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Sul Monte Sirino e sul Monte Papa 1934 -1937

SUL MONTE SIRINO E SUL MONTE PAPA DI LAGONEGRO

da "Basilicata nel Mondo" (1934 -1937)

E' l'una e mezza di notte; siamo scesi dalle nostre case allegramente nella strada dove ci attendono i nostri somarelli pronti. Tutto è in ordine ; passiamo in rassegna gli oggetti che ci seguiranno sul monte: i bastoni, i pastrani, gli scialli, i binocoli, le fiaccole, anche le fiaccole, poiché la notte è illune ed il cielo, per giunta, è ad intervalli tutto coperto. Temiamo l’acqua, perché poche gocce scendono lente sulle nostre teste ma è cosa da nulla e siamo in agosto: da ponente sì squarciano nubi e splendono vivissime le stelle.

Abbiamo formato una comitiva di una dozzina di gitanti, senza contare le guide, e ci avviamo solleciti verso l’ascesa. Quindici minuti di strada sulla rotabile delle Calabrie e giungiamo nella via campestre che ci porterà al Brusco e di lì, per la salita più aspra, al Monte Sirino.

Fatto solo pochi passi, ecco che c'interniamo in un folto di castagni altissimi ; è necessario accendere le fiaccole portate da due guide che ci segnano la via e proseguiamo schiamazzando nei bosco, il cui alto silenzio e le cui profonde tenebre son rotti appena dalle nostre voci e da quelle luci fumose che di tanto in tanto ci soffiano sul viso l’acre odore della resina e della pece. I grandi castagni sembrano mostri immani che si contorcano e si contraggano e par quasi che fuggano da noi inseguendosi, afferrandosi, stringendosi insieme convulsi, a misura che noi proseguiamo, salendo. A tratti, il cielo si riabbuia e si riasserena, ma noi lo vediamo poco a traverso gli enormi rami che s’intrecciano, sulle nostre teste.

La notte d’agosto non e affatto calda ; spira un’arietta frizzante, ma che è satura di tutti i profumi del bosco; pure si respira a gola piena, malgrado il fresco, e i nostri somarelli marciano con lena nella salita. Siamo in marcia da un ora sempre bosco più o meno folto, sempre castagni grandiosi, e qua e là — si intravedono appena nella notte — sono radure d’erba, rialzi rocciosi, pascoli, praticelli ancora in fiore. Ma ecco luccicare, poco lungi da noi, una striscia argentea: un torrentello scende chioccolando, ripetendo, nella notte, la sua eterna canzone. —Siamo al Brusco ci gridano le guide. Ed eccoci dinanzi, rischiarata anche un pò dal cielo, che si è tutto rasserenato, una distesa quasi pianeggiante; in mezzo, un piccolo edificio biancheggiante nella notte: e la cappelletta dove sosta la Madonna della Neve scendendo dal Santuario del Sirino. Intorno, sparsi nel piano e sulle pendici, ai piedi della montagna, innumerevoli casolari, pagliai, casette rustiche, stazzi.

Sostiamo qualche minuto; gia il petto si allarga, il respiro si fa più frequente: siamo a più di mille metri di altezza. In lontananza brillano sparsi i fuochi dei pastori. Riprendendo il nostro cammino, ci interniamo per uno stretto sentiero, in un altro foltissimo bosco; qualche quercia, qualche elce e tutto intorno gli ontani dalle belle e lucide foglie che formano dei padiglioni reali ; e qua e la pezzi brulli di terreno si alternano col bosco, zone nude, rocciose, su cui si passa a stento, su cui bisogna reggersi bene per non scivolare. Saliamo sempre: ora siamo tra i faggi secolari.

