Il
progressivo arrampicarsi delle case che si spingevano verso l’alto,
faticosamente disboscando e vincendo le asprezze del pendio, si
stabilizzò sulla vetta, a poco più di 700 m., soddisfatto di
insediarsi presso l’antica roccaforte longobarda, di cui rimanevano i
ruderi, soffocati da un’intensa vegetazione.
Come da un balcone aperto sugli orizzonti lontani, gli abitanti,
stabilitisi lassù, contemplavano lo scenario stupendo della vallata
distesa in un mare di verde intenso, segnata dal nastro tortuoso del
fiume “La Terra”, le cui acque limpide e chiare, riflettevano i giochi
di luce del sole, che a fatica si districava fra le ombre tremolanti,
proiettate dai pioppi, alti e snelli, dai castagni, nobili e forti,
arrivati prepotenti fino alla riva, e delle infinite varietà di erbe e
fiori profumati.
Il nuovo rione che andava sorgendo in fretta lassù, assumeva una
fisionomia somatica e morale diversa dagli altri abitanti, residenti
da tempo all’ombra del Cenobio benedettino, e lungo le rive del fiume.
Si caratterizzava per il portamento fiero e quasi altero della
persona, ma ancor più da un forte spirito di iniziativa, da tenace
laboriosità e spiccata disposizione al comando, forse per la
collocazione in alto, e per la vicinanza della rocca divelta, sede un
tempo di dominio e di forza.
Il nuovo rione avvertì, come primo impellente bisogno, la necessità di
avere un tempio tutto per sé, per l’esercizio del culto. Non era
possibile continuare a scendere fino all’abbazia, per assolvere gli
obblighi religiosi, e rifare la scalata, erta e faticosa, per il
ritorno a casa. Gli inverni fra queste montagne sono sempre stati
lunghi e rigidi, e la coltre bianca della neve copriva allora come
oggi, per molti mesi, le case, le strade, le campagne.
Si diè mano così alla costruzione del tempio, dedicandolo a San Nicola
“de graecis”, come allora veniva chiamato il Santo di Patara,
altrimenti detto di “Bari”. Siamo verso la metà del ‘200.
Di fronte, adagiato alle falde del colle “Timpo del Castagno”,
spiccava linda, ma tozza e severa la Chiesetta di Sant’Antuono, col
suo campaniletto ad un arco e la cui campanella, querula ed
insistente, spandeva per la valle e proiettava verso l’alto fin lassù,
a San Nicola, con conseguente invidia degli abitanti, onde di gioia
serena e pressanti inviti alla preghiera.
L’area su cui elevare il tempio fu scelta con cura e ponderatezza.
Doveva dominare tutta la vallata, doveva potersi vedere da ogni parte,
fin dalle cime di Caperrino e dalla criniera del Volturino. Ma
specialmente doveva ricordare agli abitanti del “Piano” e di “Sant’Antuono”,
che il dominio si esercita dall’alto.
Lo si volle simbolo di fede, ma anche di forza.
Lo si rivestì di robusti spalti a strapiombo sulla china ripida del
colle.
Il campanile, capace di ospitare più d’una campana, a differenza della
piccola torre campanaria di Sant’Antuono, domina ancor oggi tutto il
fondo valle, ed è anche un faro che guida il cammino dei viandanti,
provenienti dal valle del Diano, dalla Val d’Agri, e dai tratturi
della media e bassa Puglia. L’orgoglio della contrada, di poter avere
una Chiesa tutta per sé, cresceva man mano che i lavori procedevano
con ritmo accelerato.
Fu festa grande, ricordata da antiche scritture, quando i sacri
bronzi, dal campanile svettante nell’azzurro, snello e saldo, sparsero
onde di letizia
per la vallata, fasciata di gelo e sormontata da un cielo profondo e
limpido.
Ricorreva la festa del Titolare, 6 dicembre, forse del 1230. La
struttura del tempio, oggi arrivata a noi fortemente rimaneggiata, si
presenta semplice, ma robusta e salda. Fa parte della primitiva
costruzione il grande arco che regge la parte anteriore verso
l’altare. E’ retto da pilastri di pietra, squadrata e a vista, così
come la volta, il resto è opera di ricostruzione, circa il ‘400, a
seguito di sismi di cui non si ha memoria. E’ ad una sola aula; l’arco
a tutta luce, di cui sopra, ha somiglianza col ponte di Sant’Antuono,
il che fa pensare alla contemporaneità della costruzione e forse agli
stessi architetti e costruttori.
