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CAV. GIUSEPPE PATERNO

da: "la Basilicata nel Mondo" (1924 - 1927)

 

 

 

Quando, per il 6° centenario della nascita di Dante Alighieri, il " Progresso Italo-Americano " eresse, con propria sottoscrizione e iniziativa, il monumento al Poeta, in New-York, il nostro comprovinciale cav. Giuseppe Paterno, con gesto munifico e patriottico, volle a sue spese costruirne tutto il basamento.

Questo atto di fede itaIianissima dell’egregio uomo ci richiama il ricordo della sua vita avventurosa, e le mille e mille peripezie, attraverso le quali, vincendo ostacoli, che ad altri meno forti di lui sarebbero parsi insormontabili, egli costruì, giorno per giorno, la sua fortuna, elevandola pietra su pietra, blocco su blocco, come fa con i suoi grattacieli, e reggendola e avvivandola, nell’altezza sempre crescente, con quel suo spirito indomito, che nulla paventa e di nulla s’insuperbisce, che la sconfitta non prostra e la vittoria non esalta.

Aveva tre anni Giuseppe Paterno, quando, dalla natia Castelmezzano, il padre, che aveva fatto in America il costruttore di case, con alterna fortuna, se lo menò a New-Yorck, ove il ragazzo, che cresceva pensoso e acuto, si adattò a fare il giornalaio, strillando tutto giorno il titolo dei mastodontici giornali americani, per le vie interminabili della "City" irte di tumulto e di grattacieli, che tolgono la visione del cielo e soffocano, come un incubo, il respiro. Il fanciullo, che, confusamente, in fondo alla sua anima bambina, doveva avere il ricordo nebbioso di un altro cielo, sotto il quale era nato, e degli sconfinati orizzonti lucani, abbacinati dal sole, corsi dai venti, concepì un amore incosciente e curioso, misto a terrore, per quelle case così alte, più alte dei nostri campanili, ch’egli ammirava e osservava sempre, senza sapere perché, come se già un piccolo demone profetico gli mordesse il cuore e il cervello, e, dentro gli sussurrasse: «Tu costruirai grattacieli, come quelli, più alti di quelli ».

 

E passava le sue giornate, così, tra i grattacieli e i giornali, in quello sbalordimento tipico, tra apatico e audace, che devono avvertire tutti quelli, i quali in fondo al cuore presentono la buona ventura e il successo.

Com’era solito fare tutte le sere, una sera dell’anno 1889, in Park Bow, il quartiere newyorckese dei giornalai, il piccolo fanciullo lucano, niente affatto sperduto nella città colossale, vendeva le ultime copie di giornali, che gli erano rimaste, e aspettava che il padre, occupato nella costruzione di un nuovo palazzo del rione, uscisse dal cantiere, per tornarsene a casa insieme.

Nell’attesa osservava attentamente le costruzioni, ne misurava con gli occhi gioiosi l’altezza vertiginosa, e carezzava in sé, Dio sa quali chimere e sogni infantili.

In questa osservazione, lo sorprese il padre, al quale, di colpo, il fanciullo domandò.

« Ma perché costruiscono queste case tanto alte ? »

Il padre, via via, gli spiegò, (con l’amorevolezza speciale di tutti i padri di Basilicata, i quali, non avendo, nella grande maggioranza, vistose eredità da lasciare ai figli, si preoccupano di addestrarli e prepararli ai cimenti della vita, col consiglio e con l’esempio), come l’altissimo prezzo delle aree di terreno da costruzioni avesse suggerito ai costruttori edili l'idea di ammonticchiar piani su piani, per spendere di meno e guadagnare di più.

Gli spiegò pure il tenero padre come, in quella cosmopoli degli affari, nessuno sforzo e nessuna audacia dell’ingegno umano era impossibile e che l'industria di quegli uomini dove abituano anche al miracolo.

Un mondo tanto diverso dal nostro!

Il fanciullo precoce comprese. Quindi il padre passò a spiegargli come i grattacieli, che si erano rivelati ottimi covi di uffici, non fossero però molto pratici come case di abitazione per famiglie, fors’anche perché, a quell’epoca, essi non erano ancora troppo numerosi neanche nella capitale nord-americana e non si erano ancora volgarizzati al punto da invogliare, nemmeno i cittadini americani, ad abitare un decimo o un ventesimo piano.

