progenitori.
Quale significato ha la “Corona da Armento” — per quale motivo è
stata sepolta con quell’estrema cura che risalta anche dalla scarna
descrizione delle circostanze del rinvenimento?
Gli scavi in località “Serra Lucente”— nel secolo passato indicata
anche come “Serra d’Oro” — che da alcuni anni sta conducendo il
Sopraintendente Prof. Dinu Adamesteanu hanno messo in luce non una
necropoli, vale a dire un complesso di tombe formatosi lungo un
certo lasso di tempo, ma un “tèmenos”, cioè gli avanzi di una
particolare tomba, o piccolo mausoleo, entro un recinto consacrato.
Ci si trova, così, di fronte ad un “Hèroon”? Vi era sepolto, forse,
un grande capo dei Lucani, caduto da prode nella difesa della
libertà del suo popolo nella prima grande guerra che i Lucani si
trovarono a dover sostenere contro la potente Taras nel 327
a. C., la quale, per giunta, aveva chiamato come alleato il Re di
Epiro Alessandro il Molosso, lo zio di Alessandro Magno?
Oppure questo ignoto capo era morto combattendo contro i Romani
comandati da Cornelius Lucius Scipio Barbatus, console nel 298 a.
C.? Della guerra lucana non si hanno molti particolari, oltre
all’esplicito ricordo tramandato attraverso la famosa epigrafe sul
sarcofago conservato nel Museo Vaticano. La lotta venne combattuta
con dura determinazione da ambo i contendenti; al punto che i
Romani, dopo la ineluttabile disfatta dei Lucani, vincolarono
moralmente i vinti all’osservanza di patti certamente duri con la
consegna di ostaggi:
CEPIT TOTAM LVCANIAM
OBSIDESQVE ABDOVCIT
“Prese tutta la Lucania e ne condusse
via ostaggi” — con queste poche, scarne parole è stata enunciata la
tragedia di tutt’un popolo.. .
I Lucani, seppellendo questo personaggio “obsequiis rite solutis”,
per dirla con Vergilio, debbono aver avvertito la dolorosa,
struggente certezza di seppellire con lui la loro estrema
aspirazione alla libertà, all’indipendenza?
Proprio mentre sto per concludere queste considerazioni, ad un anno
di distanza dalle giornate del Convegno di Oppido Lucano, mi si è
presentata una nuova interpretazione del monumento ritrovato e della
corona tratta da esso: anche se, almeno per ora, puramente
indimostrabile ipotesi, essa verrebbe a dare una unica risposta, in
sintesi, ai vari quesiti che si sono imperiosamente imposti:
La sepoltura del tutto eccezionale, in forma di un “hèroon” entro un
“tèmenòs”, rende testimonianza che doveva trattarsi di un
personaggio di altissimi meriti — si chiamava Kreitonios
— veniva sepolto con il dono votivo presentato alla Dea Regina
qualche tempo prima, tolto dal santuario quando già l’esito
dell’impari lotta si stava delineando, perché venisse sottratto alla
spogliazione per mano del duro vincitore — stava tramontando la
libertà della gente lucana, il duro prezzo pagato ovunque per
costruire l’ “Imperium Populi Romani”.
Una ipotesi anche questa, anche se non dimostrabile fino in fondo,
almeno per ora, con inoppugnabili prove archeologiche, che reca in
se tutti gli elementi di una giustificazione sentimentale, romantica
se si vuole, una probabilità che non riesce a divenire realtà
storica.
A questo punto, però, l’indagatore, anche se di audace intuizione —
o, se preferite, di poetica ispirazione — deve arrestarsi
definitivamente per non abbandonarsi all’infido terreno di visioni
oniriche, per affascinanti che esse possano apparire.
Appendice Il:
Chiunque abbia qualche dimestichezza con la flora del Mezzogiorno,
non trova troppe difficoltà nel tentativo di voler identificare
tutte le componenti floreali e foliari della “Corona da Armento”,
senz’altro questa persona potrebbe dire molto precisamente — Marc
Rosenberg nella sua brillante definizione “wilder Feldblumenstrausz”
— che si tratta della caratteristica fioritura della Macchia
Mediterranea, della quale l’ignoto artefice aveva raccolto un bel
mazzo. Contemplando, poi, nel suo insieme questa composizione così
spontanea, si potrebbe dedurre che questo campionario di rametti
frondosi, di rampicanti, di fiori, sia stato raccolto nella stagione
di passaggio dalla primavera vera e propria all’estate.
Ma, a parte queste più o meno libere interpretazioni di una realtà
botanica, l’artista ha voluto lasciare briglia sciolta al suo estro
inventivo — fantasia creativa, se preferite — nel raffigurare anche
fiori irreali, onirici, da favola. Giungendo fino alle astrazioni
formali, con le pahnette finemente lavorate, intorno alla Dea
Regina.