Caratteristica principale e forse unica, è il coretto, cui si accede
dalla piccola sacrestia, per una scaletta breve e stretta, riservata
al Feudatario di allora, ed oggi alle autorità costituite, quando
partecipano ufficialmente ai sacri riti del “Corpus Domini.
L’altare maggiore, in calce, addossato alla parete sud, è imponente e
solenne, con due robuste colonne che sorreggono l’arco e la cimasa. Ha
però ai lati due grossi finestroni, che è quanto di più infelice si
possa concepire.
E’ certamente il frutto di rimaneggiamenti. Infatti, la luce che
filtra, incontenibile e abbagliante, dà noia e fastidio; e
specialmente rende quasi impossibile poter ammirare il prezioso
trittico su tavole, raffigurante la Vergine col Bambino e Santi.
Il dipinto è forse l’opera tra le più pregiate che si abbiano a
Calvello, difficile dire come sia arrivato tra noi. I colori sono
vivi, caldi sfumati, omogenei; gli sfondi profondi, i particolari
accuratissimi.
I volti della Vergine, del Bambino e dei Santi sono sereni,
penetranti, pieni di vita; i paludamenti ricchi e raffinati; le figure
mosse, soffuse di gioiosa letizia, sembrano invitarti al colloquio.
Il trittico è stato recentemente restaurato e lo si può ammirare in
tutto il suo splendore e bellezza. Viene attribuito a Simone da
Firenze. Forse ulteriori e più accurate indagini potrebbero darci
notizie più precise come le lettere appena leggibili che sembrano
essere le seguenti: “Hoc Q.A.F.F. Don Ant.”. E’ evidente trattasi del
committente delle tavole, che, se identificato porterebbero alla
precisazione dell’opera.
Nel coretto del Feudatario è sistemata, con non molta cura, seppure
con possibilità di luce indiretta, una grande tela raffigurante la
Vergine col Bambino, in alto, e al centro un Arcangelo (San Michele?),
in atto di liberare dalle fiamme del Purgatorio: vescovi (si intravede
un pastorale), nobili (si scorge una corona), e signori. Non si vedono
plebei!
La tela è del ‘600, e tutto fa pensare che venga dalla casa ducale.
Per il passato, malgrado l’incuria degli uomini e gli insulti del
tempo, la tela si presentava vivace nei colori e nei movimenti delle
figure, fortemente espressive e anatomicamente perfette. Ora è stata
egregiamente restaurata; e per la grandezza, per la raffinatezza dei
colori teneri e luminosi, e per la perfezione dei particolari,
rappresenta un pezzo di notevolissimo valore.
Guardandola con attenzione, si ha l’impressione netta di trovarsi di
fronte ad una attualità permanente e fissa, ove il tempo non scorre;
inoltre si ha la sensazione di essere nella scena riprodotta, in
compagnia della Vergine e dell’Arcangelo liberatore delle anime,
divorate dalle fiamme purganti, pronte all’ascesa verso il gaudio del
Paradiso.
L’autore è ignoto, ma la delicatezza e la cura dell’insieme, fanno
pensare ad un pennello ben affermato e di valore.
Tra le sculture lignee più belle, esistenti nel sacro luogo, è da
ricordare un Cristo Crocifisso a grandezza naturale e fortemente
espressivo. Ha il capo rivolto verso l’alto, gli occhi dolcissimi e
lacrimanti, suscitano una profonda tenerezza ed eccitano al pianto.
Esprime un dolore lancinante, ma rassegnato.
Le carni sono lacerate; il sangue che scorre dai piedi, dalle mani
chiodati e dal petto squarciato, imporpora le ginocchia, sbucciate per
le cadute I rami che intrecciano la corona di spine, sembrano appena
recisi, hanno aculei lunghi e appuntiti, sono infissi nel cuoio
capelluto. Il tutto con una naturalezza che non fa pensare ad una
scultura, sebbene ad un uomo in carne ed ossa, appena conficcato e
appeso alla croce.
La linearità della scultura, dalla anatomia perfetta, senza
virtuosismi e ricerca di particolari non pertinenti, è opera di un
artista del ‘500, epoca nella quale ci si sforzava, con ottima
riuscita, a riportare nel legno e nel marmo scolpiti, la figura umana
nella sua realtà, colta in qualunque momento della vita; nella gioia e
nel dolore.
