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GIUSTINO FORTUNATO
da "La Basilicata nel Mondo" (1924-1927)

Quando ti presenti per la prima volta nel suo luminoso studio di via Vittoria Colonna, dove si dà convegno parte de la Napoli intellettuale, la franca stretta della sua mano nervosa ti rivela il battito della sua larga umanità. Anche se sei un ignoto, egli cerca di riallacciare a sé la tua persona con l’estrarre dalla trama lucida dei suoi ricordi un nome o un fatto, che ti sono familiari. Poiché per lui conoscere un’altra anima è fonte di gioia, come lo scoprire un nuovo orizzonte dalla vetta di una di quelle montagne, che la sua giovinezza, innamorata delle solitudini ariose, percorse a palmo a palmo, nei cari giorni lontani.

Poche battute della sua conversazione, agile, arguta, scintillante, ti dicono che sei in presenza di un uomo d’eccezione. La sua parola, a scatti tagliente ed incisiva, scarna e polita, passa, con un agilità sorprendente, attraverso invisibili legami, da una preziosa curiosità storica ad un’acuta osservazione psicologica, da una colorita impressione di viaggio ad una scottante questione politica, da un episodio della sua vita parlamentare ad un compiuto giudizio di critica estetica.

Se anche non conoscessi nulla della sua vita, le linee essenziali della sua personalità ti si farebbero manifeste attraverso la sua parola. Da cui traspare a volte lo schietto realismo che ha permeato tutte le manifestazioni del suo pensiero e della sua azione politica: l’abito del potere critico, che gli ha conferito il senso del limite e l’ha mantenuto gelosamente lontano dalle costruzioni teoriche di programmi; la visione sintetica, assolutamente personale, del mondo e della vita; l’erudizione vasta, organizzata nell’unità viva della cultura; e sopratutto quel suo fondamentale atteggiamento di ribellione ad ogni schema e idolo, che fece di lui un solitario dell’idealismo politico.

Già, la ribellione a qualsiasi freno che non sia quello imposto dalla rigida disciplina interiore, s’annunzia in quei suoi mobilissimi aperti occhi castani, che, sotto la bella fronte spaziosa, mandan guizzi sulla sua magra e ossuta e quasi selvatica faccia d’asceta, incorniciata da una breve barbetta a punta, in cui sembrano riflettersi quelle dure quaresime degli avi, che con tanta frequenza tornano nelle sue commosse rievocazioni del passato.

Tutti i pregi e i difetti gli vennero dalla terra, dove nacque settantacinque anni or sono: da quella malinconica regione del Vulture, cara alla fanciullezza d’Orazio, che protende sugli sterminati piani di Puglia l’estremo sorriso della triste terra di Basilicata. L’aspetto del paesaggio, chiuso in una elementare povertà di linee e di colori, trasfuse nella sua natura fisica un sottile velo di mestizia, che ne adombra anche il sorriso, raro e breve ; e nel temperamento quella tinta di pessimismo, che doveva poi colorire tutti gli orientamenti del suo pensiero. Le idee che gli si svilupparono in forma intellettuale hanno la loro radice in sensazioni originali, sono anzi sensazioni, che si rivelano con segni indelebili. La frugalità, rigidamente osservata pur nell’avita ricchezza, l’austerità della vita morale, l’istinto pratico dell’equilibrio, il calmo orgoglio dissimulato, la sicura pazienza storica son fatte della materia originaria della terra, che perciò stesso ha in lui uno degli uomini più rappresentativi.

Nel suo sangue confluiscono felicemente gli istinti vari degli avi: la pacata tenacia dei rudi agricoltori, discesi intorno al 1720 dai monti del salernitano alle terre di Rionero e di Lagopesole, s’annoda all’aristocratico amore per la cultura ed alle sottili qualità diplomatiche, culminate in Giustino seniore, economista emerito, consigliere della Gran Corte dei Conti col Murat e Ministro delle Finanze e Presidente dei Ministri con Ferdinando II.

Con Torraca, Salandra, Arcoleo fu discepolo di De Sanctis, che commemorò nobilmente alla Camera il 22 gennaio 1884. Dal grande maestro ereditò lo sforzo assiduo di cancellare dalla vita pubblica italiana « 1’uomo del Guicciardini », il torbido uomo fazioso dei Comuni e delle Signorie, retore e scettico, che innalza a vessillo di lotta 1’utile personale, soffocando la voce d’ogni nobile imperativo; e il monito austero, cui tenne inalterata fede, che « la vita è azione, ma solo la dignità è la chiave della vita e la onestà la prima qualità dell’ uomo politico ».

Ma la maestra più vera ebbe nella realtà e nella diretta esperienza della pratica quotidiana.

Fedele a questo ideale di vita, fu sdegnoso e solitario. « Non ebbe l’arte né il costume di volger la vela secondo il vento della popolarità ». Fu anzi da un naturale istinto portato a navigare contro corrente. Alla vita non chiese il successo personale e le vane soddisfazioni dell’amor proprio. Richiesto dal Coppino e dal Genala, rifiutò di andare segretario all’Istruzione ed ai Lavori Pubblici agli inizi della vita parlamentare e parecchie volte declinò, in seguito, il portafoglio di ministro, non per il timore delle responsabilità, ma per non correre il rischio delle inevitabili transazioni: monito solenne agli azzeccagarbugli della politica, che la libidine del potere dispone a mercimoni innominabili. Pochi sentirono più di lui acuta la passione politica, ma nessuno mantenne, nel fervore della lotta, così intatta e costante, una linea di aristocratica contenutezza e di candida serenità da sembrare più uno spettatore che un combattente. A Floriano del Zio, competitore nella sua prima elezione, tributò pubblico omaggio in vita e tessè un nobile elogio in morte il 26 febbraio 1914 al Senato. Il suo accento di sincerità è tale che alla fine del suo primo discorso alla Camera, Petruccelli della Gattina, che l’ha violentemente attaccato nella campagna elettorale del 1880, gli muove affettuosamente incontro e l’abbraccia. Se si decidesse a scrivere la storia del Parlamento dall’80 in poi, ch’egli conosce magnificamente per averla ininterrottamente vissuta, gl’Italiani sarebbero sicuri di venire in possesso della verità obiettiva.

