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METAPONTO - Da "LA BASILICATA NEL MONDO" - (1924 - 1927)

IL CLASSICO LITIO


Le voci della città morta

Un paesaggio pensoso, meno solenne e vasto della campagna romana, ma come la campagna romana degno di cingere una città gloriosa nella storia; un paesaggio che sembra conscio di ciò che avvenne sul classico lito. L’ombra dei colonnati giganti è sacra pel cuore degli uomini. Il paese si profila con 1’anfiteatro dell’Appennino sul lontano orizzonte, confuso fra le terre mediterranee, da dove mosse la prima civiltà del mondo occidentale.

La pianura immensa, poi larghe chiazze di acqua e siepi di agavi, sorte sul terreno abbandonato dal mare.

La desolazione che circonda la pianura nuda e accidentata ha qualche cosa di quella di Tiro e di Babilonia nel racconto delle sacre scritture: un silenzio ed una solitudine immensi quanto già un tempo il rumore ed il tumulto degli uomini che questo suo io adunava. Qua e là, in luoghi dove nessuno più posa il piede, letti disseccati di torrenti invernali, che visti da lontano sembrano anch’essi grandi strade battute, mentre non sono che l’immagine della grande onda rumorosa, che qui si abbatté della storia.

Il fiume Bradano, ed il lago di Santa Palagina, come soavi braccia azzurre, s’inoltrano in terra quasi volessero afferrarla e trarla a sé; e la terra infatti, seguendo sempre l’amoroso invito, s’allunga nei gran delti che scendono dalle montagne gibbose. Pare che il mare prolunghi all’infinito, con un più largo respiro, il silenzio musicale della costa che Metaponto volle deserta e sterile di uomini e di raccolti per prolungar nei secoli un impero a cui era stato tolto il dominio. Molte ombre lungo la costa.

Al di là degli eucalipti il mare Ionio, simile a una sconfinata prateria fiorita di bianco, di oro, di azzurro, scintilla percosso dal sole.



Gli ossami giganti.

Nel rimanente d’Italia si svolge la vita moderna vicino alle rovine, come nella campagna romana davanti ai templi metapontini si stende, invece, la deserta solitudine dell’orizzonte e del mare.

Le quindici colonne scanalate, giganti, solenni, pure come canti omerici, commoventi in quella solitudine arida, a breve distanza dalle colonne abbattute, spezzate del tempietto d’Apollo Licio, emergono su di un piccolo poggio presso il lago di Santa Palagina. Non sono inferiori i poetici ed enormi colonnati del tempio periptero esastilo che i venti e le acque hanno reso scabri, rugosi, alla poesia greca, la cui forza e la cui purezza vivevano nell’anima degli irrequieti popoli greco-italici.

Gli avanzi degli architravi di questi templi, che ricordano in quali grandi e semplici ritmi si sviluppò la vita della roggia città, sono policromi ed hanno conservato tutte le tracce della loro coloritura purpurea con palmette azzurrognole e nere e con graziose teste di leoni. Né mancano cimase tufacee piatte con esempi di rari meandri arcaici. — Museo di Potenza — Queste costruzioni non sono inferiori alla plastica metapontina, ai bronzi, alle statue marmoree, alle terracotte, alle monete col simbolo della spiga matura ed alle splendide ceramiche raccolte nei musei di Taranto, di Potenza e di Matera.

La leggenda vuole che alcuni eroi « nel tempo dei tempi, venendo quaggiù a compiere le loro prodezze, tra una prodezza e l’altra, trovassero negli architravi di queste colonne la mensa più adatta alle loro gagliarde merende ».

« lo non ho la sufficiente competenza per giudicare « sino a qual punto — nota uno scrittore locale » — queste colonne di ordine dorico, cospicuo avanzo di un « tempio periptero-esastilo eretto dai metapontini » in onore non sappiamo se di Cerere o di Minerva, resistano al confronto delle celebrate rovine di Pesto, ma esse parlano sicuramente quel sublime accordo di robustezza, di semplicità e di eleganza « quella divina euritmia greca di cui s’è perduto per sempre il segreto ».

Queste rovine riempiono tutto lo spazio intorno, occupano di sé tutto l’orizzonte ed il pensiero. Pare che non abbiano voluto più alcuna compagnia per la loro remota ed augusta esistenza, che non abbiano tollerato la vicinanza delle altre piccine costruzioni umane. Sono rimaste sole in un corruccio fiero ma sereno e muto. Intorno a loro la vita si è ritirata, la città è sparita, si è sprofondata, gli uomini son diventati diversi, il mondo stesso è cambiato. L’aria è divenuta maligna, l’egra febbre guata ora il viandante: sono spariti gli agrumeti, si sono taciute le voci melodiose d'essi, i templi peripteri immortali, restano, simboli e testimoni insigni di un’età gloriosa, di un mondo estinto, di una giovinezza che non si rinnoverà più.

Si direbbe che essi siano stati ideati e costruiti da una stirpe di semidei, che siano gli avanzi di uno stile sovrumano.