Il bosco dei faggi, che si estende sulle alte pendici del Sirino è di una bellezza indescrivibile. Tronchi altissimi e svelti si elevano al cielo con varietà di tinte e di cime, cime larghe e frondose, cime snelle e diritte che pare sfidino il cielo che non si vede se non di tanto in tanto, per il luccichio di qualche stella, a traverso 1’intrico dei rami. Si sale sempre e si ha più che mai bisogno delle fiaccole ; i nostri petti sono un pò affaticati e i nostri somarelli trotterellano appena, quantunque abituati all’aspra salita dei monti. Siamo giunti alle Chiappe; larghi strati rocciosi ci permettono appena il cammino; si scivola e bisogna appoggiarsi bene ai bastoni: siamo tutti giù di sella perché sulle bestie si correrebbe un maggior pericolo. Ora comincia a schiarirsi appena appena il cielo: non vi sono alberi in questo piccolo tratto, e ci appaion le stelle. Ma ritorniamo presto nel folto del bosco; i faggi sono grossissimi ed altissimi; per un lungo tratto la strada, per quanto sempre ripida e tra alberi fittissimi, corre larga, morbida delle prime foglie cadute, verdeggiante, ai lati, di grosse felci; siamo incoraggiati da questa strada e saliamo alacremente; pare che venga a mancarci quel leggero senso di stanchezza che ci aveva presi sulle Chiappe. L’aria è più che mai fredda; soma da nord-ovest un vento gelido e noi ci avvolgiamo meglio nei nostri mantelli. L'aspetto del bosco è pittoresco; pare che salgano dalle radici profonde mille voci e gridino su nelle foglie delle cime che si piegano l'una sull’altra contorcendosi in un brusio continuo; gridino e par che ti raccontino le lunghe leggende dei secoli.

Una croce su un grosso faggio, che non sarebbe abbracciato da quattro uomini; ci fermiamo e le guide ci dicono la leggenda. Stava un pastorello indisturbato guidando le sue pecorelle al pascolo, quando una bella signora gli apparve, tutta circonfusa di luce, seduta ai piè di quel faggio, e lo pregò che scendesse al paese a dire ch’ella voleva una chiesetta in cima al Monte ; era la Madonna.

Abbiamo viaggiato più di due ore, quando il bosco finisce d’un tratto, come per incanto, in una linea diritta che corre da nord a sud e comincia la parte brulla della montagna; pare che non la natura ma la mano dell’uomo abbia segnato quel confine così netto. Non c'è un filo d’erba, la viuzza si inerpica a zig-zag fin sulla cima del monte ed è ripidissima: vien quasi il capogiro a volgersi lateralmente; ci par di camminare sempre su un burrone.

Il cielo si è rischiarato abbastanza, abbiamo lasciato le fiaccole da un pezzo. Mi volgo a destra ed oh maraviglia il mare appare in lontananza, soffuso dei vapori argentei del mattino. Dà un grido di gioia, a cui lietamente risponde la simpatica comitiva. Ci sprona più che mai la lena di giungere alla cima, per veder sorgere il Sole dal mare: siam partiti apposta di notte. A misura che saliamo, il vento freddo ci sferza il viso; ma il nostro sguardo si spazia, nella grandezza dell’orizzonte, a dominare dall’alto tutti i monti che, di sotto, ci Sentiamo addosso, poiché essi chiudono come una chiostra il nostro paese. Volgiamo lo sguardo a destra, a sinistra: ecco, ancora illuminati, i paeselli sparsi nelle vallate, inerpicati sulle colline, distesi lungo i fiumi, ancora dormenti, ancora sognanti; eccone due lontani su la spiaggia del golfo di Policastro, eccoli tutti come mazzi di fiori gettati, con gentile negligenza, sulle pendici boscose e verdeggianti delle alture, nelle valli intersecate dai fiumi, lungo l’azzurro del mare.

Bisogna stare bene attenti sull’estrema pendice: un’ ultima spronata alle nostre bestie e siamo sulla cima, a circa duemila metri ; pare che ai nostri piedi si stenda tutto un mondo. Abbiamo intorno un paesaggio meraviglioso che non finisce mai; sono le quattro e mezza del mattino ; sulla cima del monte c'è un freddo che ci gela le ossa, ma noi pensiamo poco ai nostri corpi, tanto e grande il godimento del nostro spirito, in un attimo, siamo tutti forniti dei nostri binocoli e giriamo lo sguardo sulla natura che si risveglia ai primi canti dei galli, al primo tepore del mattino.

