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ERNESTO FORTUNATO
da "La Basilicata nel Mondo" (1924-1927)

Dubitai sembrasse presunzione o, per lo meno, audacia, trattare di cosa, su cui, con l’arte sua semplice e vigorosa, guidata “dalla mano del cuore ,, direbbe Pasquale Mecca (2), ha già scritto Giustino Fortunato (1).

Ma se la stima è un debito verso la virtù, ed un faro per gli uomini di buona volontà, non sembrerà inutile né audace ricordare Ernesto Fortunato nel quinto anniversario della sua morte.

Sei dicembre 1921. Come è triste Gaudiano nel silenzio grigio della nebbia, che affoga gli alberi! Come è triste ed affollata casa Fortunato, nell’indifferente, oltraggioso chiasso di via Vittoria Colonna!

E morto Ernesto Fortunato....

 

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Era nato a Rionero da una delle poche famiglie terriere “immuni da quella infingardaggine di spirito e di cuore e da quel preteso diritto all’infingardaggine (1) ,, che insieme ad una buona dose d’ignoranza e, quindi, di prepotenza, completano purtroppo il cliché del nostro proprietario di terre.

Da tale famiglia, “dal padre rigido e severo, dalla madre mitissima e pia ,, poté essere sottratto all’oziosità volgare dei suoi ricchi conterranei e sortire un animo improntato a laboriosità, e un profondo, virgiliano amore per la terra.

Studiò in un convitto di Napoli e si laureò in giurisprudenza nell’ agosto del 1871. Dopo appena due anni di pratica forense “eccolo, racconta il fratello Giustino, manifestare la intenzione d’incamminarsi per un’ altra via, quella della diretta conduzione delle nostre terre, a cui, in verità, sin dai primi anni lo avevo veduto proclive su 1’esempio del padre, che egli adorava, e per il ricordo degli antenati ,, (1).

Il brigantaggio, le fazioni locali, la malaria rendevano allora presso che inabitabile Gaudiano, loro tenuta sotto Lavello.

Ma Ernesto era nella sua delicatezza un tenace lottatore ed osò, appena ventiduenne, ritirarsi nella solitudine triste di Gaudiano, tutto compreso della vergiliana poesia della campagna, della maestà frusciante delle infinite messi d’oro, spruzzate del rosso dei papaveri rutilanti nella luce del mezzodì, del dolce mistero delle notti stellate, come Kant non trovando di meglio che il cielo stellato e la serenità dello spirito, che viene dalla coscienza del dovere compiuto.

In una lettera (1) al fratello Giustino si rallegrava di riconoscersi nelle parole del pastore di “ Come vi piace ,, di Shakespeare: io sono un onesto, assiduo lavoratore; io raccolgo quel che mangio, guadagno quel che porto, non odio e non invidio la felicità di alcuno, beato del bene altrui, e il mio più grande orgoglio è quello di veder le mie pecore pascolare, i miei agnelli succhiare.

Non dirò dei frutti dell’intelligenza e della tenace laboriosità della sua opera; me ne mancherebbero il tempo e la competenza.

Dirò soltanto che in pochi anni Gaudiano divenne 1’azienda modello della Basilicata, ove, dopo profondo studio tecnico, venivano risolti i più gravi problemi del Mezzogiorno agricolo.

Fu detto che dieci aziende come quella aiuterebbero a trovare la via per il problema meridionale, meglio che mille volumi d’astrazioni.

Gaudiano resta nella storia agricola meridionale come la prima vittoriosa battaglia della preparazione e della laboriosità contro 1’ignoranza e 1’assenteismo.

 

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Ho potuto, citando fatti e cose che hanno parlato in vece mia, tratteggiare in breve, ma con sufficiente approssimazione, 1’opera di Ernesto Fortunato, ma mi sembra molto difficile parlare degnamente del suo carattere, della sua filosofia ultrapragmatica, della sua nobiltà d’ animo.

Se dovessi ritrarre Ernesto Fortunato, gli metterei nelle mani il manuale d’Epiteto e il Vangelo, perché da essi sembra guidata la vita di lui; le mani gliele farei sottili e delicate ad esprimere il suo animo gentile, ma rette da braccia forti e tutte nervi come la sua tenacia e la sua laboriosità; ma gli occhi glieli vorrei fare limpidi e sicuri di giovanile fierezza, come quelli del S. Giorgio di Donatello.

Uomo di fede e di realtà insieme, la bontà sua non era astratta illusione d’ingenuo, che non sa riconoscere la meschina volgarità sotto il manto di una fede e l'interesse mascherato da amicizia, ma era fede di chi sa il mondo e non s’illude, ma che lo guarda troppo dall’alto per esserne guasto.