Montò la sua ora di guardia con assiduità ed interesse, ma ebbe pungente « il senso angoscioso della differenza che passa fra ciò che si è concepito e ciò che si è operato ». Come tutte le anime dotate di eccezionale sensibilità, fu tormentato dalla malattia dell’ideale. Per questo, forse, fra tutti gli scrittori, sommamente caro gli è quel Giorgio Federico Amiel, la cui vita fu tutto un dibattersi fra le spire del dubbio e un anelito insoddisfatto verso le conquiste dell’azione e la luce della compiuta verità.

Potè spesso apparire incerto e dubbioso, ma il dubbio, che in lui non fu mai scetticismo, gli rampollò dall’acuto senso critico, dall’abito allo spassionato libero esame e sopratutto dall’accorata passione « per i fratelli di nascita e di patimenti ». La costante fedeltà ad un ideale di politica semplice, fatta di raccoglimento e di restaurazione morale ed economica del paese, in tempi di spagnolismo fastoso, tracotante e finanziariamente allegro, gli procurò il titolo di « apostolo del nulla », di cui andò sempre orgoglioso, comunemente definito un pessimista, ma il suo pessimismo altro non è che disperato amore alla verità, devozione all’essere più che al parere, chiara coscienza delle enormi difficoltà che ancora si frappongono al conseguimento del sognato benessere, doloroso calvario verso la redenzione. Che, se fede è « sostanza di cose sperate », chi più di lui, che ebbe lucida la visione dell’abisso dal quale rinascemmo alla luce della vita nazionale, nutre fede nel genio rinnovatore della razza e nel destino immortale della Patria?

 

Giustino Fortunato sboccò nella politica per le vie della storia, allo stesso modo che dalla storia mosse Croce per giungere alla filosofia. L’ostinata volontà di guardare faccia a faccia la realtà, di vedere le cose come sono e non come si desiderano, risvegliò in lui prepotente il bisogno di volgere lo sguardo al passato. Compreso della stretta solidarietà, che lega i vivi ai morti, ebbe salda la convinzione che non è possibile aver chiara e compiuta coscienza della realtà attuale senza la conoscenza profonda del passato, che non è già qualcosa di fermo e chiuso, ma continuo divenire d’un continuo presente. Se ad una categoria egli appartiene questa è la categoria degli storici, che nella generazione precedente alla nostra ebbe 1’inestimabile merito di reagire vittoriosamente al vuoto astrattismo, alle pretese illuministiche, all’estetismo ed al dilettantismo, dilagante sotto il nostro bel cielo. E' stato uno dei primi in Italia a sentire la storia, come la concretezza stessa della vita, ad avvertirne il suo palpitante attualismo nella dialettica del vero che si fa certo, dell’idea che si attua nel fatto, facendosi strada faticosamente tra le lotte degli uomini, e realizzantesi come progresso all’infinito, ossia come estrinsecazione di forme di vita, sempre più ricca e complessa generantisi le une dalle altre e gradatamente implicantisi e superantisi. Tutto il suo sforzo per intendere la realtà della vita italiana si può dire che si concentrò nella ricerca delle sue vicende storiche. La chiarezza con cui piantò in maniera forse definitiva i termini della questione meridionale è frutto di questo acuto senso storico, che in fondo è un sentirsi espressione concentrata del passato. Guardando la mole delle sue ricerche attraverso « i polverosi ignorati archivi », ci si domanda se nel suo corpo mingherlino non riviva l’anima d’ un di quei benedettini, che nel basso medioevo appassionatamente sprigionarono dalle ingiallite pergamene la luce di Roma e d’Atene. Specialmente a scoprire l’anima ignorata della sua terra fu diretta questa fervorosa volontà di ricerca. Se amore è anzitutto conoscenza, più alta prova di filiale devozione non poteva egli darle.

Valgano per tutti: Avigliano nei secoli XII e XIII; Due iscrizioni del secolo XII; Una Raccolta epigrafica; Riccardo da Venosa e il suo tempo e sei volumi di notizie storiche sulla Valle di Vitalba: I feudi e i casali di Vitalba nei secoli XII e XIII — Santa Maria di Vitalba —Santa Maria di Perno Rionero medioevale Il castello di Lagopesole La Badia di Monticchio, che saranno completati da i Durazzeschi ad Atella ed Atella feudale. Volumi stampati in pochi elegantissimi esemplari fuori commercio, ormai introvabili, in cui la critica rigorosa del documento è a tratti vivificata da un soffio di poesia.

Come introvabile è il magnifico volume di Scritti vari, edito dal Vecchi di Trani, dove, sotto il titolo I morti di Picerno, si parla dell’ eroica difesa da questo paese opposta nel 1799 alle orde della restaurazione borbonica con i nomi delle vittime, fra cui i gloriosi fratelli Vaccaro; .e sotto l’altro: I Napoletani del 1799 si trova per la prima volta un elenco completo delle vittime di quel terribile anno in Napoli; così come nel discorso detto a Potenza il 20 settembre 1898 per 1’inaugurazione delle lapidi ai martiri della Patria accertò, pel primo, i nomi dei basilicatesi caduti, nel secolo, per la patria.