Tutte le cronache più remote sono concordi nel ricordare la scuola Italica e l'insegnamento scientifico, morale e civile dei fuggiaschi crotoniati in questo tempio che si erge con superba saldezza, tutto biancheggiante per la pietra tufacea che è nella sua compagine. Così la tradizione commemora al cospetto dei ventiquattro secoli che ci guardano dall’alto della bella rovina il fondatore della scuola italica, che andò incontro alla morte per la provocazione dei demagoghi. Anche Cicerone ricorda la casa ove trasse gli ultimi giorni il savio famoso, la sua tomba e la pietra dove Pitagora usava sedere.



Alla nobile arte di Metaponto, nel museo provinciale di Lecce, è attribuita una graziosa tavoletta bronzea sulla quale è scolpito un satiro che persegue una ninfa, ma a me sembra opera dei magistri campano-pugliesi, che nel periodo federiciano traevano inspirazione dai modelli greci. Dello stesso sepolcreto nel museo di Potenza sono conservati i frammenti delle cimase dei due templi, alcune maschere in terracotta, una stele, il magnifico torso della statua marmorea d’Apollo — che serviva da paracarro in un cortile della ridente Bernalda — molte ceramiche dipinte in bianco e nero (vassoi fregiati di pesci o di rami d’alloro), i capitelli dei sacrari dorici ed una statuetta tanagrina.

L’arcivescovo Capecelatro, di Taranto, raccolse due mosaici metapontini — raccolti fra i ruderi delle colonne Palatine — che sono esattamente uguali a quelli che il Conte di Cailus ricevette dall’Italia meridionale sotto il regno di Luigi XV senza indicazione di provenienza precisa e che fanno parte della collezione del gabinetto delle medaglie del Louvre di Parigi. Una di queste opere musive rappresenta la speranza che con una mano stringe una melogranata e solleva un lembo dei suoi veli. L’altra opera frammentaria rappresenta il busto di Mercurio ed un adolescente che lancia gli strali alla statua.

Il tempietto d’Apollo Licio ricorda il trionfo dell’arte greca prodiga e gentile. E, accanto al tempio, le mura tufacee, che chiudono Metaponto achea roggia e fiorente, si elevano ancora presso il lago di Santa Palagina. Il tempio d’Apollo già saldo nei fianchi, dovizioso di portici snelli, aperto sul porto che accolse le triremi giganti di Micene, di Taranto, di Sibari e di Roma, fu il classico scenario del dramma della gente greca. Fino a pochi anni or sono la purezza della linea architettonica trionfava in questo tempio, che aveva una iscrizione greca ed aveva le colonne scanalate, i capitelli dorici, le tegole policromi con fregi rossi ed azzurri, il sima adorno di teste di leoni e di palmette con tracce di splendida policromia ed il meandro di stile geometrico sostenuto dalla cimosa di ritmo ionico. Ma per un recente terremoto la sua interezza andò perduta; il colonnato del tempio, che era sacro alla Divina bellezza d’Apollo Licio — ciò che rivela l’epigrafe scoperta da Michele Lacava — rimane come uno scheletro informe ed enorme qua e là recante le orme del suo grande splendore accanto agli ossami dell’agora e del teatro.



I richiami della storia.

Tutto uno svolgersi di molti secoli di storia segnò le rive meravigliose della solitaria città marinara, che verso il VI sec. av. C. stipulò un trattato d’alleanza con le città achee del litorale contro Siri ionica, che fu distrutta dai tarantini. Essa vide sostare lungo il suo classico lido le schiere di Pirro e d’Annibale, lo esercito tarantino guidato dal condottiero Cleomino, che le impose forti taglie, ed i ribelli di Spartaco e di Marco Lamponio invocanti il diritto della cittadinanza romana.

Una visione di gloria e di sangue sorge davanti alla mente pensosa, che ritorna con la memoria agli antichi tempi. E passano ricordi di altre figure: i filosofi della scuola italica ricoverati in questa metropoli quando la rivoluzione crotoniate pervenne a rovesciare il governo e l'istituzione dei pitagorici; il cittadino Antileone movente furibondo insieme al popolo contro i tiranni locali; i consoli Claudio Nerone, Marcello, Fabrizio Lucino, e Fulvio Flacco, che, nella regione di Venosa, fra i monti di Grumento e lungo la costa dell’Ionio fiaccarono per l'eternità lo spirito ellenico e distrussero le schiere di Pirro e di Annibale.

Solo lo spirito soave e severo del filosofo Pitagora aleggia con l’orazione severa, esaltante la bellezza di Metaponto ellenica.

Come una smisurata palestra per il sogno, dinanzi ai candidi ossami si delinea l'ardente azzurro del mare.





CONCETTO VALENTE







Questo articolo magistrale, fa parte del lavoro storico-letterario, che Concetto Valente, ha presentato al Concorso dell'Associazione Nazionale per i Paesaggi e per i Monumenti pittoreschi, e che è stato premiato dalla giuria col premio dei Comuni e con medaglia di oro.

Del magnifico volume, che rivela l’anima del popolo meridionale e le impronte sue nella storia e nell’arte d’Italia, Concetto Valente ha letto l’altro ieri due capitoli all’ Esposizione del Paesaggio, in Bologna, ottenendo immenso consenso e successo.



N. d. d.

Autore: Da "LA BASILICATA NEL MONDO" - (1924 - 1927)

 

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