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IL PRINCIPATO DI MELFI - Vicende storiche di un antico stato feudale

I CARACCIOLO DEL SOLE

La morte del sovrano Roberto d'Angiò, sopraggiunta nel 1343, apre per il Regno di Napoli un lungo periodo di crisi costellato da continue lotte intestine aventi come obiettivo la successione al trono (1). Per accaparrarsi l'alleanza dei feudatari, i pretendenti che si alternarono alla guida della nazione, nel tentativo di consolidare la loro posizione istituzionale, furono costretti ad elargire nei confronti dei baroni continui benefici e privilegi, provocando l'inevitabile e progressivo indebolimento del potere centrale ed il conseguente potenziamento di quello feudale. I piccoli e frammentari possedimenti assegnati generalmente a militi che si erano distinti al servizio dei vari regnanti del Meridione a partire dal periodo normanno-svevo, divennero, nella prima metà del XV secolo, veri e propri stati feudali, i cui possessori, grazie anche ad un efficace sistema fondato sulla parentela e sull'alleanza tra i casati, avevano la capacità di influenzare in maniera determinante le vicende politiche dell'intero regno (2).
La città di Melfi, Atella e il feudo di Lagopesole furono affidati nel 1416 a Sergianni Caracciolo. Discendente da un ramo dei Caracciolo detto -del Sole-, Sergianni si era dapprima distinto in guerra al fianco del re Ladislao di Durazzo, divenendo poi l'amante ufficiale della regina Giovanna II, dalla quale ebbe i predetti possedimenti e la carica di gran siniscalco del regno (3).
Nel giro di pochi anni la contea si ingrandì con altri feudi: Candela, Rapolla, S. Fele, Avigliano e Forenza. Al 1420 risale l'acquisto di Ripacandida dai Bonifacio (4), mentre Abriola fu portato in dote dalla moglie di Sergianni, Caterina Filangieri (5).
Il Caracciolo ottenne anche il ducato di Venosa (1425) (6) , ed esercitò indirettamente il controllo su Oppido, sul castrum di Monticchio e su Lavello (7). Il prestigio acquisito da Sergianni cominciò a destare serie preoccupazioni negli ambienti vicini alla monarchia angioina, soprattutto dopo la scoperta del suo tentativo di avvicinamento alla fazione aragonese. Fu perciò la stessa Giovanna II a tessere la congiura che portò all'assassinio del Caracciolo proprio nel giorno del matrimonio tra il figlio Troiano e Maria Caldora, nell'agosto del 1432 (8). Fu un duro colpo per Troiano, che si vide confiscare tutti i feudi, ma la fine del governo angioino era imminente, e il Caracciolo ne doveva essere consapevole, dal momento che negli anni successivi si pose al servizio di Alfonso d'Aragona contribuendo al successo di quest'ultimo, e fu premiato pertanto nel 1441 con il titolo ducale e la restituzione dell'intero stato di Melfi (9).
Per oltre quarant'anni la configurazione del vasto comprensorio di feudi non subì alcuna variazione, nonostante il diretto successore di Troiano, Giovanni II Caracciolo, avesse sostenuto il partito francese all'inizio degli anni '60 del XV secolo, nell'interminabile conflitto tra iberici e transalpini per il dominio sul Meridione d'Italia (10).
La partecipazione di Giovanni II all'ennesima congiura contro Ferdinando I d'Aragona, ordita nel 1485, costò al duca di Melfi la confisca dei feudi e, dopo la prigionia nelle segrete di Castelnuovo, a Napoli, la stessa vita (1487) (11). La storia dei Caracciolo del Sole sembra ripetersi ciclicamente. Quanto accaduto a Troiano I successe anche al nipote Troiano II, figlio di Giovanni II, che dovette barcamenarsi tra simpatie filofrancesi alimentate dalla spedizione di Carlo VIII nel Regno di Napoli, e la fedeltà alla monarchia aragonese, ma nel 1495 riuscì a rientrare in possesso dei feudi di Rapolla, Ripacandida, Candela ed Abriola (12) .
Il 17 dicembre 1498 Troiano II venne insignito del titolo di principe di Melfi da Federico d'Aragona (13), ricomponendosi cosi gli antichi confini dello stato feudale, fatta eccezione per Avigliano, pervenuto nel frattempo in possesso dei discendenti del ramo cadetto dei Caracciolo del Sole, i quali, a partire da Diomede, avevano assunto la denominazione di Caracciolo di Avigliano (14).