In questo volume si trovano anche alcune Belle descrizioni dell’Appennino meridionale, ch’egli, per rendersi diretto conto di tutto intero il nostro Mezzogiorno, obbietto precipuo della sua attività di studioso e di uomo politico, percorse in lungo e in largo dagli Abruzzi alle Calabrie, con escursioni a piedi, che costituirono la più intensa gioia del suo spirito, sì da fargli al termine delle sue peregrinazioni,  in una sera nebbiosa, sull’estremo Aspromonte, esclamare con profonda tristezza: « Che farò ora nella mia vita? »

E sono riprodotte altresì le più interessanti fra le corrispondenze da lui inviate a quella Rassegna settimanale, che, fondata da Franchetti e Sonnino, agitò i più interessanti problemi della vita nazionale intorno all’ ‘80 con l’intento di far seguire agli entusiasmi parolai e giacobini della prima ora tutta un’opera di ricostruzione morale ed economica del paese. Nelle quali è un’acuta e coraggiosa diagnosi dei mali che affliggevano fra il ‘70 e 1’ ‘80 la vita pubblica della città di Napoli, e che, a quasi cnquant’anni di distanza, è sotto molti aspetti viva di palpitante attualità e può essere ancora consultata con interesse, nonostante l'innegabile miglioramento delle condizioni igieniche e sociali di questo pletorico e tumultuoso cuore del Mezzogiorno.

Ma gli studi, cui il Fortunato legherà la sua fama di storico e di economista sono: La questione demaniale nell’ Italia meridionale (1879) e I monti frumentari nelle Province Napolitane (1880).

Il primo è uno studio, meraviglioso di chiarezza e precisione, sui precedenti storici della questione, nel quale, fissato il carattere fondamentale del nostro feudo come semplice usufrutto, conceduto dal principe al barone, soggetto, iure servitutis, a diritto di condominio in pro’ dei cittadini, è delineato il progressivo prevalere del diritto civile sulla struttura politica del feudo per opera dei giureconsulti nostrani, che venuti in grande fama sotto i vicerè spagnuoli, fecero una strana difesa dei diritti del popolo e più tardi, con la restaurazione della monarchia, riuscirono a strappare il memorabile editto del 1792 e indi la legge del 2 agosto 1806, abolitrice della feudalità, con la conseguente instituzione di quelle Commissioni feudali, le cui decisioni sono capolavori di civile sapienza.

Su questo tema tornerà poi alla Camera, nelle sedute del 2 dicembre 1880, e 19 dicembre 1881, in sede di discussione del bilancio di Agricoltura.

Parimenti interessante è lo studio sui Monti frumentari, che prende occasione dai decreti reali, concedenti facoltà ai Comuni di trasformare queste istituzioni in Casse di risparmio e di prestanza. Fa la storia dei nostri Monti, aventi lo scopo, a differenza di quelli dell’alta Italia, di prestare sementi ai contadini a modico interesse, coll'intento di svellere 1’usura, e che ben presto si ridussero ad un mero nome per le malversazioni degli amministratori, specialmente dal ‘60 in poi. Su questo argomento egli ritornerà alla Camera il 15 giugno 1880, per invocare dal governo un’energica opera di rivendicazione del patrimonio originario.

 

Armato di questo solido bagaglio culturale, forte della sua verginità spirituale, immune da ogni contagio di partito e di setta, Giustino Fortunato entra, con giovanile impeto, alla Camera, poco più che trentenne, nel maggio dell’80, per restarvi, senza interruzione, un trentennio, dalla XIV alla XXII legislatura, costantemente rieletto dal suo collegio di origine e passare poi al Senato.

Appena s’affaccia alla vita pubblica intuisce la illogicità e falsità della divisione dei partiti parlamentari in Destra e Sinistra. La funzione dei due vecchi gloriosi partiti era ormai esaurita. La Destra ci avea dato unità di eggi e di organamenti, liberandoci con un’austera finanza dal disavanzo, che minacciava il fallimento. La Sinistra ci avea dato una delle più perfette leggi elettorali d’Europa ed aveva abolito, col macinato, la più esosa tassa di consumo, e, col corso forzoso, la più gravosa tassa di circolazione. D’allora in poi le due denominazioni rimangono vuote d’ogni serio contenuto e non rappresentano che un equivoco. La Destra non è che il resto delle alte classi aristocratiche e capitalistiche dell’Alta Italia, seguaci della politica unitaria di Cavour. La Sinistra, pletorica, un’accozzaglia variopinta: all’estrema i democratici, al centro la borghesia industriale e professionale della Alta Italia, e, tra il centro e l’estrema, la cosiddetta Sinistra storica, formata in gran parte di proprietari terrieri ed avvocati del Mezzogiorno, di null’altro desiderosi che d’acciuffare il potere e di arrotondare la cifra dei propri affari. A battere in breccia l’equivoco di questo nome, a rompere questa falsa incrostatura che aduggiava la nostra vita politica, è volto il primo impeto del battagliero deputato lucano, il quale, nei suoi primi discorsi : La dissidenza e le elezioni del 16 maggio 1880; I partiti storici e la XIV legislatura; Il trasformismo e le elezioni del 29 ottobre 1882, afferma la necessità di una netta distinzione dei partiti, nel senso che la Destra diventi realmente un partito conservatore e la Sinistra acquisti la fisionomia di un partito sinceramente democratico. Fra questi partiti, muoventisi entrambi nell’orbita della costituzione, altra logica differenza .non può intercedere se non una diversa maniera di concepire l’azione dello Stato di fronte al cittadino. Chi nei rapporti della vita sociale propugna il libero gioco delle forze individuali, circoscrivendo l’attività dello Stato alle funzioni strettamente politiche, è conservatore o moderato; chi, avendo poca fede nelle iniziative individuali e nelle armonie economiche, affida allo Stato attribuzioni d’indole sociale, è democratico o progressista. Egli si dichiara senz’altro liberale progressista e siede al Centro sinistro: convinto, anzi, che un paese come il nostro manchi d’ogni presupposto per lo sviluppo delle libere iniziative, non teme di apparire un vero socialista di Stato. In coerenza di tali idee, è favorevole al Ministero De Pretis; vota le convenzioni ferroviarie, non perché fautore dell’ esercizio privato, ma perché le ritiene passaggio necessario all’esercizio di Stato; dà il suo entusiastico assenso alle leggi sul lavoro delle donne e dei fanciulli e sugl’infortuni e a tutti i provvedimenti che affermano il compito di tutela dello Stato.

