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EMANUELE DUNI

    da "la Basilicata nel Mondo" (1924 -1927)

In questa pregevolissima Rivista, alcuni mesi or sono, il valoroso avv. Sergio De Pilato, occupandosi del maggiore musicista della Basilicata, Egidio Romualdo Duni, nato a Matera nel 1708 e morto a Parigi il 1775, fece accenno anche al fratello di costui, Emanuele. Il padre loro, a nome Francesco, maestro di cappella, ebbe dieci figli, verso i quali torna a vera gloria e onore della Basilicata nostra il rivolgere un pensiero pieno di somma riverenza, per ricordare che Emanuele, dottissimo giureconsulto, nato pure a Matera, nell’ultima metà del secolo XVIII, ebbe a insegnare Diritto romano nella Pubblica Università degli Studi di Roma. Ed esattamente è stato rilevato che è danno e vergogna d’Italia che non siano maggiormente lette e studiate le opere del Duni, che pure sono tanto lette e studiate all’ Estero.

Egli scrisse un Saggio sulla Giurisprudenza Universale, pubblicato a Roma il 1760, e dedicato al marchese Bernardo Tanucci, consigliere e segretario di Stato di S. M. il Re delle due Sicilie, e poi una Risposta ai dubbi proposti dal signor Gianfrancesco Finetti sopra il detto Saggio, risposta pubblicata a Roma nel 1766 e in cui, sdegnato pel motivo delle infondate e acerbe critiche del Finetti, a lui e al suo maestro Giambattista Vico, fu costretto a censurare il Finetti di essersi spinto sino a tacciare come empio un sentimento dello stesso Vico, contro ogni legge di onestà e di buona fede ,,. La critica del Duni in codesta risposta procede serrata, magari violenta, e mossa a una siffatta vigoria di critica dell’avversario, come egli stesso dice, dalla violenza di amore. In altro suo scritto il Duni pose in rilievo esatto i profondi pensieri del filosofo napoletano Vico, che fu un grande rinnovatore degli studi storici del diritto, considerandolo non più come un prodotto della riflessione e dell’uomo vivente nella solitudine dei propri pensieri, ma come un fenomeno della società intera.

Quando il Vico espose genialmente quelli, che erano i criteri fondamentali della concezione sua, trionfavano il razionalismo di Renato Cartesio, il noto filosofo francese, e le dottrine del diritto naturale, che avevano il dominio delle menti umane fin dal tempo in cui visse l’olandese Ugo Grozio. E il Duni, seguendo le dottrine del Vico, distinse il vero dal falso nell’antico dirifro — di Roma, e, come ha notato lo Zanella, nella sua Storia della letteratura italiana dalla metà del 700 ai giorni nostri, con rincrescimento si può notare che se gli italiani fossero più curanti delle loro vere grandezze, la gloria che si ebbero Beaufort, il Niebhur, e il Michelet, sarebbe del Duni. La sorte volle veramente accomunare in tale noncuranza il Vico e il Duni, che, tanto in vita quanto in morte, non ebbero un fato amico!

E pel Vico si suole ritenere che la nuova concezione storica del diritto derivi dalla eletta mentalità di Gustavo Hugo, nato il 1764, morto il 1844, e autore di un lodevole Lehrbuch der Geschichte des rdmischen Rechts bis Justinian (“Compendio di storia del diritto romano fino a Giustiniano ,,) che ebbe undici edizioni, dal 1790 al 1832, e che fu, poi, pure tradotto in italiano a Napoli nel 1856.

Come nota il Vannucci, (Storia dell’ Italia antica, ed., vol. I, pag. 658, Milano 1873) il Duni dimostrò che nei racconti di Dionisio e di Livio esiste contraddizione tra i fatti e gli ordinamenti delle città, quali furono da essi descritti, in quanto che, mentre nelle loro storie è detto che fino dall’origine i plebei avevano il suffragio e gli altri diritti politici e civili, i fatti posteriori, per più secoli, attestano che erano vilipesi come un gregge di schiavi e non si consideravano ne come uomini, ne come cittadini. E il Duni, seguendo appunto le dottrine del Vico, rende un grande servizio, applicandone i fecondi principi a tutti i fatti dell’ordine civile e politico, e rendendoli più chiari con una esposizione non più elegante, ma molto più facile.