Alla morte di Troiano II (1520) il suo erede, Giovanni III, dichiarò 6.728 ducati di entrate feudali per l'intero principato, derivanti soprattutto da Melfi (2.754 ducati), Candela (1.105) ed Atella (1.018) (15). Tra i feudi montani soltanto Lagopesole offriva una rendita rispettabile (572 ducati), se si tiene conto che quel vasto territorio era in gran parte boscoso, e gli unici terreni coltivati erano ubicati nella piana di Iscalunga, posta al confine col demanio di Atella.
Le entrate dichiarate dal principe, finalizzate a precisi adempimenti fiscali verso la regia corte di Napoli, potrebbero, però, essere state falsate, così come lascia supporre la ricognizione ordinata nel 1530 da Carlo V alla fine del conflitto franco-spagnolo (16). Melfi, Atella e Candela fecero registrare rispettivamente 3.500, 1.586 e 1.486 ducati. Per gli altri feudi i valori sono pressoché doppi rispetto a quelli del 1520, ma il caso clamoroso è ancora una volta costituito da Lagopesole, la cui rendita assommava a 1.450 ducati.
Il lungo dominio dei Caracciolo del Sole finì definitivamente nel 1528 quando Giovanni III, avendo prestato servizio al seguito dei Francesi, venne privato da Carlo V di tutti i suoi beni e costretto all'esilio in Francia (17).
Per oltre un secolo la regione del Vulture-Melfese era stata lo scenario di cruenti scontri, spesso decisivi per la definitiva affermazione spagnola. Va pertanto ricordato l'episodio del sacco di Atella, compiuto durante l'estate del 1496 dall'esercito francese comandato da Gilberto di Borbone conte di Montpensier. Questi fece della cittadina fortificata il baluardo della resistenza alla reazione aragonese, la quale ebbe la meglio soltanto dopo un lungo assedio condotto dallo stesso sovrano, Ferdinando II, poi deceduto a causa della malaria contratta proprio ad Atella (18).
Alla città di Melfi è legato il drammatico saccheggio dei Francesi guidati dal Lautrec. Moltissimi furono i cittadini massacrati ed i superstiti furono costretti ad abbandonare la città per diversi giorni, facendovi ritorno nel giorno della Pentecoste del 1528 (19).
I risvolti negativi dovuti alle vicende militari verificatesi nella microregione del Vulture-Melfese accomunano anche altri luoghi del Mezzogiorno durante il corso del XV secolo e parte del XVI. Tuttavia, la presenza di un'unica famiglia feudale in un lasso di tempo di oltre un secolo contribuì a porre le basi per la realizzazione di interventi finalizzati allo sfruttamento delle risorse esistenti sull'intero territorio del principato, senza perdere di vista le diversità ambientali esistenti tra i singoli feudi, cui si possono aggiungere le difficoltà di rapporto con le università e, ancor più, con l'amministrazione diocesana (chiese e monasteri dipendevano dai vescovi di Ascoli Satriano, Melfi, Rapolla, Venosa, Potenza e Muro).
I Caracciolo si mostrarono benevoli nei confronti delle ondate migratorie albanesi. Dopo l'insediamento della colonia di Barile (1478) concessero agli esuli di Scutari il territorio di Massa Lombarda presso Ripacandida, per la fondazione di un centro abitato che assunse la denominazione di Ginestra (20) .
In campo urbanistico fu Melfi, capoluogo del principato, a beneficiare di continui interventi innovativi, in parte ancora oggi leggibili nell'edilizia civile e religiosa della città. Agli eventi bellici seguirono diverse catastrofi (epidemie, carestie, terremoti) che ostacolarono ripetutamente lo sviluppo economico e demografico dell'area.
Dal confronto tra la prima tassazione focatica aragonese (1447) (21) e quelle volute nel 1521 e nel 1532 (22) (Tab. 1) da Carlo V, pur accogliendo questi dati con le dovute cautele che gli studi di demografia storica impongono, si può costatare come in poco più di settant'anni la popolazione del principato, pur restando sostanzialmente stabile, subì evidenti sconvolgimenti interni.
La ripresa di Melfi, il tracollo di Atella e l'exploit dei feudi montani, restano peraltro i principali indicatori di una tendenza destinata a non mutare nei secoli successivi.