Ma il contatto più vivo della realtà sociale e politica del paese, moralmente ed economicamente debole, e sopratutto i tristi casi del ‘98 l’obbligano, dopo un ventennio di fedeltà a queste idee, a mutare strada. - La persuasione della radicale incapacità dello Stato a diventare creatore di potenza e produttore e distributore di ricchezza fa rinascere in lui la fede nell’ individualismo e trasforma il socialista di Stato in uno schietto conservatore. Nel discorso di Melfi del 30 ottobre 1904 : La XXI legislatura e le pubbliche libertà, annunzia pubblicamente la sua conversione.

Luminosa conferma della fondamentale qualità del suo spirito, consistente in un acuto e vigile senso realistico, in una fedeltà assoluta alla propria diretta esperienza. I fatti possono abbozzargli un accenno di schema o di programma, ma quando un più approfondito esame della realtà ne rivela l’inadeguatezza, egli non esita a mandare in frantumi schemi e programmi. Come a tutte le Chiese, è ribelle a tutti i Pontefici. Favorevole al Ministero, vota contro la proposta Baccelli di autonomia degli istituti universitari. L’amicizia politica e personale con Zanardelli non gl’impedisce di parlare e votare il 1 7 febbraio ‘90 contro il suo disegno di legge che vuole abolire 600 preture. E non sono questi i soli casi in cui afferma la sua netta indipendenza.. Per lui non esistono vincoli di partito o pregiudiziali politiche di sorta: non c’è che il problema nei suoi crudi termini realistici. Chi ne voglia le prove, legga i suoi discorsi elettorali (pochi uomini politici furono così scrupolosi nel rendere conto della propria opera e dei propri propositi). « Il problema economico e la XVI legislatura », in cui fa un esame completo e preciso delle condizioni economiche della nostra provincia ed avvisa ai rimedi, che sintetizza nel produrre più, consumare meno, risparmiare molto, tornare alla pastorizia e alla coltura arborea, modificare i patti agrari, chiamando i coloni alla diretta partecipazione dei prodotti.

« La XVII legislatura e la Finanza dello Stato », in cui parla dell’ urgenza del riassetto del bilancio in forte disavanzo per le spese militari e l’assestamento ferroviario; La crisi bancaria e la XVIII legislatura, dove riprende il tema del mirabile discorso pronunziato alla Camera il 25 giugno 1893 contro il disegno di legge per il riordinamento degli Istituti di emissione, a seguito della crisi bancaria, culminata nello scandalo della Banca Romana, e si dichiara convinto fautore della Banca unica di emissione, gettando l’allarme contro la minaccia del ritorno al corso forzoso; « La XIX legislatura e il problema coloniale », in cui, prendendo le mosse dal disastro di Adua (di cui commemorò poi i morti nel nobile discorso di Potenza del 6 Maggio 1900) sostiene vigorosamente che l’Africa non ha per noi valore diretto ed immediato fuori del Mediterraneo e che l’unico punto, al quale l'Italia deve aver l’occhio fermo, è la costa settentrionale di quel continente, e propriamente la Tripolitania, perché connessa alla sicurezza strategica della penisola e alla libera navigazione del suo mare: tema questo, che, insieme allo altro della politica estera in genere, è strettamente connesso alle spese militari di terra e di mare, su cui il Fortunato ha spesso, con precisa competenza, interloquito alla Camera (4 maggio 93, 5 dicembre 95, 4 maggio 97 e 23 maggio 901)con discorsi che, pur propugnando la prevalenza della marina sull’esercito, perché, secondo il presagio di Napoleone, o 1’Italia sarà una potenza marinara o non sarà, dimostrano 1’impossibilità per un paese povero come 1’Italia di un grande sviluppo degli armamenti e la conseguente necessità di una politica estera prudente e avveduta e finalmente « Il regime parlamentare e la XX legislatura » nel quale dopo essersi intrattenuto sulla crisi parlamentare, si schiera decisamente per « la libertà e per la legge contro lo sperpero e contro il favore ».

