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IDIOMI E NATIVISMI LINGUISTICI - Un poeta del Vernacolo

Piccola cosa, ma significativa, dedicare una targa ricordo, affissa alla parete dell'aula delle riunioni della Scuola elementare di Corleto a imperituro ricordo di un educatore, Giovanni Pinto, che qui svolse con passione il suo servizio e, più ancora, per i due volumi "QUISQUIGLIE" e "DIZIONARIO DEL DIALETTO CORLETANO": due perle frutto di appassionata e meticolosa ricerca antropologica e linguistico-idiomatica.
La cerimonia di scopertura della targa commemorativa, avvenuta il 6 novembre 1995 nella ricorrenza dell'anno ottava della sua scomparsa ha assunto un significato emblematico e di testimonianza per la presenza dei Presidente dell'Esecutivo della Regione, Prof. Raffaele Di Nardo, già Ispettore Scolastico, che conobbe il Nostro e ne apprezzò iI suo zelo.
Ma chi fu Giovanni Pinto e che cosa resta di Lui?
Fu uno studioso assiduo e impegnato nella pratica pedagogica e didattica sorretto dalla tensione di raccogliere dei passato l'eredità dei valori vissuti dai nostri avi per trasmetterla alle nuove generazioni.
E spese, invero, il suo tempo libero nell'assemblare, interpretare, commentare e tramandare quei grani di antica saggezza che, come il chiarissimo Prof. F. De Piscopo scrive nella prefazione al volume "Quisquiglie", "tendono sempre ad opporre, come in una rivoluzione vichiana, all'idea dei tramonto quella di una nuova alba del mondo". Nell'alveo della Scuola, i nativismi linguistici e il folklore costituiscono la forza rivoluzionaria volta alla riscoperta dei valori autentici della tradizione e al recupero dei significato profondo della propria storia. Acquisire consapevolezza, da parte della Scuola, della difesa dei dialetto significa rispettare la conoscenza di ogni singolo parlante e farne la base per lo sviluppo cognitivo e per l'apprendimento di quell'altra forma linguistica essenziale che è la lingua nazionale scritta e parlata. In particolare, il collegamento tra formazione della lingua nazionale, assunzione della lingua minoritaria o dialetto e inserimento di una lingua straniera, va considerato come modalità educativa ineliminabile, come "trilinguismo" integrato destinato ad arricchire la coscienza linguistica dell'alunno. Nella scissione lingua-dialetti che, sottende la tradizione antipopolare di certa "cultura ufficiale", si può rinvenire una delle ragioni dell'assenza dello Stato nelle sorti dei lucani, calabresi, siciliani, ecc.
In "Quisquiglie" il Nostro si pone nei confini circoscritti dal vernacolo: remoti riti, culti e cerimonie, idiomi, usi e costumi dei nostri avi. E lo fa con cadenze mimiche, sapori, quadretti di antichi dettami, distici, rimpianti. Talora l'uso improprio non puramente referenziale apre la strada all'enigma, al discorso in cui caso e intenzionalità vanno a coincidere:

L' trav' facievn' ngoffl' e scoffl'
(le travi Facevano infila e sfila)

dove si coglie, con assoluta pregnanza, la visione, il movimento, il rumore, il suono rauco e lugubre delle travi mosse e rimosse dal sisma con movimenti cadenzati come in una danza. Si coglie, peraltro, l'immagine, il colore, la veemenza sonora di un'eco che annuncia testimonia apocalittici eventi come il suono "terribile" della tromba nel verso latino:

"AT TUBA, TERRIBILE SONITU, TARATANTARA DIXIT".

La stessa pregnanza ed efficacia semantica si percepisce nei proverbi, aforismi ecc. contenuti in "Quisquiglie", che si chiude con due bellissime liriche: "Rom' e "Fontana vecchia" a compendio anche della Sua vicenda esistenziale che si proietta, oltre il tempo, in una perenne e appagante quiete.
Nelle due liriche vi sono i ricordi e i rimpianti del passato e, del futuro, la sola speranza di sopravvivere: oltre il tempo che finisce al di là dell'ombra che chiude la pupilla impietrita.
Si avverte nella lirica "ROM" un pessimismo cosmico che è fratello alla nostalgia: nostalgia di chiese, di archi, di fontane e monumenti, di giardini, di piazze e di atmosfere di incanti fascinosi. Alla nostalgia risponde con intensità altissima e can variazioni emotive vertiginose confluenti un una rassegnazione appagante e premiale di auspicio beatificante:

E quann' a qua cient'ann'
Ci hamma sci' a riponn',
Tutt' c' vulim' turna',
S` pur' cu' I' pied' stis',
Sarim' sazz` e cuntient'
Ch'amm' vist' tutt' u munn' bell'.

(e quando fra cento anni / ci dobbiamo andare a riporre,/ tutti ci vogliamo tornare,/ sia pure con i piedi stesi,/ saremo sazi e contenti/ che abbiamo visto tutto il mondo bello).
Qui il conflitto di Giovanni è causato da un incoercibile desiderio di rinascita della fierezza di un'appartenenza. Egli, infatti, vuole rientrare in possesso della propria identità di corletano verace, castrata dall'integrazione col "MONDO BELLO".
Nell'altra lirica: "FONTANA VECCHIA" col sottotitolo: "CCE' PENZ'N' STI FRUSC'CUL' DI NUI" (che pensano di noi questi animali), assistiamo a un incontro-scontro sublime tra due versanti culturali: quello egemone (nomm' = un uomo) e quello subalterno: (na crapett" = una capretta) che "ACCHIETT' A NOMMN' / CA VIVIV' / A RA STESSA FORRA SOIA". Si tratta di un coaugulo dove la raffinatezza poetica raggiunge una forza inusitata: la comunanza e la solidarietà della sua gente è distorta e vissuta fino a rinnegarsi e diventare mutazione e ognuno si pone al riparo, col nichilismo, da chi non ha rispettato i suoi bioritmi: "E NON' VULETT' VEV' CCHIU, / NE' TANN' CHEDDA SERA, / NE' TUTT' L'AT' SER' APPIERS`" (e non volle bere più, / nè allora, quella sera, I nè tutte le altre sere appresso).
I pensieri segreti divengono, così, la sostanza colata nella forma delle paure segrete: 'N` EBB' SCHF', CA TANT' / CIASSETT' NDRET'" (n'ebbe schifo che immantinente fece marcia indietro). In questa lirica si coglie la coscienza della trasgressione e del risarcimento come metafora di un razionale disinganno.
Gli archetìpi emblematici che, con le loro suggestioni, sembrano interferire con l'antropologia, la psicologia, la sociologia e la psicolinguistica, restano come il segno astratto di una realtà storica e sociale che attende di essere recuperata alla vita.
In questa lirica, tutto è scandito dal battito scrosciante, monotono, eterno del gesto d'acqua "sprecata" "MA Jè COM' P'RDUT'": il battito severo e uguale, come suono di zampogna, che scorre incessante da mattina a sera, "qui" ed "ora" senza orizzonti.
Quel velo di nebbia e di pianto che avvolge la vecchia fontana, dà a questa lirica l'intensità del suo esserci nell'atto e nell'integrità del vissuto.
Noi rileggiamo queste liriche con stupore, anche se non con lo stesso stupore e verità che ispirò il suo autore.



tratto da "BASILICATA REGIONE Notizie, 1995

Autore: Antonio Montano

 

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