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un ricordo ...una speranza

Sono ormai quasi cinquanta anni da quando nel settembre del 1961 salii su un treno alla stazione di Foggia per raggiungere Milano.
Pensavo di fare solo un viaggio di piacere e di dover tornare di lì ad una settimana, al più 10 giorni, ma haimè, tranne che per pochi giorni ogni tanto, sono qui in Milano, dove esercito la professione di Avvocato, spero con qualche successo, ma certamente con onore.
Ma il pensiero spesso con velocità estrema corre in quelle strade, ora asfaltate, ma un tempo polverose d’estate e fangose di inverno; mi rivedo bambino sgambettare sullo spiazzo che sta lì dove la via Cavour si biforca con la via Garibaldi; rivedo i volti oltre che dei miei genitori, dei vicini di casa. Solo i più avanti con gli anni ricorderanno il gruppo che nei pomeriggi estivi, passata l’ora della pennichella si formava sotto l’albero che era proprio lì d’avanti al piazzale; c’era Tonino detto “umpstor”, un uomo che per l’epoca era un gigante,si diceva che avesse fatto anche pugilato, anche se, sembra, con scarso successo; c’era poi il fratello dello stesso “Caniuccio”, c’era Ciccillo Savino detto “La Frrar”. A questo nucleo pressoché fisso si aggiungevano occasionali personaggi che si trovavano a passare di lì ed ai quali veniva offerta una sedia.
I soliti discorsi: che caldo terribile, diceva uno, sì ma ieri era più afoso faceva eco un altro.
Altro capannello in via Garibaldi all’altezza del civico 5 ; lì faceva casa e bottega lo zio Clemente , uno dei più abili artigiani nella confezione di guarnimenti per cavalli ed altre bestie da tiro e da soma. Lì davanti il gruppo era più numeroso , non vi era cliente che non si fermasse a gustare un bicchiere di vino prodotto dallo zio Clemente e si parlava di tutto: lì ho sentito parlare della seconda guerra mondiale, i primi commenti sull’operato di Hitler, di Mussolini e niente di meno anche su Churchill. Giudizi alla buona si intende, ma spesso logici e corretti; si parlava della guerra, chi vi aveva preso parte raccontava aneddoti e noi bambini eravamo più che con le orecchie lì ad ascoltare con la bocca aperta.
Era bello il nostro paese; non che adesso sia brutto, ma un tempo vi era tanta vita : le strade pullulavano di bambini gioiosi intenti ai loro poveri ma allegri giochi, i grandi erano tutti occupati nelle loro arti e nei loro mestieri; lungo le strade era normale imbattersi in gente intenta alla propria occupazione, avanti alle botteghe degli artigiani si riunivano gruppi di persone per scambiarsi opinioni, per concludere affari, per organizzare lavori. Vi erano i sarti con i loro apprendisti che lavoravano intenti a cucire nella classica posizione delle gambe accavallate, le sarte per donna con le loro ragazze apprendiste, che parlavano sottovoce di amori sperati o finiti. Fra gli altri ricordo la bottega di Federico Chieppa , quella di Stefano detto “il sarto”, la boutique di Lucia Martoccia, abilissima sarta per signore e che dire poi dei fabbri ferrai, c’era quella di mio nonno “mastro Ciccio”, maestro di tutti gli altri fabbri del paese, maestro di Mastro Deodoro Lisanti, Di Gerolamo “La Ferrara” di Domizio Tommaso specializzato nella manutenzione delle biciclette; per tutto il paese risuonavano i colpi cadenzati dei martelli e delle “mazze “ sulle incudini, avevano un non so che di musicale; vi erano quelli che producevano panieri di varie forme e dimensioni. Vi erano i carpentieri capaci di costruire carri, calessi, ma anche botti per il vino.
E la sera … all’imbrunire era bellissimo osservare i contadini che tornavano dalla campagna, qualcuno a piedi , altri con il proprio cavallo od asino, con gli immancabili fasci di erba per le loro bestie, tutti con l’aspetto stanco per la giornata trascorsa al lavoro sotto il sole, si diceva che si lavorava “da sole a sole”, cioè dall’alba al tramonto, ma tutti con negli occhi la serenità di chi torna alla propria casa ai propri affetti.
E poi nell’aria il profumo della legna bruciata mista nelle strade all’odore dell’acqua nella quale era stata “calata” la pasta.
Sento ancora pungente quell’odore, mi colpiva soprattutto quando in occasione delle festività di Natale tornavo dal collegio prima da Potenza poi da Trani. Era un’esplosione di gioia vedere apparire il paesello subito alle prime curve appena iniziata la discesa dalla contrada Santa Maria od appena presa la “vianova” che portava da Minervino a Montemilone. “Napolicchio “ lo chiamava mio padre perché nel suo cuore quello scorcio di paese ricordava quello che per anni aveva rappresentato per lui e per altri emigranti come Lui in America La vista di Napoli quando avevano la fortuna di tornare in iItalia a bordo del “legno”.
La descrizione è parziale, ma non è certo questo il posto per dilungarsi sulle emozioni di un tempo.
Sono tornano l’estate scorsa, ma non ho riconosciuto il mio paese! Ho visto tante case chiuse, mentre scrivi penso anche alla mia casa, in via Garibaldi al n.3 , anch’essa chiusa ed il pensiero mi addolora.
Però ho ancora della bella gente , ho visto diversi giovani ragazzi bambini e ciò vuol dire che nel paese batte ancora un cuore. A loro va la mia accorata preghiera: non abbandonate il paese, ridategli la vita e la gioia di vivere .
Concludo con un saluto a tutti, alle Autorità civili e militari ai vecchi, agli anziani, ai giovani uomini e donne, li unisco tutti in abbraccio.
Il Vostro concittadino
Avv. Rocco Lasaponara

Autore: Avv. Rocco Lasaponara

 

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