Non v’è problema della vita pubblica italiana di cui egli non si sia interessato ed alla soluzione del quale non abbia apportato un contributo serio ed originale. Per avere la nozione della visione integrale ch’egli ebbe delle quistioni politiche nella loro inscindibile unità, e sopratutto della organicità dei principi cui si è sempre informata la sua attività pubblica, basta leggere la sua lettera di congedo agli amici del collegio di Melfi (7 marzo 1909) : « I servizi pubblici e la XXII legislatura », che si può chiamare il suo testamento politico. In essa s’ intrattiene sulla riforma tributaria, difende l’esercizio ferroviario di Stato, esamina il grave problema della riforma amministrativa, facendo una acuta diagnosi della piaga burocratica, nella quale mette in rilievo il nesso indissolubile fra il proletariato intellettuale e il funzionarismo, escrescenza parassitaria di un organismo debole e malato; constata dolorosamente che dalla conversione della rendita, il maggior fatto compiuto in Italia dopo la unificazione politica, non si è tratto alcun vantaggio, in quanto che non si è neppur tentata l’auspicata riforma tributaria e specialmente noi del Mezzogiorno ci siamo lasciati sedurre dal falso miraggio delle leggi speciali, fondamentalmente errate, giacché non di abbondanti lavori pubblici, né di generose elemosine abbiamo bisogno, ma di sgravi e liberi commerci per 1’incremento della nostra produzione; espone le sue idee in materia di riordinamento della scuola e di politica ecclesiastica; esamina il movimento operaio, mostrandosi fautore della collaborazione di classe; in politica estera è favorevole alla Triplice, convinto ch’essa ha assicurato trent’anni di pace all’Italia, la quale, economicamente stremata, militarmente e spiritualmente impreparata più di qualunque altra nazione, di pace ha bisogno. Questa convinzione è in lui così profondamente radicata, che, allo scoppiare del conflitto europeo nel 1914, non esita a dichiararsi per la neutralità assoluta, timoroso che la partecipazione alla guerra, ch’egli previde lunga più di quanto comunemente s'immaginava, avrebbe posto a repentaglio l’avvenire e la vita stessa del paese. Ciò non tolse però che, avvenuta la dichiarazione di guerra, egli sentì essere « l’atto di sottomissione della coscienza semplicemente « un dovere, il più sacro dei doveri verso sé e la Patria, « così da credere perfino di avere errato ». E sta a dimostrarlo l’opera altamente patriottica spesa dal 914 al 917, specialmente in favore dei suoi conterranei.

Si può non convenire, come non conviene chi scrive, nell’atteggiamento del pensiero, di quest’uomo in ordine alla guerra — e qui non è il caso di dirne le ragioni, in questo scritto, che si propone di tracciare obbiettivamente le linee di una personalità — ma non si può non riconoscerne la profonda lealtà e buona fede.

A guerra finita, egli, pur riconoscendo che lo Stato italiano usciva saldo e vittorioso dall’ardua prova, sentì il bisogno in un opuscolo « Dopo la guerra sovvertitrice », di manifestare tutta la sua amarezza per la delusione della pace democratica e per il profondo collasso sociale e morale, nel  quale era caduto il paese, in balia della più tormentosa irrequietezza e del più aperto spirito di rivolta in tutti i ceti sociali.

Ma l’attività multiforme dello studioso e dell’uomo politico, che a prima vista può sembrare slegata e frammentaria, ha un unico filo conduttore, che la guida e l’anima: la volontà diritta ed ostinata di piantare nel cuore della Nazione l’assillo della questione meridionale. Ecco il problema massimo, attorno a cui s’intrecceranno, con direzione convergente, come raggi verso il centro di una sfera, tutti gli altri problemi, che lo storico cercherà d’illuminare con le pazienti e minute ricerche, che l’economista e il politico cercheranno con ogni sforzo di avviare alla soluzione, che 1’uomo sentirà appassionatamente, come una tragedia spirituale. Ecco il duro metallo incandescente, che il fabbro insonne batterà infaticabilmente sull’incudine della pubblica indifferenza col maglio formidabile della sua volontà e del suo amore disperato. Su questo problema, dopo le prime ventate dello sterile giacobinismo parolaio, che seguì alla rivoluzione, si erano affaticati valentuomini come Villari, Sonnino, Franchetti, che, solleciti della restaurazione economica e morale del paese, ne avevano intuito la natura squisitamente politica. Ma Fortunato è stato il primo, secondo osservò Croce nella sua recensione a « Il Mezzogiorno e lo Stato Italiano », a sentirlo « in tutta la sua grandezza ed asprezza » a porgerlo « in una forma scientificamente precisa e letterariamente perspicua », a farne di « un’ isolata preoccupazione e quasi una fissazione individuale una preoccupazione nazionale ». (Quello che noi citiamo è naturalmente l’antico Croce e non il nuovissimo, che nega 1’influenza delle condizioni naturali nella storia dei popoli in modo assoluto, facendosi evidentemente pigliar la mano dalla sua filosofia, per cui la natura è mero prodotto dello spirito).

Prendete tutti i suoi discorsi, anche quelli d’indole prettamente politica (es: quelli parlamentari del 25 maggio ‘81 contro l’allargamento limitato del voto, 21 gennaio ‘82 contro le leggi d’eccezione in materia tributaria e gli altri in tema di politica estera e coloniale) e vedrete che il Mezzogiorno ritorna insistente, come il leitmotif di una sinfonia e costituisce 1’humus nel quale si affondano tutte le radici del suo pensiero politico. E' tale la precisione con cui ha visto i termini della quistione, tale la passione con cui l’ha vissuta, che, giunto al compimento della sua fatica, egli scrive che ormai la verità conquistata « si conclude con l’evidenza di un teorema euclideo ». Questo teorema, con i diretti corollari che ne derivano, è scolpito con sintesi meravigliosa di rigore scientifico e di eleganza letteraria in quel capolavoro che è « La quistione Meridionale e la riforma tributaria ».