Prima di redigere l’elenco delle singole essenze botaniche vorrei
annotare, infine, che tutte le piante riunite in questa corona sono
note fin da remoti tempi nella medicina demoiatrica, tutte per le
loro blande virtù terapeutiche.
Catalogo delle piante:
ALBERI:
1 — QUERCUS pedunculata: molte fronde e
numerose ghiande su lunghi piccioli distribuite un po’ su i due rami
ascendenti.
2 — QUERCUS troiana (sinonimo di O. macedonica), diffusa dall’Asia
Minore, attraverso i Balcani fino in Puglia e Lucania; oggi molto
rara: solo alcune fronde ai lati della Dea Regina.
In seguito ai selvaggi disboscamenti avvenuti dal 1860 in avanti, il
O. troiana, chiamata “Fragno”, è divenuta una vera e propria rarità.
FRUTICI:
3 — ROSA canina; soli
fiori in basso.
4 — ROSA canna cultivar: grandi fiori doppi e
stradoppi, a metà altezza della corona. E’ noto che già i
giardinieri ellenici e romani conoscevano i segreti della forzatura
per “costringere” i rosai a produrre fiori più pieni e di colori
diversi.
6 — CRATAEGUS oxyacantha: il Biancospino. Le sole fronde
disposte in basso e nel giro interno della corona. Da qualche autore
straniero identificato con una varietà di Quercus.
RAMPICANTI PERENNI:
7 — SMILAX: popolamento nota come
“Salsapariglia”, se utilizzata in demoiatria, “Strappabrache” per
chi, come cacciatori e carbonari deve girare per la macchia.
Spinosissimi i rami, anche le foglie coriacee, lucide, marmorizzate,
sono spinose lungo le nervature nèlla parte inferiore delle foglie.
Fioritura profumatissima, seguita dalla maturazione di grappoletti
di bacche rosso rubino, non commestibili. Caratteristiche i lunghi
circinnl spiralifornul, solo in minima parte resi dal disegnatore,
insieme a fronde e frutti.
ERBACCE:
8 — CONVOLVOLUS soldanella: la
“Soldanella” caratteristiche nelle sabbie dei tumoleti presso le
spiagge. Il caratteristico disegno bianco su fondo rosato è stato
interpretato esattamente dall’artefice. Per la somiglianza dei
fiori, si potrebbe proporre anche l’identificazione con
9 — CONVOLVOLUS althaeoides; identificazione che non è possibile con
10 — CONVOLVULUS elegantissimus. Regge, invece il confronto con il
11 — CONVOLVULUS arvensis, con i fiori
chiaramente marcati come nel C. soldanella: 5 raggi chiari su fondo
rosato.
Per alcuni fiori più stilizzati, ma con corolla chiaramente derivata
dal vero, si potrebbe una identificazione provvisoria con
12 — CALENDULA officinalis: oppure con
13 — CHRYSANTHEMUM nyconis: diffusissima in tutto il Meridione su
terreni asciutti, caratteristica per il bel colore giallo sole orno
ed il fogliame glauco.
Come già ho fatto notare per il CHRYSANTHEMUM nyconis, tutte le
varietà botaniche raffigurate in questa corona sono caratteristiche
di terreni asciutti — ma non proprio aridi, un altro elemento che ne
facilita la possibilità di identificazione.
Per la più facile leggibilità, la “Corona da Armento” viene riprodotta
in un disegno di un illustratore francese, il Vinet, inserito nel
volume di E. Bosc, Dictionnaire de l’art, de la curiosité et du
bibelot, Paris 1883, alla voce “Couronne”. Egli non se la
sentiva di riprodurre, al centro, il groviglio di SMILAX, che
compare solo di sfuggita con i caratteristici grappoletti e qualche
fronda e viticcio.
Meno il rarissimo QUERCUS troiana, lo
SMILAX aspera ribelle al trapianto in giardino, il CONVOLVULUS
soldandila perché rifiuta terreni argillosi e sassosi, tutte le
altre piante sono presenti da sempre nel nostro giardino in
Anacapri, facendo parte della famosa “Flora Caprese”, spesso
studiata ed illustrata.
Rimane, in ultimo, un problema insolubile: può questa fantasiosa e
festosa raccolta di piante e fiori avere un preciso significato?
Vale a dire, un messaggio criptografico, cifrato attraverso queste
varie essenze? Non è da escludere, come non può essere provato...
21 Gennaio 1972.
da
"Antiche Civiltà Lucane"
Angelo Lipinsky
a cura di Pietro Borraro
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