Ma il fanciullo dall’intuito rapido, che soffriva, come una malattia ereditaria, il male della pietra, comprese che il grattacielo sarebbe stato, per necessità ineluttabile, la casa dell’avvenire, a New Yorck, ove la vita si congestionava e si agglomerava incessantemente, ora per ora, per il perenne afflusso di sempre e sempre nuove correnti migratorie, da tutte le parti del mondo.

Poco dopo, il piccolo Giuseppe Paterno smise il mestiere nomade di giornalaio e passò a servire nello studio di un dentista. Ma, in realtà, altro non faceva che seguire il padre in cantiere e sognare, in quei dolorosi sogni a occhi aperti, che lasciano il vuoto dentro le mani e nel cuore, di essere diventato costruttore di grattacieli.

Tutto il suo fervido cervello di fantasioso giovinetto Iucano era ormai invasato dalla persecuzione dei grattacieli. E fors’egli si vedea già tra cielo e terra, sulle altezze vertiginose, a cogliere stelle.., d’oro.

Fu al cantiere, che conobbe un ricco costruttore, il quale gli diede una «job» per sé e per suo padre. Il lavoro era duro, ma a Giuseppe premeva cominciare, e cominciò così a realizzare il suo sogno di costruttore.

La sua idea fissa, il suo nascosto disegno era sempre quello di adibire il grattacielo non più solamente a sede di uffici, ma come casa di abitazione. Il padre, convertito alla idea del figlio, sul momento di la­sciarlo, per tornarsene, ammalato in Italia, al nativo paese di Castelmezzano, gli disse: « Figlio mio, tu hai ragione. Siamo al punto che si devono costruire i grattacieli per abitazioni. Le case non bastano più e la città è già cosi immensa ».

Confortato dall’ assenso paterno, senza perdere tempo, l’ardente lucano si presenta a un costruttore arcimilionario e gli propone di elevare un palazzo a venti piani.

Il milionario gli sgrana gli occhi in faccia. Poi, con piglio ironico, gli dice : « Ho capito: voi siete sognatore. Questo palazzo vi servirebbe per farvi ballare dentro i vostri sogni. Quale matto volete che se ne vada ad abitare in un ventesimo piano ? »

Il lucano tien ferma, come una roccia della sua terra. Ma abilmente tergiversa, fino a ottenere i fondi per la costruzione di un palazzo a sei piani.

A questo primo, ne seguirono rapidamente altri a otto, a dieci, a dodici piani. La sua prima tappa verso il suo sogno fu un grattacielo a quindici piani.

Ben presto, Giuseppe Paterno si rivelò industriale geniale, sagace, di larga e lunga veduta. Mise su selve di cantieri, drizzò armature di costruzioni in tutta New-Yorck, reclutò intere legioni di operai e falangi di ingegneri, dando sempre simpatica e affettuosa preferenza all’elemento italiano e basilicatese.

Con la chiara percezione della necessità assoluta di moltiplicare rapidamente e senza numero le abitazioni della colossale metropoli nord-americana, si diede a tutt’uomo, con formidabile sicurezza, all’acquisto delle case basse, nel cuore di New-Yorck, per abbatterle ed elevare, sullo stesso suolo, i suoi immensi grattacieli, grappoli mostruosi di sovrapposti nidi umani, di quindici, di venti, di ventidue piani.

Fatti compiere dai suoi tecnici gli studi necessari, si lanciò nell’ impresa con la foga, al tempo stesso pacata e irruenta, riflessiva e irragionevole, che è caratteristica fondamentale della nostra razza lucana.

Intorno a sé, vi erano i congiunti pavidi, gli amici preoccupati. Gli scettici crollavano il capo, i sarcastici ghignavano chi largiva consigli di moderazione, chi parlava di immaginare possibili catastrofi. Giuseppe Paterno non diede retta ad alcuno, non vide nessuno. Tirò innanzi per la sua via, senza volgersi mai, né a diritta, né a manca, senza mai esitare, senza mai sostare prima di raggiungere la meta.

Era tanto forte e tanto sicuro di sé, che l’idea della eventuale catastrofe non lo turbò. Chi si abitua alla vertigine delle altezze, non ha paura nemmeno della vertigine degli abissi. La sua stella era con lui.