C’è fra il Nord e il Sud della penisola una grande sproporzione « nel campo delle attività umane, nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione, nelle tradizioni, nelle consuetudini, nel mondo intellettuale e morale » . A che cosa è dovuta la inferiorità del Mezzogiorno? Sopratutto alla sua geografia. Esso è un paese, che il clima e il suolo da un lato, e la condizione topografica, dall’altro, condannano inesorabilmente alla miseria economica e morale. La geografia ne spiega la storia, costantemente diversa in tutte le manifestazioni della vita sociale e politica da quella dell’alta e media Italia. Mentre là fiorisce il Comune, vessillo di libertà, levato dal terzo stato contro il feudo e primo nucleo della società capitalistica moderna, qui, da noi, permane presso che immutata l’organizzazione feudale, anche quando il feudo, politicamente prima, giuridicamente poi, tende altrove a sparire. Le cause e gli effetti del fattore naturale s’intrecciano così strettamente con le sorti politiche del paese da non poter essere distinte, ma tutte insieme sono tali da impedire la graduale trasformazione del suo popolo.

Raggiunta 1’unità politica, i nostri governanti si illudettero d’aver conseguita anche 1’unità economica e morale. Non avendo alcuna precisa nozione del passato ed alcuna chiara visione del presente, credettero, anzi, che il Mezzogiorno si trovasse in condizioni naturali più favorevoli, e, favoleggiando d’un giardino delle Esperidi, lo sfruttarono con una finanza cieca e rapace, che ne intristì sempre più l’agricoltura immensamente estensiva e gl’imposero la più sordida legislazione doganale, che non gli permise mai di chiudere le sue annate in avanzo e, tenendo alto il prezzo del denaro, ostacolò lo sviluppo del lavoro e 1’incremento del pubblico benessere. La sperequazione tributaria, tanto nelle imposte quanto nei dazi di confine è stata per il Fortunato la causa principale che ha impedito il risorgere del Mezzogiorno, il quale in politica ha sempre viaggiato accanto all’altra parte d’Italia, come un vaso di terra cotta accanto ad uno di ferro. Cadute le prime illusioni della unificazione politica, è presto incominciato il disagio spirituale, che in certi momenti ha assunto un allarmante carattere antiunitario.

Oggi, pur riconoscendosi che una imprescindibile fatalità alla separazione non esiste, è diffusa la convinzione che impossibile è la vera fusione spirituale del paese, finché una notevole parte di esso sia affetta da atrofia. Il principale errore commesso dai valentuomini che si succedettero al governo dal 60 in poi fu l’uniforme trattamento legislativo a parti del territorio nazionale profondamente diverse. Spetta alla generazione venuta dopo il 76 il merito d’aver iniziato indagini e distinzioni che hanno posto nei veri termini la questione Meridionale, ed in questa generazione il primo posto compete indubbiamente al Fortunato.

Per lui, sistema tributario e regime doganale sono le due indispensabili pregiudiziali del tormentoso problema. Il trattato di commercio del 63 con la Francia, rinnovato nell'81, avea assicurato ai nostri prodotti agricoli larghi sbocchi sui mercati esteri, ma la denunzia anticipata di un quadriennio stolidamente voluta da noi stessi meridionali nell’87, e l’aspra guerra di tariffe seguitane, recarono un grave danno all’economia del Mezzogiorno con rilevanti perdite del nostro capitale circolante. S’ebbe una parziale riparazione coi successivi trattati con l’Austria e la Germania e i negoziati con la Francia, ma le cose si aggravarono con la tariffa generale dei dazi doganali del 21, che il Fortunato definisce « vero nodo scorsoio alla gola del consumatore, la spregiata folla anonima di cui è fatto tutto quanto il popolo meridionale ».

In ordine alla quistione tributaria, Pantaleoni e Bovio avean dimostrato di quanto la minore ricchezza del Mezzogiorno sopportasse un maggior carico tributario. Nitti aveva, con larghi dati statistici, confortato le acute osservazioni di Colaianni e Ciccotti e, con una serie di pubblicazioni, dimostrato, che, anche in via relativa, il sistema tributario vigente era sfavorevole al Mezzogiorno, distruggendo la leggenda che qui si pagassero poche imposte e si avessero grandi ricchezze. Ma il Fortunato ebbe il precipuo merito di dimostrare 1’inesattezza dell’affermazione dell’essersi il Mezzogiorno nel 1860 trovato in condizioni migliori delle altre parti della penisola. Leggenda che le imposte fossero poche, che il demanio fosse fiorente, che il debito pubblico fosse tenue e che la grande quantità di moneta metallica costituisse 1’indice della sua ricchezza. La verità è che, se noi meridionali nulla abbiamo guadagnato dall’unità, nulla abbiamo perduto. Dopo 1’unificazione, il Mezzogiorno non solo non decadde, ma si riebbe e meglio si sarebbe riavuto se non fosse stato afflitto dalla piaga del brigantaggio. La sua economia primitiva, in cui mancava la divisione del lavoro e rudimentali erano gli scambi, vide aprirsi nuovi mercati, aumentare la produzione agricola, crescere i prezzi dei prodotti, intensificarsi i traffici e nonostante la dissipazione dei capitali nella compera dei beni ecclesiastici e nell’ investimento bancario, accrescere i suoi depositi in cartelle di rendita pubblica. Il Mezzogiorno entrò a far parte della nuova Italia assai meno ricco e progredito delle altre regioni e la cieca politica livellatrice dello stato unitario contribuì a non fargli superare la distanza originaria.