Centri abitati (fuochi)

anno 1447 - 1521 - 1532

Melfi 631 - 792 - 781
Atella 789 - 497 - 532
Forenza 310 - 336 - 325
Rapolla 161 - 168 - 123
Ripacandida 134 - 87 - 100
Abriola 127 - 194 - 249
Candela 72 - 99 - 158
S. Fele 60 - 114 - 135
Avigliano 55 - 129 - 133

Tab. 1: le tassazioni focatiche nei centri dello stato di Melfi tra XV e XVI secolo


I DORIA

L'apporto determinante delle navi di Andrea Doria in favore di Carlo V durante la guerra franco-spagnola fruttò all'ammiraglio genovese l'assegnazione dello stato di Melfi col titolo principesco (20 dicembre 1531) (23).
La configurazione dell'antico complesso feudale venne però notevolmente ridimensionata. Ne facevano parte soltanto Melfi, Candela, Lagopesole e Forenza, divisi in due tronconi dal nucleo centrale della regione del Vulture, ricadente nei territori di Atella, Rapolla, Ripacandida e S. Fele, assegnati ad altre famiglie gentilizie (24).
I Doria ereditarono una pesante situazione, derivante dal continuo susseguirsi per oltre un trentennio, di guerre, pestilenze e carestie. Tale stato di cose non sfuggì al nuovo governo vicereale spagnolo, che, con l'intento di favorire la ripresa economica, ridusse il carico fiscale nei confronti delle popolazioni del Vulture (25). È questo il contesto in cui s'inserisce il programma dell'amministrazione Doria, fondato sul massiccio incremento della cerealicoltura, attraverso l'introduzione di due essenziali meccanismi di conduzione delle aziende: l'affitto e la colonia.
L'intraprendenza del principe ereditario Marcantonio Doria del Carretto, grazie anche alla sua frequente presenza nello stato, determinò lo sfruttamento di terreni prima incolti o adibiti al pascolo.
Alla fine del decennio 1571-80 vennero raggiunti livelli produttivi elevatissimi, preludio purtroppo di un nuovo periodo di recessione che si concluse soltanto intorno al 1620 (26).
Lo sfruttamento delle terre feudali non distolse l'attenzione dei Doria dalle potenziali possibilità espansionistiche in Basilicata. S'iniziò con Tursi, città che non entrò mai a far parte del principato a causa della sua notevole distanza dal Melfese, ma che restò sempre sotto la giurisdizione della famiglia genovese (27) .
Con la cessione di Lacedonia al prezzo di 76.500 ducati da parte di Carlo Pappacoda (1584) (28), si attivò il primo importante passo finalizzato all'ampliamento dei confini dello stato feudale.
L'impossibilità di ricompattare il principato tramite l'acquisto di Atella indusse i Doria quantomeno a cercare di potenziare singolarmente ognuno dei due poli. Puntarono così ad acquisire Rocchetta, terra che s'incunea tra Melfi, Candela e Lacedonia, pagandola 72.000 ducati ad Innigo del Tufo il 9 ottobre 1609 (29).
Sull'altro versante le mire dei principi di Melfi si rivolsero sin dal 1608 su Avigliano, ma furono necessari altri quattro anni per portare a conclusione l'acquisto di quella terra. I 48.000 ducati pagati al giurista Ferrante Rovito il 24 maggio 1612 sembrano in apparenza una cifra esorbitante per una terra sita tra monti con un esiguo territorio coltivabile ed una rendita leggermente superiore ai 2.000 ducati annui (30), ma la cittadina era in forte ascesa demografica e diversi suoi abitanti erano impegnati nella colonizzazione del feudo disabitato di Lagopesole, gia intorno alla metà del Cinquecento Marcantonio del Carretto, aveva concesso agli aviglianesi una forte riduzione sul pagamento dei terraggi in cambio della spesa del dissodamento e della messa a coltura dei boschi del feudo, ottenendo sin dal principio lusinghieri risultati (31).
Il 31 maggio 1613 venne conclusa la trattativa per l'acquisto di S. Fele, pervenuta nel 1607 a Giacomo Grimaldi, esponente del patriziato genovese, il cui erede, Giambattista, la cedette per 69.000 ducati (32). Con S. Fele diventano pressoché definitivi i confini del principato, su cui i Doria esercitarono il proprio dominio fino all'abrogazione della feudalità (1806).