Aveva come mira bastare a sé stesso e stimare come compenso d’ogni opera il farla ,, come mezzo lavorare per giustificare prima a sé, poi agli altri un possesso che, se ha diritti, ha pure gravi doveri,, (3).

Quale rettitudine, quale nobiltà d’animo!

Eppure Egli, così severo per sé, era blandissimo per le debolezze altrui perché saggio e conoscitore della vita.

Spirava dalla sua parola tale austera bontà, che i contadini lavellesi spesso venivano a lui perché giudicasse e componesse le loro quistioni.

Bella sintesi della sua retta coscienza e dell’animo buono: una modestia dignitosissima, fiera quasi, mi si perdoni 1’espressione: la fierezza modesta dei grandi. Rifuggente da volgari adattamenti e da lodi, odiò la politica e sistematicamente rifiutò tutti gli onori offertigli, dalla dedica di un libro alla nomina a senatore ed a cavaliere del lavoro.

Non è, disse, uno dei modi di servire il proprio paese quello di fare come meglio si può il proprio mestiere? Se tutti ci dessimo attorno e disertassimo le campagne chi più lavorerebbe la terra?

Di un’altra cosa la Basilicata deve essergli grata: aver dato agio al fratello Giustino di gittarsi spensierato ed interamente nel turbinio della vita politica.

Quanta strada percossero insieme i due fratelli, completandosi ed incastrandosi a vicenda con le loro antitesi, due diverse figure di una stessa statua: eminentemente pratico e sicuro 1’uno, senza illusioni e senza speranze dal mondo; profondo pensatore e sempre dubitativo 1’altro, immensamente idealista nel suo pessimismo, nella speranza mirabilmente incrollabile, nonostante le visioni sicure e pessimiste della realtà, d’ un tipo d’uomo e di popolo che, purtroppo, non è, forse, possibile.

“Ed ora, copio dal fratello Giustino, compiuto il terreno ufficio, egli è scomparso, quale visse, La Basilicata nel Mondo,, é infinitamente grata al signor Manfredi Savino, che si rivela delicato e forte scrittore, di averle porta l'occasione di intrattenere i suoi lettori sulla luminosa figura animatrice di Ernesto Fortunato, una delle più pure esistenze di Basilicata nell’ultimo cinquantennio, ora che é caduto, con le prime brume vernali, il quinto anniversario della Sua morte. Grandi, i silenzi di Gaudiano, il deserto malarico, ch’Egli tramutò — miracolo di amore alla Terra madre! in un vergiliano campo di fecondità e di poesia agreste —-avranno ancora una volta accolta 1’anima di Lui, ritornante al suo rifugio verdissimo dal mistero senza limiti della morte. E, novellamente, il canto senza voce della Terra avrò a Lui comunicato, come negli anni della vita e delle opere, il prodigioso segreto della Sua inesauribile fertilità.

È silenzio anche sulle anime. Poi che la morte di Ernesto Fortunato sembra a noi che abbia lasciato incompiuto, un grande poema di amore e di verità. L’amore alla Terra, la Verità semplice della vita semplice. Quale singolare parallelo si potrebbe instituire fra Lui e Giovanni Pascoli! Agricoltore della poesia, che aveva ereditato da Vergilio l’anima innumerevole del sentimento della natura, il poeta di Castelvecchio tornì le strofe prodigiose di una nuova religione umana, nelle quali esala tutto il profumo santo della maternild universale della Terra, fecondata, dal lavoro intelligente e dal sudore degli Uomini, cito e modesto, non timoroso di biasimo e di censure, non desideroso di premii e di lodi, non addolorato di alcun inganno, di alcuna delusione patita.

Ma l’opera sua fiorisce ogni primavera coi mandorli del lembo estremo di Lucania, e sembra che egli ripeta, col fruscio delle messi d’oro spruzzate del rosso dei papaveri, e col vento che scuote gli alberi che egli pianto: non omnis moriar.

Che sull’ali nervose del vento, con il rintocco delle campane che suonano a morto, su per la valle dell’Ofanto ed i pendii del Vulture, possa oggi la sua memoria venire a svegliare i nostri agricoltori e insegnar loro la via.

 

MANFREDI SAVINO

 

da Melfi, il tre dicembre 1926.

 

 

 

 

(1)    Giustino Fortunato. “ In memoria di Ernesto Fortunato Introduzione.

 

(2)    Lettera a G. Fortunato. Da “ Ernesto Fortunato nel secondo anniversario della sua morte ,, pag. 103.

 

(3)    Lettera di Ernesto Fortunato a N. Cilenti. Da un articolo di Nicola Cilenti su “ La Vita ,, di Roma riportato “ In memoria di E. Fortunato,, pag. 37.
 

da "La Basilicata nel Mondo" (1924-1927)

 

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