Il Fortunato dimostra come 1’alta e media Italia, con tre quarti dell’annuo reddito nazionale, pagano poco più di due terzi di tributi e l’Italia meridionale con un quarto del reddito paga un terzo di imposte. La proprietà fondiaria risente da noi in modo assai più duro il peso dell’ imposta, oltre che per la povertà della terra, per il debito ipotecario che la grava, il quale viene a caricarla altresì della ricchezza mobile. Più gravosa ancora riesce 1’imposta sui fabbricati per il fatto che i tuguri dei nostri contadini, agglomerati nei centri cosiddetti urbani, non sono considerati rurali e quindi esentati al pari delle eleganti cascine dell’alta e media Italia. Fonte di sperequazione è altresì 1'imposta di ricchezza mobile per il maggior numero presso di noi di piccole fortune e di prestiti fruttiferi ad alto interesse, indice di miseria, e per la più facile accertabilità dei redditi professionali, più limitati e più esigui e per il minor movimento cambiario e il più ristretto possesso di titoli a latore che sfuggono alle imposte. Il Mezzogiorno paga inoltre più tasse sugli affari a causa della prevalenza della ricchezza immobiliare, che non può negli scambi e trapassi sottrarsi alla imposta. Finalmente le tasse sui consumi sono egualmente più gravose da noi, dove il meschino reddito dei fondi è già dilapidato dalle imposte ed ogni ulteriore carico sui consumi, che non siano di lusso, si risolve in un vero tributo sulla fame.

Quale il rimedio a questo insopportabile stato di cose? Unico rimedio, una riforma, che alla babele tributaria sostituisca un’unica imposta sul reddito.

Il Mezzogiorno, che vive della sola agricoltura, non può sperar salute, se non da una riduzione di imposte, secondo equità e ragione. Riduzione d’imposte e aumento di capitale circolante: ecco i due termini correlativi per il rifiorire della nostra agricoltura. Questa la grande verità, che, vigorosamente proclamata da Fortunato, resta in maniera definitiva acquisita alla coscienza di quanti hanno una esatta cognizione del problema meridionale. Ma tutto sarà vano, secondo il Fortunato, finché non si metta termine ad una politica fastosa e spendereccia, che dissipa i sudati e sacri risparmi dell’eroico contribuente italiano in conseguimento di fini non utili alla collettività: lavori pubblici eccessivi e costosi, speculazioni bancarie ed edilizie, aumenti agli impiegati, sovvenzioni alle organizzazioni impresarie ed operaie.

 

Nessun figlio ebbe per la madre tanta accorata tenerezza e un così pungente desiderio di apportarle sollievo, come Giustino Fortunato. L’ immagine della terra desolata, che gli diede i natali, è alla radice dei suoi pensieri, cobra tutti gli atteggiamenti della sua vita spirituale, anima le sue ricerche, dà impulso ai suoi propositi di riscossa, è l’experimentum crucis della sua passione. Per impossessarsi dei precisi termini della questione meridionale, egli non ha bisogno di andare oltre la cerchia dei suoi brulli monti, gli basta contemplare il volto triste della sua terra, « in cui tutte le miserie e tutti i bisogni del mezzogiorno agricolo raggiungono il più alto grado d’intensità patologica, ne sono come lo specchio ed offrono allo studioso sia le cause, sia gli effetti del generale suo abbandono ». L’attività, quindi, da lui spesa per l'intero Mezzogiorno deve ritenersi dedicata anche alla Basilicata, e poiché questa attività fu l'intera attività della sua vita di studioso e di uomo politico, si può dire che non vi è attimo del suo respiro ch’egli non abbia consacrato alla sua terra.

A dimostrare, poi, come, oltre agli interessi generali, egli abbia tutelato anche particolari interessi regionali, stanno i suoi discorsi parlamentari per la strada nazionale lungo il Vulture, per l'istituto tecnico di Melfi, per la nuova circoscrizione del Comune di Atella, per la frana di Campomaggiore, per la strada vicinale da Rionero a Monticchio, e quelli importantissimi per le ferrovie Ofantine, per le leggi sulla bonificazione dei terreni paludosi e sul chinino. E prova del suo amore per il luogo d’origine è 1’asilo infantile di Rionero, da lui instituito, accanto a quello di Lavello, creato in memoria del defunto fratello Ernesto, verso cui egli ebbe una sconfinata tenerezza.

Ma il suo maggior titolo di benemerenza è quello di aver indotto il vecchio Zanardelli, di cui godè sempre la più alta stima e l’amicizia più affettuosa, a compiere un faticosissimo viaggio nella nostra regione, da cui ci venne quella legislazione speciale che purtroppo ha dato così scarsi frutti, un po’ per colpa degli uomini, un po’ per colpa degli eventi. Certo, egli non s’illuse che una legge potesse dar salute e ricchezza ad una regione economicamente stremata, anzi non esitò a manifestarsi a quella legge, come a tutte le altre leggi speciali, nettamente contrario. Ma nessuno potrà negare che un centinaio di milioni per i lavori pubblici e notevoli sgravi ed esoneri di tasse, come quella sul bestiame, un certo benefizio non abbiano apportato.

Le tracce di questa sua attività nel particolare interesse regionale si trovano in « Pagine e ricordi parlamentari » edito dal Laterza.