Purtroppo lo sfondo rappresenta figure scomposte, dalla mano rozza ed
infelice. Andrebbe certamente rifatto. Questa scultura è del tutto
diversa dall’altra esistente nella Chiesa parrocchiale, pur essa di
grandissimo valore, e la cui espressione, quasi di disperazione, è di
chiara marca giansenistica.
Sgargiante nei paludamenti, mosso nelle linee, e ricco di fantasia e
di espressione, è la statua di San Biagio, scolpita in legno nel primo
‘600. Il Santo ha ai piedi due angioletti svolazzanti. Con la destra
benedice, mentre la sinistra regge il pastorale e una spazzola con
aculei di ferro, strumento del suo martirio. Ha il viso barbuto, ben
levigato, di un uomo nel pieno della virilità. E’ scultura di notevole
interesse artistico, per lo studio e le cure posti dall’autore.
L’espressione è spontanea e profonda, le vesti episcopali sono ricche.
Sembra che il Santo ti venga incontro accogliente, gentile e bonario,
per benedirti.
Rigido, invece, e in atto benedicente, pur esso scolpito in legno è il
busto del Titolare della Chiesa, San Nicola.
Per l’atteggiamento lievemente bizantineggiante, lo si può datare
all’epoca della costruzione del tempio, il 1200, quando ancora nella
Lucania, l’arte si ispirava a Bisanzio e gli artisti andavano
lentamente e faticosamente aprendosi ai nuovi canoni e ai nuovi stili,
alla ricerca di nuovi temi.
Il busto è alquanto tozzo, col viso rubizzo e atteggiato al sorriso.
Si notano interventi di restauro poco accorti. E’ tuttavia
interessante l’espressione del Santo, proposto in atteggiamento di
intensa vitalità e soffuso di ottimismo.
Una caratteristica particolare distingue la processione di San Nicola,
il giovedì dopo la seconda domenica di maggio.
All’origine, e bisogna retrocedere fino a circa il 1250, essa voleva
propiziare, a mezzo dell’intercessione del Santo Protettore,
l’andamento favorevole della stagione per un buon raccolto. Ancor oggi
è rimasta invariata e nel su svolgimento e nelle sue finalità.
Le invocazioni di allora rivolte al Santo, sono ancora le stesse. “Grazie,
Santanicola mio; e nui la vulimm’ la grazia tua” , è il grido
accorato dei piccoli e dei grandi: i primi coi capelli sciolti e la
fronte cinta di corone di rovi; gli altri compunti e devoti, disposti
in lunghe fila dietro i “calvari”, fanno bordone alle voci bianche.
La processione che si svolge al mattino, circa le ore 7,00, ha
termine, dopo breve percorso, nella Chiesa Parrocchiale con la
celebrazione della Santa Messa e l’omelia di circostanza del
sacerdote.
Poi e poi si attenderà che il sereno, un sole calibrato, benevole e
giusto; la pioggia copiosa e tempestiva, giusta i saggi auspici degli
anziani: “april’ chiov’ chiov’; magg’ un’ora e ciass’ giugn’ una e
bon’; metetor’ s’ n’ pass’; ad agust’ s’ vedono agliann’ e must’;
permettano agli agricoltori di colmare i granai, riempire i depositi
di succedanei diversi, e saturare le botti dell’ottimo vino calvellese.
Attualmente la Chiesa di San Nicola, così omusta di storia e ricca di
arte, danneggiata dal sisma del 23 novembre 1980 è in restauro. I
lavori fervono attenti, precisi e con competenza.
Nel corso dei lavori sono affiorati interessanti scoperte.
Con la rimozione di un quadro, di interesse molto scarso, sono venuti
alla luce affreschi datati 1526 e raffiguranti la Madonna delle
Grazie. Similmente, rimosso il Cristo in croce di cui abbiamo
trattato, si sono scoperti altri affreschi cinquecenteschi. Ora tutto
è attentamente valutato e studiato, e l’indagine, cui saranno
sottoposti i reperti, ci daranno interessanti notizie sulla storia di
questo antico tempio.
da: "Calvello
- storia, arte, tradizioni"
di Luigi De Bonis
su autorizzazione dell'autore