E, ancora una volta, trionfò. In breve tempo, i suoi cantieri costruirono palazzi per l’ammontare complessivo di centosette milioni di dollari, nella Colonia University. Sicché, quando negli anni 1907-1908 scoppiò a New-Yorck la crisi edilizia, egli poté farvi fronte, non sospendendo, ma solo ragionevolmente diminuendo, l’attività costruttiva dei suoi cantieri, alleviando così il disagio della disoccupazione degli operai edili, specialmente italiani e lucani. A questo riguardo, il suo patriottismo non subì mai imposizioni di sorta egli accettò operai irlandesi, canadesi, di tutte le nazioni, perfino negri, solamente quando la mano di opera italiana faceva difetto.

Dimostrava così la sua fervente italianità e la sua solidarietà franca e affettuosa per i fratelli lavoratori italiani e lucani.

 

Da venditore di giornali, attraverso il breve intermezzo di garzone di dentista, a venditore.... di grattacieli, mutatasi così eloquentemente la sua sorte, è rimasto però sempre immutato il cuore schietto, semplice, generoso, cuore di lavoratore, che sa, perché l’ha vissuta, come sia dura la lotta per l’esistenza, di Giuseppe Paterno. Il trattamento, che vien fatto agli operai dei suoi cantieri, lo dimostra nella maniera più mirabile. La paga minima giornaliera è di sette dollari (centocinquantacinque lire italiane). Sebbene la vita a New-Yorck costi quattro volte più che in qualsiasi città italiana, pure tutti i nostri operai hanno così un margine possibile di economie.

Lavoratore egli stesso, non lascia poi nessun mezzo intentato per la organizzazione e la valorizzazione dei nostri operai all’estero, prodiga danaro e consigli per la loro assistenza civile e morale, per i loro circoli, le loro leghe patriottiche ed economiche, le loro case di ricreazione e di ricovero, i loro ospedali.

E’ la solidarietà infrangibile della fratellanza e dell’origine comune.

Né ha mai dimenticato la sua Basilicata, il   suo nativo paese di Castelmezzano, verso il   quale ha sempre fatto e continuamente fa il   suo dovere di figlio, memore e benefico.

Ogni appello della sua Terra riceve da lui generosa risposta, e dobbiamo qui segnalare come egli, insieme col cognato avv. Antonio Campagna, stia per far sorgere in Castelmezzano un grandioso edificio scolastico, e come abbia dichiarato di voler largamente concorrere nella spesa per dotare il proprio Comune della illuminazione elettrica. E non

accenniamo di proposito alla beneficenza privata, ai sussidi alle opere pie, a tutto quell’altro bene che Giuseppe Paterno elargisce, in silenzio, agli umili della sua terra.

È di ieri la elargizione munifica di cinquemila lire che egli ha fatto all’Orfanotrofio di Potenza.

 

All’apice della fortuna, egli è rimasto sempre un lavoratore instancabile e modesto.

Delle sue ricchezze, egli gode non per sé, ma per la sua famiglia, che adora.

« Ho avuto fortuna — egli suole dire — non nego. Ma i primi anni sono stati duri assai. Che lotte! che ansie tormentose! Ho provato tanti mestieri. Ho lavorato come un forzato, spesso per ventiquattro ore su ventiquattro. Non mi sono mai concessa una settimana di quiete. Qualche ora, beninteso. E lavoro senza interruzione, perché non saprei vivere in ozio, lontano dai miei cantieri, dai miei operai, dai miei ingegneri ».

A questo magnifico campione della razza lucana, esempio tipico della intelligenza, della volontà, della saggezza e della fierezza italiana, il nostro Governo ha conferito — onorificenza invero non adeguata ai meriti italianissimi di Giuseppe Paterno — la croce di cavaliere.

Ma il suo più grande compenso è certo la coscienza, ch’egli ha, di aver onorato il nome della Patria, nel mondo.

 

Non vogliamo chiudere queste note, senza rivelare qualche tratto simpatico del carattere sociale di Giuseppe Paterno.

Si è completamente americanizzato, pur conservando intatto il suo spirito italiano e il suo fondo lucano. Passa, con disinvoltura eccezionale, dalla blusa di operaio all’abito da passeggio, da questo al frack, dal cantiere al teatro, da una sala da ballo a un « restaurant » di lusso. Guida magnificamente la sua auto­mobile. E a bordo della sua macchina, impassibile, egli, nelle ore di svago, ama spesso girare da un capo all’altro di New-Yorck, per la gioia di rivedere, uno dopo l’altro, tutti i grattacieli, che la sua operosa intelligenza ha elevato, qua e là, nella immensa cosmopoli.

 


da: "la Basilicata nel Mondo" (1924 - 1927)

 

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