 

Questo vigoroso pensiero politico sgorga e si snoda nelle eleganti volute di uno stile di classica austerità e di trasparenza cristallina, vivido ed assolutamente personale. Com’è in Arcoleo, come in Salandra, anche in Fortunato la scuola di De Sanctis lascia tracce sensibili: affina il gusto e desta l’amore per la bellezza. Ma, mentre in Arcoleo lo stile scatta, con moto quasi uniforme tra paradossali contrasti alla ricerca dell’effetto oratorio e spesso si perde negli spumosi merletti d’una scintillante retorica; mentre in Salandra si veste di drappeggiamenti solenni ed obbedisce, nel giro di periodi troppo rotondi e sonori, alla disciplina d’una legge ritmica, di cui è facile cogliere il segreto; in Fortunato corre, rapido e mosso, accidentato di spezzettature e frastagliamenti, agile e nervoso, scarno e martellante, di null’altro sollecito che della perfetta aderenza alla cosa. Sembra che le parole le pigli, a volta a volta, da un suo lucido scrigno, gelosamente custodito; non una di più, non una di meno e quella che mette è la necessaria ed al suo posto conveniente, né più in qua, né più in là. E' difficile imbattersi in una oratoria più nuda e sostanziosa, più aristocratica, più schiva di lenocini e di fronzoli della sua. C’è nello stile tutto l'uomo con i suoi scatti improvvisi, con i suoi istinti di ribellione, con lo schietto ansioso realismo e l'indomito odio per la bolsaggine retorica.

Privilegiata natura di uomo, che i piedi ha saldamente posati su una gran base granitica e l’occhio fisso al palpito delle stelle lontane; che sembra un freddo indagatore di verità ed è un appassionato amante della bellezza; che, mentre ti conduce per certi sentieri, irti di fatti e di cifre, improvvisamente ti solleva alle cime ariose della poesia. Singolare realista, che, mentre crede nella politica, da lui definita l’arte di proporzionare i fini ai mezzi e s’affanna a propugnar riforme, da cui spera risultati pratici, finisce col confessare, idealisticamente, col suo Amiel, che le istituzioni non valgono che ciò che vale 1’uomo che le applica e che la sola riforma possibile e degna è quella di migliorare 1’uomo, rendendolo giusto, morale, onesto. Strano storico, che, mentre rileva scientificamente l’orografia d’una regione, si ferma improvvisamente a descrivere l’eterno miracolo della nascita del sole e interrompe la narrazione delle vicende di una badia per abbandonarsi all’onda di un accorato misticismo. Eccezionale economista, che, dopo una secca esposizione di dati e di numeri, invoca, con accento appassionato, l’autorità di un filosofo o il verso di un poeta; che, mentre si occupa della riforma tributaria, traduce « Le lettere da Napoli » del Goethe e le pagine del Lenormant sul Melfese. Straordinaria figura di combattente, che, giunto al culmine della sua giornata operosa, s’apparta dal fragor della mischia, e più non udendo gli effimeri brusii del mondo, l’orecchio tende solo alla voce eterna dell’arte, che gli rasserena il cuore e traduce le odi del « vicin suo grande », e scrive « Rileggendo Orazio ».

Delizioso viaggio, questo, che il suo giovane spirito, chiuso nel corpo affranto, sulla traccia del più umano fra i poeti della classicità pagana, compie lungo i perduti giorni, per i cari luoghi che più non vedrà. Che — non so come — mi richiama uno dei più gustosi poemetti latini del Pascoli — il Moreto — , in cui, giunto ad un podere di Mecenate in compagnia di Virgilio, nell’ora in cui i contadini staccano i bovi, il Venosino, ormai vecchio e stanco, alla vista della campagna aprica, beve lentamente « sollicitae iucunda oblivia vitae », e, nel soave abbandono, rivede il natio Vulture lontano, popolato dei felici ricordi della fanciullezza.

Chi alla lettura di questo scritto, armonicamente inquadrato in una severa linea di classicità, variegato di saporose curiosità erudite, sprizzante di fine humour, ricco di profondità meditative, pervaso del senso augusto della romanità sur uno sfondo di appassionato lirismo nostalgico, che ne costituisce il fondamentale motivo sinfonico, qua e là affiorante al sommo, non si chiede se lo storico austero e il politico realista non sia piuttosto un poeta, o un sottile notomizzatore di fantasmi poetici? Quale più nobile conclusione d’una vita fervida e battagliera di questo abbandonarsi alla fresca e riposante letizia dell’arte classica, ch’egli incisivamente chiama: « inesprimibile rifugio di pace e di ristoro ? » Non esso è 1’indizio più sicuro della tranquilla coscienza del dovere compiuto?

Un giorno, dedicando gli « Scritti vari » al fratello di Goffredo Mameli, che gli fu amico affettuoso e devoto nei primi anni della vita politica, egli scriveva : « Ed oggi io mi domando: ho io durante questo ventennio adempiuto il mio dovere con cura assidua e gelosa, senza secondi fini, senza mezzi termini ? Ho io votato sempre, ho sempre io parlato come la coscienza mi dettava dentro, e null’altro, guardando in viso la verità qual ch’essa sia ? ».

Ebbene sì, Maestro: il vostro compito l’avete assolto magnificamente. E noi giovani della vostra terra, che alla vostra nobile vita guardiamo come ad un faro, sappiamo che il miglior modo di onorarvi non è di tributarvi lode, ché di questa voi siete sdegnoso nella solitaria fierezza, bensì quello di raccogliere la fiaccola che dalle vostre mani ci viene commessa e di scavare un più profondo solco di verità col mirabile strumento di lavoro, che, con l’assidua fatica e la disperata passione, ci avete costruito nel più lucido e durevole bronzo.

 

GIUSEPPE BR0NZINI
 

da "La Basilicata nel Mondo" (1924-1927)

 

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