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I CANTI DEL MONDO CONTADINO BELLESE

Sono canti più spesso certamente improvvisati, diffusi in anonimato, semplici e talvolta ingenui, composti per esprimere, cantati per comunicare. La musica è quasi solo un supporto.
Eseguita in maniera unica, esprime, senza variazioni. sia la tristezza che il dolore. I temi musicali sono pochissimi, tutti improntati alla scala diatonica naturale, eseguibili, pertanto, con l'organetto che su quella si basa.
Il testo è generalmente breve, talvolta di soli due versi. In questo caso il secondo verso viene ripetuto. Se a cantare è un gruppo di persone, a ripetere il secondo verso, dopo la prima voce, è proprio il gruppo. II canto è sempre all'unisono e a voce spiegata, che negli acuti diventa spesso stridula.
L'intervallo tra una strofa e l'altra è riempito da una serie di battute musicali improvvisate dall'organettista o eseguite tenendo conto di una specie di canovaccio musicale, che pure è in ogni esecuzione. Un tempo, quando in campagna si lavorava diversamente da oggi, si cantava in ogni occasione: quando si zappettava, quando si sarchiava, quando si mieteva, quando si trebbiava, quando si aprivano le pannocchie di granoturco... quando si portava la serenata a una donna, o per amore o per rampogna.
Se il cantante intendeva farsi riconoscere nelle serenate, improvvisava una strofa in cui compariva, in rima, iI suo nome. II contadino ha sempre trovato nel canto la sua più completa forma di espressione e dl liberazione.
E tutto egli canta:
la sua infanzia triste:
"Quann(e) nasciett(e) ll(e) mamm(e) m(e) mors(e),
e r(e)maniett(e) miezz(e) a doi(e) nenn(e):
chi m(e) mbasciai(e) e chi m(e) racihi(e) la menn(e)".
(Quando nacqui, mia madre morì, e io rimasi in mezzo a due ragazze: chi mi fasciava e chi mi dava il seno).
L'estrema povertà:
"Magnat(e), figlie) mèi(e), tira cingh(e) e tira sei(e),
magnate che v(e)lit(e), ma a shcanat(e) n'na r(e)mbit(e)".
(Mangiate, figli miei, tira cinque e tira sei; mangiate ciò che volete, ma non tagliate la pagnotta del pane).
La malannata:
"Agg(e) s(e)m(e)nat(e) fave) e lin(e);
la raccolta mii(a) sò li I(e)pin(e)".
(Ho seminato fave e lino: la mia raccolta sono i lupini).
La menomazione fisica che gli desta amarezza e lo induce a bere:
"N'mbozz(e) sci a la méss(e) ca sò zuopp(e),
m(e) n(e) vach(e) a la candin(e) chiane) chiane)".
(Non posso andare a messa perché sono zoppo, me ne vado alla cantina piano piano).
Canta la monotonia delle lunghe giornate invernali e la nostalgia del suo amore lontano:
"La név(e) a la m(u)ndagn(e) èsf(e)quat(e) a p(e)II(e)vin(e)...
si avvii(e) I'amor(e) vicin(e) quanda sciuoch(e) v(e)lla fa..."
(La neve alla montagna cade a tempesta... se avessi vicino I'amore, quanti giochi farei...).
Un tempo cantava anche, accorato, I'amarezza dell'emigrazione in America, la tristezza della chiamata alle armi, il timore della guerra.
Ha parole di gioioso scherno per il "padrone" che vorrebbe a suo vantaggio una giornata di lavoro interminabile:
"U sol(e) è v(e)tat(e) russe) - u patrone) mò cal(e) u muss(e).
U sol(e) ha dat(e) nu ndin: iamm(e), patron(e), sciamm(e)ninn(e).
U sol(e) ha date) na bott(e): shcatt(e), patron(e), eh è fatt(e) nott(e)!
U sol(e) è calat(e): iamm(e), patron(e): voglie) esse) pahat(e)".
(II sole è diventato rosso, il padrone mette il muso. II sole ha suonato il campanello: su, padrone, andiamocene! II sole ha dato un botto: schiatta, padrone, perché è fatto notte. II sole è calato: su, padrone: voglio essere pagato).
Canta la tradizionale richiesta di vino quando il sole dardeggia sul grano da mietere:
"Lu hran(e) mangh(e) è mbut(e) e mangh(e) è allashch(e);
patron(e), va la pigli(e) la fiashch(e)",
(II grano non è né fitto né rado: padrone, va a prendere il fiasco)".
Canta la sua triste sorte di pastore costretto a vedere la sua donna solo una volta tanto:
"Tur(e), tur(e), turess(e), lu marit(e) a p(e)qu(e)ress(e):
na nott(e) stai(e) cu ess(e), diec(e)mil(e) a lu pagliar(e)".
(Ture, ture, turessa, lu marito a "pecoressa": una notte sta con la moglie, diecimila nel pagliaio (con le pecore)).
Canta il progresso, ma quasi incredulo, chiuso nella sua filosofia del quotidiano:
"Nand'a la porta toi(e) hann(e) mise) na lucia nov(e).
U vir(e) ce u tiemb(e) chiov(e)? Namma scì sul(e) a r(e)trà".
(Davanti alla tua porta hanno messo una luce nuova. Vedi che sta piovendo? Dobbiamo solo ritirarci).