La gestione amministrativa dello stato, che in principio i Doria seguirono personalmente, a partire dalla fine del XVI secolo iniziò ad essere affidata ad una persona di fiducia del principe, ovvero al governatore.
Costui, scelto in seno alle famiglie nobili genovesi alleate dei Doria, rappresentava la massima autorità politica e militare del principato, fungendo da un lato da trait d'union tra il potere feudale e quello centrale, e dall'altro tra potere feudale ed amministrazione civica (università) delle terre (33). L'azione di controllo in loco era demandata ai capitani, presenti in ognuno dei sette centri abitati, mentre la cura del feudo di Lagopesole dipendeva dal castellano che dimorava all'interno del maniero federiciano.
L'asfissiante presenza baronale si faceva sentire tanto sotto il profilo fiscale quanto in riferimento all'organizzazione della giustizia, sottoponendo le popolazioni a continue vessazioni. Ciò portò le università ad acquisire una forte coscienza politica e i feudatari, ancora prima dell'arrivo dei Doria, si videro costretti a sottoscrivere degli statuti per regolamentare i più elementari diritti dei cittadini (34).
Gli echi della rivolta napoletana capeggiata da Masaniello (1647) giunsero rapidamente nelle province del viceregno. Il governatore Marco De Franchi ritenne opportuno - ad esempio - prendere provvedimenti eccezionali consistenti nel munire di artiglieria le fortificazioni di Melfi, faticando non poco per sedare le sommosse popolari di Avigliano, dove venne giustiziato il capopopolo, mentre a Candela nove cittadini persero la vita nel tentativo di impedire l'insediamento del nuovo capitano (35).
Il 10 settembre 1656 sulla città di Melfi si abbatté il flagello della peste, che determinò nei cinque mesi successivi la morte di oltre cinquecento persone. Anche Candela venne duramente colpita. In undici mesi perirono circa duecento persone sugli 866 abitanti di quel centro (36).
Le conseguenze della peste si ripercuotono dolorosamente sull'economia del principato. La difficoltà di commercio del grano fra le comunità del regno chiuse in quarantena, il calo del fabbisogno alimentare della stessa capitale, Napoli, dovuto alla morte di circa 270.000 abitanti sui 450.000 stimati all'inizio dell'epidemia (37), il proliferare del banditismo, rappresentarono i principali fattori del danno subito sia dall'azienda feudale dei Doria sia dai piccoli e grandi massari.
Il viceré di Napoli non indugiò a varare nuove norme per la numerazione dei fuochi fiscali, praticando all'indomani della peste uno sgravio alquanto disomogeneo nelle terre abitate dello stato di Melfi (38). Tuttavia la popolazione complessiva passò dalle 16.606 anime censite nel 1656 alle 17.832 del 1668 pur in presenza di una diminuzione dei fuochi fiscali pari al 20,37%. Non fu un grosso passo in avanti, e bisognerà attendere ancora molti anni per poter rilevare una ripresa demografica accettabile, che maturò lentamente durante l'ultimo ventennio del Seicento ed il primo trentennio del secolo successivo, nonostante le immancabili calamità: il terremoto distruttivo del 1694, l'invasione di cavallette del 1711 provocante gravi danni ai raccolti, un'epidemia di afta epizootica (1712) cui segui la paurosa decimazione del patrimonio armentizio con la perdita di ben ottantatre bovi aratori sui cento complessivi da parte dell'azienda feudale (39).
Un massiccio incremento della popolazione si avrà soltanto nella seconda metà del Settecento, sfiorando negli ultimi anni del secolo la soglia dei 40.000 abitanti (come si evince dalla Tab. 2) (40).