Il Sirino, da levante, comincia a indorarsi, l’aurora scuote con le mani di rosa i vapori tenui che la notte ha distesi, come manti, sulle pendici e sul mare; il sole sorgerà tra qualche minuto.

Vediamo dapprima biancheggiare lo Ionio ; il mattino è sereno, tutto il cielo si tinge a mano a mano di luci giallicce, auree, rossicce; infine, un immane globo di fuoco appare al di fuori delle acque. Lo spettacolo è grandioso. Il globo s’innalza e si fa lentamente più piccolo e più chiaro. Ora tutte le più alte cime sono dorate; l’Alpe di Latronico, più in là l’alta cima del Pollino, e lontano, all’orizzonte, si vede appena il selvoso altopiano della Sua. Guardiamo verso il nord: non molto lontano si snoda nella vallata, rilucente ai primi raggi del sole, 1’Agri ; gli son dintorno paesetti e villaggi fra cui s innalza il monte di Viggiano. Volgiamo lo sguardo a ponente; si stendono ai nostri piedi le valli, i bassopiani, i ponti, i viadotti, i boschi, i prati , i burroni, i monti, le colline, le vie ferrate, si snodano e biancheggiano le rotabili si illuminano i paeselli, s’inseguono e si intrecciano i Sentieri. E uno spettacolo meraviglioso; bisogna osservare a poco a poco, attraverso i nostri binocoli per non perdere 1’immensità dei frastagli, la varietà delle tinte, il pittoresco d’ogni luogo, i mille toni dei colori, i cento fiumi argentei in lontananza e le miriadi di atomi d’oro sparsi sul monti e sui boschi. Lagonegro ci appare nella sua vasta mazza in cui si distinguono ad occhio nudo la doppia fila di alberi che l’abbelliscono e le bianche case; vediamo più in là Rivello, Memoli, Trecchina, Lauria e più in là ancora Scario sul mare, che è un piano azzurro, levigato come uno specchio.

Sull’estrema punta della montagna , nella sua rustica veste con pietre unite a secco insieme, e la cappelletta della Vergine.

E' il 5 agosto e in questo giorno i pellegrini dei paesi vicini ascendono sul monte per la festa. Siamo entrati nella chiesetta piccola, angusta per tre o quattrocento persone, quante ne siamo quassù in questa giornata. Dopo la messa e le litanie c'é la processione sui crestoni del monte. Usciti dalla chiesa, abbiamo nuovamente bisogno di sgranchirci le membra dal freddo al cosidetto focone che arde in una stanzuccia affumicata, attigua alla cappelletta, e di correre poi al sole che non pare d’agosto a quest’altezza, dove c'è ancora un vento freddo che ci sferza il viso. A un tratto uno scampanio prolungato, uno sparo di colpi che non hanno eco: la processione comincia; I canti di giubilo, le canzonucce si elevano al cielo in uno col salmodiare dei preti e col suono delle cornamuse e delle ciaramelle. Nulla è più suggestivo di questo suono modulato a quest'altitudine, suono che par che dica tutta l’anima del montanaro, che racconti le sue pure gioie nei trilli vivi delle ciaramelle, le sue tristezze, i suoi tormenti nel tono minore cadenzato delle cornamuse. I suonatori hanno una lena instancabile, e pur quando il giro del monte sui tre crestoni principali è finito, il suono continua nella chiesetta e fuori ed è un intreccio di melodie, di canti, di preghiere, di sospiri e di lagrime di commozione.

I fedeli, discendono, la sommità del monte si spoglia della folla e rimaniamo soli nell’immensità della montagna. Abbiamo seguito con l’occhio la gente, finché essa è sparita tra i faggi; abbiamo sentito lontano gli ultimi trilli delle ciaramelle, l'ultimo suono cupo della cornamusa, gli ultimi echi delle canzoni ; ora siamo pronti, dopo un breve riposo, a passare sul monte Papa.