Si diverte cantando:
"V(e)cenz(e) e oi V(e)cenz(e), cu tre pull(e)c(e) sop'a la. panz(e).
Una rorm(e), n'at(e) penz(e), n'at(e) pazzei(e) ch(e) zì V(e)cenz(e)".
(Vincenza, oi Vincenza, con tre pulci sulla pancia. Una dorme, un altra pensa, un'altra gioca con zia Vincenza).
II più dei suoi canti, però, esalta la donna e l'amore.
La donna, tuttavia, non compare mai come moglie e madre di figli, quasi che un pudico sentimento di rispetto per la sua intimità familiare impedisse al contadino di cantarla,
La donna dei suoi canti è la ragazza da amare o da rampognare per amore tradito, colta nei diversi momenti del suo quotidiano agire: alla fontana, alla finestra, nella via "str(e)ttulell(e)", quando lavora in casa.
"F(e)gliol(e) ca ciern(e) farin(e), cu su culle) n'quut(e)là:
lu frusci(e) r(e) Ii ménn(e) la farin(e) p(e) l'aria va".
(Ragazza che separi la farina, non agitare ritmicamente codesto deretano: il rapido dondolio delle mammelle manda in aria la farina).
La canta quando è sposa:
"Mò s(e) n(e) vai(e) la zita cu lu chiand(e),
p(e)cché s(e) vér(e) mmiezz(e) a tanda gend(e)".
(Ora se ne va la sposa piangendo perché si vede in mezzo a tanta gente).
La donna del canti smania di maritarsi, soffre per amore, sa rinunciare alle nozze per amore della mamma malata, ha anche potere di iniziativa. E l'uomo glielo riconosce, invertendo i ruoli nel canto:
"Uocchi(e) r(e) z(e)nnaiol(e), p(e)cché m(e) zinn(e)?
S(e)gnif(e)ch(e) ca tu vuoi(e): p(e)cché n'mann(e)?".
(Occhio di ammiccatrice, perché ammicchi? Significa che vuoi. E perché non melo mandi a dire?).
Naturalmente, per essere bella ed accettabile, la donna deve essere del paese. Se per amore si fa eccezione, occorre un rimedio:
"Quand(e) m(e) piac(e) la Pishcapahanes(e)!
L'aggia cangià lu nom(e), I'aggia chiamà Térès(e)".
(Quanto mi piace la Pescopaganese! Le debbo cambiare II nome, la debbo chiamare Teresa).
Nei canti sono delineati persino i canoni della bellezza femminile ricercata, espressi in negativo con fine ironia:
°M(e) vèn(e) r'accasà: la voglie) vasc(e):
si care) ra lu liett(e) n patisc(e)" .
(Mi viene di accasarmi: la voglio bassa: così se cade dal letto non si fa molto male).
"Tengh(e) nu r(e)Ilogg(e), lu tengh(e) a doi(e) catén(e).
Li f(e)gliol(e) sò cort(e) e chién(e), n'nz(e) ponn(e) mar(e)tà",
(Ho un orologio, lo tengo a due catene. Le ragazze son corte e pienotte, non si possono maritare).
Le ragazze da sposare, infine, devono essere integre;
"li(o) tengh(e) nu r(e)Ilogg(e) cc fac(e) I'un(e) e vind(e):
li f(e)gllol(e) sò tutt(e) ngind(e), n'nz(e) ponn(e) mar(e)tà",
(lo ho un orologio che fa l'una e venti: le ragazze sono tutte incinte, non si possono maritare).
Quando lo rode la gelosia, l'uomo minaccia senza ritegno:
"Nand'a la porta toia hann(e) mis(e) nu pèr(e) r(e) noc(e).
Si vén(e) nat(e) amor(e) l'aggia fa chiandà la croc(e)".
(Davanti alla tua porta hanno piantato un noce. Se viene un altro amore gli farò piantare una croce).
Quando è la donna a cambiare amore, l'uomo passa allo scherno. Dimenticando che un tempo l'ha cantata come la più bella, ora la apostrofa con disprezzo:
'Figliol(e) ca pisc(e) 'nderr(e) e fai(e) u lor(e) ru baccalà"
(.Ragazza che pisci per terra e mandi l'odore de! baccalà).
Oppure, feroce:
"A la f(e)nestra mia ng(e) sò li ros(e),
a lu barcon(e) tui(e) li corn(e) appés(e)".
(Alla mia finestra ci sono le rose, al tuo balcone le corna appese).
Se l'amata ha sposato un altro, arriva al dileggio:
"Na, na, na: comm(e) cazz(e) hamma fa?
Nu vecchi(e) te p(e)gliat(e), u pane) cuott(e) I haia fa".
(Na, na, na: come caz-zo dobbiamo fare? Hai sposato un vecchio; gli dovrai fare il pane cotto (perché senza denti).
Chiudiamo questo brevissimo esame con l'amaro canto d'una donna che contempla le sue scarpe di seta e piange II suo amore perduto:
"I shcarp(e) sò r(e) sét(e), i b(e)ttun(e) sò r(e) v(e)llut(e).
U primm(e) namm(e)rat(e) m'ha lassat(e) e s(e) n'è giut(e)".
(Le scarpe sono di seta, i bottoni son di velluto. II primo innamorato mi ha lasciato e se ne è andato).
Tutto questo, un tempo, quando "stringeva il core"
"un canto che s'udia per li sentieri
lontanando morire a poco a poco".
Ora che il mondo contadino è cambiato, che resta dello spirito dei suoi canti?


tratto da "BASILICATA REGIONE Notizie, 1990

Autore: MARIO MARTONE

 

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