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UN'ASCESA AL VULTURE - la Basilicata - F. Di Sanza (1928)

Da Melfi, per una via che si inerpica faticosamente attraverso boschi alti di faggio e di castagni, si va al Vulture, il mondo che un tempo fu vulcano, e che ora domina le valli sottostanti in una gran pace di cielo e di verde.

Poco lontano dal viadotto ferroviario, che taglia come un’ardita linea bianca il groviglio dei roveti, si apre la grotta di Santa Margherita, nella quale un tempo i fedeli si raccoglievano a deporre i loro fiori e le loro preghiere nella mite ora del tramonto.

Sotto la volta è uno strano affresco in cui due scheletri grigiastri stendono le mani scarne su tre figure. Una è quella di un bambino terrorizzato, l’altra del padre che fa scudo col suo corpo e della madre che rivolge sguardi di incoraggiamento. Sulle pareti rose dall’umidità e dal tempo, figure di santi dallo sguardo dolce e dalle mani protese a benedire, Santa Lucia, Santa Caterina, San Basilio, San Vito, San Nicola, San Pietro, San Donato ed una vergine col Bambino.

Sul rosso altare un angelo alato che ha a destra la dolce figura del Battista, e dall’altra parete, l’immagine di Santa Margherita, intorno alla quale il pittore dipinse dei suggestivi quadretti che ricordano la vita ed il martirio della Santa: dall’incontro col Prefetto Olibrio mentre essa conduceva al pascolo le pecore, alla chiusura di un orrido carcere, dove un demonio, sotto le forme di drago la inghiottì, senza riuscire ad ucciderla, perché la vergine mite aveva con sé una croce, la quale, appena entrata nel corpo della bestia, ne squarciò orribilmente le viscere e restituì la Santa alla vita ed alla preghiera.

Intorno a questa grotta corrono le più strane leggende. Si narra che, in una notte tempestosa di inverno, un vecchio che aveva il triste privilegio di parlare con i demoni, vi condusse quattro compagni. Appena essi furono entrati, il capo della comitiva lesse in un magico libro parole strane e poi con voce cavernosa e profonda, indicò un luogo nel quale doveva trovarsi un tesoro nascosto.

Prima ancora che si cominciasse a scavare, il demonio chiese al vecchio un’anima cristiana, il vecchio si raccolse nella solennità di una lunga meditazione e poi indicò quella dei suoi compagni che era il più giovane.

Questi risposte protestando che voleva essere di Gesù Cristo. Appena pronunziato il nome del Redentore, si sentì come lo scoppio fragoroso di un tuono. Dalla terra di levarono vampe e colonne acri di fumo solforoso.

I cercatori di tesoro furono sbalzati lontano. Uno precipitò col corpo squarciato in un fosso; l’altro contro il muro del vicino camposanto. Il terzo, tutto coperto di terra e di sangue fu trovato morto tra gli sterpi ed i roveti della campagna.



Salendo su per il monte, la fatica del viaggio è come mitigata dalla bellezza del paesaggio e dalla grandiosità dei ricordi.

Su una di queste balze, Orazio giovinetto, accompagnato da Ofello, il rustico pastore che menava al monte le pecore, si addormentò un giorno, quasi avvolto tra il sacro alloro ed il mirto, al sicuro dagli orsi e della livide vipere della campagna, mentre in alto fulgeva, come avvolta dal sole Acerenza, e giù si stendevano le feconde campagne di Forenza e di Banzi.

Oggi accanto ai ruderi dei conventi coperti di rovi e che risonavano un tempo dei canti religiosi dei cenobiti che vi erano raccolti, un altro inno si leva alla grandezza del Creatore. Quello di centinaia di lavoratori che ogni giorno affidano alla terra i loro sudori e le loro speranze.

Nella conca di Monticchio, fiorisce quella che si può considerare la più importante azienda agricola di Basilicata con frutteti modello, macchine moderne, boschi rigogliosi, ed una fabbrica di conserve di pomodori che, impiantata solo da un anno, ha già mandati in Inghilterra oltre duemila quintali di prodotti.

Salendo ancora, si giunge ad una vetta da cui si ammira quello che è indubbiamente la parte più pittoresca del Vulture: la conca circondata da boschi di faggi altissimi, che si drizzano con tronchi biancastri e dritti verso il cielo.

In questa conca domina quella specie di cono che si chiama Monticchio, tutto coperto di verde, con due placidi laghi dove erano i crateri dell’antico vulcano.

Intorno ad essi, vennero per secoli e secoli a cercare raccoglimento molte anime che non potevano trovar pace nel tumulto della città. I pii eremiti che si scavarono le loro grotte nel sasso, i benedettini che costruirono la loro ormai distrutta badia di S.Ippolito, i cappuccini che ressero il bianco convento di San Michele, la cui mole si riflette nelle acque placide e silenziose di uno dei due laghi, da questa conca levarono addio la loro voce di propiziazione e di preghiera.

Salendo sempre più in alto si giunge ad una vetta dalla quale si dominano due immense vallate, e l’occhio si spinge fino alla linea azzurra dell’Adriatico.

Autore: la Basilicata - F. Di Sanza (1928)

 

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