Centri abitati (abitanti)

anno 1656 - 1668 - 1732 - 1735
Melfi 5.427 - 5.262 - 5.525 - 8.000
Avigliano 3.900 - 4.150 - 5.500 - 9.000
S. Fele 2.795 - 2.853 - 3.200 - 5.800
Forenza 1.728 - 2.254 - 2.700 - 4.700
Rocchetta 1.136 - 1.297 - 2.382 - 4.000
Candela 866 - 876 - 3.000
Lacedonia 754 - 1.140 - 2.183 - 5.000

Tab. 2: la popolazione dei centri dello stato di Melfi nei secoli XVII e XVIII


Nel corso del XVIII secolo il ceto dei ricchi proprietari terrieri e dei maggiori fittavoli del principe va acquisendo un peso sempre crescente nei centri abitati del principato. La borghesia agraria annovera nelle sue fila professionisti come notai, avvocati, medici, ma anche numerosi studenti, spesso in contatto con l'ambiente -illuminato- napoletano, in un momento particolarmente fervido quale quello della seconda metà del secolo.
Grazie a questo nuovo ceto la modernizzazione raggiunge rapidamente le province ed anche i Doria vi si adeguano, cercando di adattare il modello di gestione dei loro possedimenti alle nuove esigenze di innovazioni. Vi fu inoltre la revisione dei diritti feudali esercitati sulle università, e grande rilievo assunse la conduzione dell'azienda. Sin dal 1746 i poteri conferiti al governatore subiscono un ridimensionati e le decisioni riguardanti l'amministrazione economica vennero affidate ad un nuovo organismo: la Consulta, che si riuniva in assemblea ogni settimana nel castello di Melfi, mentre il governatore fu affiancato dal tesoriere e dal razionale (41). I poteri della Consulta aumentarono soprattutto in seguito alle direttive emanate nel 1767 dal principe, il quale individuò le cariche preposte ad esaminare le problematiche di natura economica, politica e giudiziaria nel tesoriere, nel razionale, nel soprintendente economico e nell'agente generale.
Quest'ultima figura sostituì, sin dai primi anni '60, definitivamente il governatore (42).
Per meglio seguire i rapporti con le istituzioni statali, in primo luogo con la Regia Camera della Sommaria, dove lunghissime vertenze giudiziarie si susseguivano contro le università, il principe Andrea IV Doria nominò nel 1792 un apposito funzionario di stanza a Napoli: Domenico Mastellone, grande esperto in materie giuridiche (43).
Intanto il sistema feudale era ormai giunto al suo ultimo stadio. Messa in discussione durante la rivoluzione giacobina del 1799, la feudalità venne abolita definitivamente dal governo francese nell'agosto del 1806, a pochi mesi dal suo insediamento alla guida del Regno di Napoli.
Se il principato cessò di esistere come organismo feudale, l'azienda Doria, radicalmente trasformata nel suo assetto organizzativo continuò ad essere la principale fonte di reddito per la famiglia genovese (44).
Lo sterminato latifondo (circa 8.500 ettari) sarà frazionato soltanto con l'attuazione della riforma agraria, a partire dal 1953 (45).