L’impresa non è delle più facili; bisogna o passare su un costone strettissimo a schiena d’asino, o fare un largo giro dal sud. Preferiamo la prima maniera e ci avviamo. Il sentiero è davvero stretto ed è irto di pietre, brullo, ruvido, che s’alza e si abbassa d’improvviso, pieno d’ogni pericolo. A sinistra, un burrone profondo, di cui si distingue il fondo che si perde nell’ombra del bosco foltissimo di cui si vedon solo le cime, a destra un pendio pietroso che mette le vertigini ; il passaggio su questo crestone è assai emozionante. Superiamo i duemila metri e ci pare che i polmoni non resistano a quest’aria. La vista spazia ancor più, l’occhio corre liberamente dal Tirreno all’Ionio e vedremmo anche Taranto, se non ci fosse, da quella parte, l’orizzonte un po’ offuscato da una leggera nebbia.

Ridiscendiamo dal monte Papa, percorrendo l’altra strada e bisogna camminare di buon passo per giungere al Sirino in più di mezz'ora, durante il qual tempo ammiriamo il più bel paesaggio. Si estendono, sotto il nostro sguardo, boschi secolari, si intravedono burroni orridi, nude rocce, piccole punte qua e là, in lontananza, prati verdeggianti in cui pascolano i greggi e gli armenti.

Oh beata solitudine " lungi il rumor degli uomini ! " Qui nessun eco del mondo e della vita, qui nulla giunge delle passioni degli uomini, e pare, in tanta serenità; che non possano esistere, pur nel grigio uniforme della folla umana, le tante lotte che travolgono e infrangono le esistenze. Pare che quest’aria viva e fresca che ci inebria e ci fa sentire leggeri, spiri ovunque; che questo senso di amore per la terra, questa spiritualità a cui assurgiamo con l’anima, sentendoci in alto tra terra e cielo, sia fonte di amore per la Natura, di fronte a cui ci sentiamo atomi sperduti. Che cos’è 1’uomo al cospetto di essa? Eccola qui a noi davanti la natura possente, dominatrice nell’universo, che non ha cura dell’uomo e lo schiaccia, la natura che, nell’anima del grande e infelice poeta cangia il dolore dell’uomo, in dolore del mondo!

Abbiamo goduto quanto di più bello ci possa essere in queste alte montagne, abbiamo assistito ad una caratteristica festa campestre, abbiamo provate le emozioni del pericolo; ora ridiscendiamo quasi tristemente, come chi lascia un bene che non potrà riavere più mai. Eppure la gita è stata meravigliosa; forse ci hanno un po’ stordito le tante diverse impressioni ed anche ci vince un po’ la stanchezza, poiché, dato il gran pendio delle vie, dobbiamo discendere a piedi. Si corre però, ed in quindici o sedici minuti percorriamo la parte più alta e brulla del monte. Quando giungiamo nel bosco secolare dei faggi, possiamo bene osservare tutte le varietà, tutte le minuzie del bosco, che di notte ci sono sfuggite. Il sole passa appena, in piccoli raggi, a traverso le cime degli alberi, e giunge sulle nostre persone e sul terreno rivestendoci come di un ricamo sottile. Le foglie morte già cadute, che formano in qualche punto un tappeto, luccicano quasi riprendessero vita.

Camminiamo silenziosi, ma una sorpresa ci attende: due suonatori di cornamusa e ciaramella ci hanno aspettato e con essi continuiamo la via del ritorno allietati del suono, ridivenuti giulivi.

Quando usciamo dal bosco e torniamo lo sguardo in su, verso la cima del monte. ci pare d’aver sognato di giunge re così in alto Poc’altra strada ci avanza e il sole è all’occidente tutto l’orizzonte arde in una vampa rossa. E l’ora nostalgica del tramonto; le ultime luci vermiglie, e in esse l’aria e piena di bisbigli di uccelli, di suoni lenti di campane, del chioccolio dei ruscelli, del brusio delle foglie, di canti malinconici, dei sospiri delle cose; poi, mentre noi giungiamo alle nostre case, tutto sì addormenta nella placida notte.

Autore: da "Basilicata nel Mondo" (1934 -1937)

 

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