Il prof. Achille Gennarelli, curando la pubblicazione a Roma, dal 1845 al 1850, di una edizione completa degli scritti del Duni in cinque volumi, e facendola precedere dalle notizie sulla vita e sulle opere dell’A., con ragione si lamenta dei critici della Francia, della Germania e dell’Inghilterra, che, rinnovando la storia di Roma antica, non abbiano mai avuto cura di fare cenno del nostro Duni. Con ragione il Gennarelli, poi, si lamenta pure del celebre filosofo e storico tedesco Bertoldo Giorgio Niebhur, nato il 1766 e morto il 1831, che, vivendo a Roma e scrivendo delle opere, di certo ebbe conoscenza dell’importantissima opera del Duni sulle Origini e progressi del cittadino e del governo di Roma ,,, pubblicata in due volumi nel 1763. Ed è strano che i preti, che a loro spese avevano fatto stampare alla Tipografia Camerale di Roma i libri del Duni, avendo timore delle conseguenze del loro ardimento, ne impedissero la diffusione e quindi quella edizione non fosse conosciuta affatto, mentre alcuni anni prima in Germania erasi fatta conoscere dall’Eisendecher, col suo libro dal titolo Ueber die Entstehung, Enturischelung und Ausbildung des Biìrgerrechts in alten Rom (Origine, sviluppo e perfezionamento del diritto del cittadino nell’ antica Roma), pubblicato ad Amburgo nel 1829 con prefazione di A. H. Neeren. Codesta opera del Duni, nella parte che concerne lo stato della famiglia romana, e in particolare in ciò che concerne il motivo degli auspici e della incomunicabilità loro, è stata svolta con grande erudizione e critica profonda.

Notevole è anche del nostro illustre giurista l’opera, scritta tutta in latino dal titolo De veteri ac novo jure codicillorum, Commentarius adversus Justum Henningum Bochmerum ,,, dedicata al papa Benedetto XIV, il dottissimo bolognese, e pubblicata a Roma nel 1752, nella quale con particolare riferimento al titolo 7° del libro 290 del Digesto, e al titolo 360 del libro 6° del Codice di Giustiniano, si espone la dottrina giuridica del codicillo (disposizione di ultima volontà, distinta dal testamento in quanto che non contiene la istituzione dell’erede, ritenuta dal diritto romano caput et fundamentum testamenti). La critica dell’avversa opinione del giureconsulto e pubblicista tedesco Bochmer, nato il 1674 e morto il 1749, è assai chiara, precisa, minuta. Il libro contiene una lettera in latino diretta al chiarissimo giureconsulto Giuseppe Pasquale Cirillo, al quale dice che, non per ostentazione, come fanno i più, suole inviargli qualunque opera prima di darla alla pubblicità. Fa seguito immediatamente una lettera di risposta del Cirillo pure in lingua latina, lettera che, lamentando la decadenza della dignità della vecchia giurisprudenza romana, attesta di essersi sentita una voluttà non mediocre alla lettura del libro del Duni, per cui, seguendo il libero impulso del proprio sentimento di riguardo all’alta dottrina dell’amico giurista, si esprime precisamente così: Quam ornate, Deus bone, quam composIte, quam subtiliter, omnia per­tractantur!,, L’opera, in un primo capitolo, tratta del diritto sui codicilli da Augusto fino al tempo di Costantino il Grande; il secondo capitolo tratta del diritto nuovo sui codicilli dal tempo di Costantino a Giustiniano, e nell’appendice si confuta l’opinione del Bochmer circa il numero solenne di cinque testimoni.

Come ha pure notato lo Zanella nella succitata opera, se occorre muovere rimprovero agli stranieri, che non mostrano onestà e sincerità di valutazione del vero merito dei nostri illustri pensatori, maggiormente sono da censurare quegli Italiani che si mostrano sempre disposti a deprimere i loro fratelli per esaltare gli stranieri, e che, della loro noncuranza, che è manifestazione di pigrizia, talvolta fanno anche ostentazione assai deplorevole.

Ed è da notare, infine, che, mentre in nessuna Enciclopedia nostrana si fa menzione del giureconsulto Emanuele Duni, in Germania, invece, se ne fa menzione particolare nell’ Allgemeines Gelehrten-Lexikon (“ Vocabolario generale dei Dotti ,,) dell’ Adelung, nel supplemento all’ Jocker.

Se il Duni fu costretto a rintuzzare al Finetti gli insulti, con cui questi animava le sconsigliate sue proposizioni contro il Vico e contro di lui, e che dovrebbero essere alieni dal carattere di uomo onesto, massime di chi professa le lettere; pure essi lo avevano sorpreso a tal segno che lo avevano quasi determinato a non rispondere piuttosto che esporsi xxxxx di trascorrere i limiti della pazienza, e della moderatezza. Non dobbiamo pertanto noi essere mossi a rilevare per questo alcun motivo di censura per un tale sentimento del nostro grande giurista, che, come egli stesso ebbe a spiegare, fu mosso soltanto da gratitudine verso il Vico e dal dovere di difesa verso di sé, giacché chiunque ha diritto di professare veri sensi di onoratezza e di religione non può dispensarsi dal preciso obbligo di vendicare la propria e 1’altrui fama.

 

G. ALFREDO PALAZZO

 

da "la Basilicata nel Mondo" (1924 -1927)
 


 

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