Note

1 T. PEDIO, La Basilicata. Dalla caduta dell'Impero Romano agli Angioini, vol. IV, Bari 1989, p. 60;
2 Notevoli contributi per l'approfondimento dei meccanismi delle parentele ed alleanze tra i lignaggi sono in G. DELILLE, Famiglia e proprietà nel Regno di Napoli (XV-XIX secolo), Mappano (TO) 1988, in particolare i capitoli I e III;
3 T. PEDIO, op. cit., p. 187;
4 Ivi, p. 209;
5 Vedi nota 3;
6 G. FORTUNATO, Ser Gianni Caracciolo duca di Venosa nel 1425, Napoli 1907, pp. 6-16, rist. anastatica n. 15 dei Quaderni -Conoscere il Vulture-. Nel 1432 Giovanna II concede alla città il privilegio di -stare in demanio-. Poi, nel 1454 la regia corte vende Venosa a Pirro del Balzo. Cfr. A. CAPANO, Venosa ed i suoi feudatari: note storiche, in -Radici-, rivista lucana di storia e cultura del Vulture, n. 6, dicembre 1990, p. 146;7 Sergianni acquista il feudo di Oppido nel 1426 e lo cede l'anno successivo al fratello Marino col castrum di Monticchio. Nel 1428 Giovanni Antonio Orsini, principe di Taranto, in occasione delle nozze del fratello Gabriele con la figlia di Sergianni, dona al congiunto la città di Lavello. Cfr. T. PEDIO, op. cit., p. 210;
8 V. SPRETI, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, vol. II, Milano 1928-32, p. 305. Sergianni
Caracciolo fu sepolto nella chiesa di S. Giovanni a Carbonara a Napoli;
9 Dimostrazione De' gravami proposti dalla Università di Melfi contro l'Exfeudatario illustre Principe Doria da giudicarsi dalla Commissione da S. M. stabilita a relazione del meritevolissimo Signor Vincenzo Coco Regio Consigliere Commissario, Napoli 1808, p. 10;
10 I principali documenti contenenti l'elenco completo dei feudi dello stato di Melfi risalgono rispettivamente al 1447 ed al 1468, Cfr. G. DA MOLIN, La popolazione del regno di Napoli a metà quattrocento (Studio di un foculario aragonese), Bari 1979, p. 11, e L. CASTALDO MANFREDONIA, Pro Partibus-Quarta Pars-Processuum Passuum Regni (a. 1367-1480), in -Fonti Aragonesi a cura degli archivisti napoletani-, serie II, vol. XII, 1983, pp. 70-73. Sulla rivolta di Giovanni II si veda G. VITALE, La rivolta di Giovanni Caracciolo duca di Melfi e di Giacomo Caracciolo conte di Avellino contro Ferrante I d'Aragona, in -Arch. Stor. Per le Prov. Napoletane-, II serie, V-VI, 1966-67;
11 V. SPRETI, op. cit., p. 306;
12 C. CONTE, M. SARACENO, Territorio uomini e merci ad Atella tra Medioevo ed età moderna, Lavello 1996, pp. 15 e 19;
13 La trascrizione del privilegio di concessione è in E. NAVAZIO, M. TARTAGLIA (a cura di), Melfi e la sua storia, Lavello 1992, p. 82, in Il turismo educativo, a cura della Comunità Montana del Vulture, vol. II;
14 La successione feudale ad Avigliano è esposta in dettaglio in F. MANFREDI, Avigliano tra Medioevo ed età moderna. Storia feudale e sviluppo urbano, Potenza 1995, pp. 3-16 e tav.2;
15 Archivio di Stato di Napoli, Spoglio delle Significatorie dei Relevi, vol. I, f. 26r;
16 N. CORTESE, Feudi e feudatari napoletani della prima metà del Cinquecento, Napoli 1931, pp. 53-55, ed anche G. FORTUNATO, Badie Feudi e Baroni della Valle di Vitalba, a cura di Tommaso Pedio, vol. III, Matera 1968, pp. 259-260;
17 Vedi nota 11;
18 Le celebrazioni del quinto centenario dell'assedio hanno offerto lo spunto per la pubblicazione di tre interessanti volumi incentrati sulla storia della cittadina dalle origini all'avanzata età moderna, con particolari approfondimenti relativi al XV secolo. Cfr. T. PEDIO, M. SARACENO, Atella 1496, Rionero in Vulture 1996; AA.VV., Dal Casale alla Terra di Atella, Lavello 1996; C. CONTE, M. SARACENO, Territorio uomini e merci ad Atella, cit.;
19 E. NAVAZIO, M. TARTAGLIA, op. cit., p. 75;
20 G. FORTUNATO, op. cit., vol. II, p. 223;
21 G. DA MOLIN, op. cit., pp. 68 e 71;
22 T. PEDIO, Un foculario del Regno di Napoli del 1521 e la tassazione focatica dal 1447 al 1595, in -Studi Storici Meridionali-, anno XI, n. 3, settembre-dicembre 1991, pp. 254-255. Dello stesso autore si veda anche La tassazione focatica in Basilicata dagli Angioini al XVIII secolo, in -Bollettino della Biblioteca Prov. Di Matera-, a. IV, n. 7, 1983. I fuochi di Candela nel 1532 sono riportati in L. GIUSTINIANI, Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, tomo III, Napoli 1797, p. 78;
23 R. COLAPIETRA, Recenti studi sul principato di Melfi, in -Arch. Stor. per la Calabria e la Lucania-, anno XLVIII (1981), pp. 191-192. Per una puntuale conoscenza storica del principato relativa al XVI secolo è indispensabile dello stesso autore I Doria di Melfi ed il Regno di Napoli nel '500, in -Miscellanea Storica Ligure-, 1969, pp. 9-111;
24 Atella e S. Fele vengono donati da Carlo V ad Antonio de Leyva, principe di Ascoli, nell'agosto del 1532. Cfr. C. CONTE, M. SARACENO, op. cit., p. 37. Rapolla e Ripacandida passarono rispettivamente a Diego Hurtado de Mendoza ed ai Grimaldi di Monaco. Cfr. C. PALESTINA, Ripacandida dalle origini agli aragonesi. Note storiche, in -Radici-, n. 10, maggio 1992, p. 148;
25 S. ZOTTA, Rapporti di produzione e cicli produttivi in regime di autoconsumo e di produzione speculativa. Le vicende dello -stato- di Melfi nel lungo periodo (1530-1730), in A. MASSAFRA (a cura di), Problemi di storia nelle campagne meridionali nell'età moderna e contemporanea, Bari 1981, pp. 233-234;
26 Ibidem;
27 Nel 1553 la giurisdizione della città passa all'adolescente Gian Andrea Doria col titolo marchesale. Cfr. R. COLAPIETRA, op. cit., p. 195. Agli inizi del Seicento Tursi è assegnata a Carlo, terzogenito di Gian Andrea, col titolo ducale. Cfr. R. COLAPIETRA, Il principato di Melfi nella prima metà del Seicento, in Scritti in memoria di Leopoldo Cassese, vol. I, a cura dell'Università degli Studi di Salerno, collana di studi e testi, VII, Napoli 1971, p. 148. Alla vigilia dell'eversione della feudalità i Doria sono ancora feudatari di Tursi con la principessa Giovanna. Cfr. L. GIUSTINIANI, op. cit., tomo IX, Napoli 1805, p. 275;
28 S. ZOTTA, Momenti e problemi di una crisi agraria in uno -stato- feudale napoletano (1585-1615), in -Melanges de l'Ècole Francaise de Rome-, (1978), 2, tomo 90, p. 717;
29 R. COLAPIETRA, Il principato di Melfi, cit., pp. 151-152;
30 Ivi, pp. 151-156. L'autore spiega con estrema chiarezza il complesso meccanismo che permise al barone Alessandro Ferrero di sottrarre Avigliano all'acquisto da parte dei Doria nel dicembre del 1609 e la successiva vendita a questi ultimi;
31 S. ZOTTA, Momenti e problemi, cit., pp. 759-762, e dello stesso autore, Rapporti di produzione, cit., p. 237;
32 R. COLAPIETRA, Il principato di Melfi, cit., pp. 156-157, ed anche M. MARTONE, San Fele, 1607. Presa di possesso della Terra... e dei suoi diritti da parte di Giangiacomo Grimaldi, in -Radici-, n. 11, dicembre 1992, pp. 155-162;
33 Gli aspetti organizzativi dell'amministrazione feudale dello stato di Melfi vengono esaustivamente analizzati in P. B. ARDOINI, Descrizione del Stato di Melfi (1674), introduzione e note di Enzo Navazio, Lavello 1980, pp. 29-48. Sull'ordinamento delle università nel Regno di Napoli si veda T. PEDIO, Baroni, galantuomini e contadini nell'età moderna, Bari 1982, pp. 57-74;
34 È opportuno ricordare l'esempio di Melfi (1525), cfr. E. CIASCA, Terre comuni e usi civici nel territorio di Melfi (1037-1738), Roma 1958, p. 160 e ss., ed Avigliano durante la seconda metà del '500, cfr. F. MANFREDI, op. cit., p. 17 e ss.;
35 R. COLAPIETRA, L'amabile fierezza di Francesco d'Andrea. Il Seicento napoletano nel carteggio con Gian Andrea Doria, Roma 1981, p. 3 e dello stesso autore, Il principato di Melfi, op. cit., p. 209;
36 S. ZOTTA, Rapporti di produzione, cit., p. 270; E. NAVAZIO, Peste e morte a Melfi nel 1656, in -Radici-, n. 1, gennaio 1989, pp. 17-31. Un quadro generale sulla diffusione della peste del 1656-57 è offerto in L. DEL PANTA, Le epidemie nella storia demografica italiana (secoli XIV-XIX), Torino 1980, pp. 166-178;
37 C. DE SETA, Napoli, in Le città nella storia d'Italia, Bari 1984, p. 160;
38 R. COLAPIETRA, L'amabile fierezza, cit., pp. 23-24;
39 S. ZOTTA, Rapporti di produzione, cit., pp. 285-286;
40 I dati relativi agli anni 1656 e 1668 sono in R. COLAPIETRA, L'amabile fierezza, cit., p. 42. Per il 1732 ed il 1735 si veda S. ZOTTA, Rapporti di produzione, cit., p. 284. La popolazione esistente verso il 1795 è riportata in L. GIUSTINIANI, op. cit., tomo II (Avigliano), tomo III (Candela e Lacedonia), tomo IV (Forenza), tomo V (Melfi), tomo VIII (Rocchetta e S. Fele);
41 A. SINISI, Il -buon governo- degli uomini e delle risorse. Gestione di uno -Stato- feudale e governo del territorio nel Mezzogiorno fra Settecento e Ottocento, Napoli 1996, p. 37;
42 Ivi, p. 38;
43 Ivi, pp. 39-40;
44 Dopo essersi imparentati con i Pamphili di Roma, i Doria ereditano il patrimonio di questa famiglia e con Andrea IV, nella seconda metà degli anni í60 del XVIII secolo si trasferiscono nella città pontificia. Cfr. A. SINISI, op. cit., p. 133;
45 T. RUSSO, La Francia, l'Italia giacobina, il Mezzogiorno, in AA.VV., Popolo Plebe e Giacobini. Napoli e la Basilicata nel 1799, a cura di Nino Calice, Rionero in Vulture 1989, p. 43.

Autore: Testo di Rosanna Ciriello - tratto da -BASILICATA REGIONE Notizie, 1996

 

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