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Giacomo Di Chirico
dalla Basilicata nel Mondo (1924 - 1927)

 

Nacque in Venosa, città dalle molte vite, oraziana e romana, normanna e mistica, tomba de’ Guiscardi, culla di tutte le primavere lucane.

Orazio vi era nato in una casa di liberti. E nessuno, fosse stato pure di spirito profetico dotato avrebbe potuto mai presagire in quel nato da schiavi, brutticcio di forme e infetto da oftalmia ereditaria, il più grande poeta civile di Roma imperiale e il più gran cantore del sorriso e del gaudio della vita umana. Giacomo Di Chirico vi nacque, il 25 di gennaio del 1844, in un tugurio di poveri, tra lo squallore e il dolore. E nessuno si accorse che, dopo un silenzio oscuro di secoli, un’altra luce di genio si era accesa in Venosa, ai piedi del monte Vulture, nell’anima inquieta e nella carne malata di quel figlio di poveri, il quale, adolescente ancora, intonava già il suo spirito a tutte le più ardue sinfonie dei colori, per rivestirne le ardenti figurazioni e le forme vive, entro cui si incarnava idealmente, come in un mito, la sua visione di artista inespresso, ma che già sentiva in sé rombare e fervere e tumultuare e continuamente creare la forza del suo genio, e la misurava, e la vagliava sul battito del suo vasto cuore e sull’angoscia del suo divenire, prima ancora che esporla al giudizio e alla misura degli uomini.

La sua giovinezza è la tragedia del suo divenire. Giacomo Di Chirico ha, infatti, la coscienza di sé. Ma se la madre, nel metterlo al mondo, aveva pianto, pensando alla oscurità e alla povertà, cui il destino di gente grama dannava quella sua creatura, nella quale il fato beffardo aveva infuso la favilla del genio, Egli dovè addirittura maledire la vita, che, con la sua realtà cruda di miseria e di stento, lo umiliava in cospetto del suo medesimo genio, precludendogli la via dello studio e del trionfo.

Doveva dunque il suo sogno di arte e di gloria spegnersi, in un crepuscolo di larve, il suo genio intristire, nell’umile bottega, ov’egli, fino al ventunesimo anno, esercitò, per vivere, il mestiere di barbiere?

Pure, a quando a quando, la sua notte si schiara, la sua speranza si illumina, la sua tragedia sembra placarsi. Ed è quando Egli può lasciare l’abietto pennello da sapone, per brandire il glorioso pennello di pittore. Fa parecchi ritratti e li mostra. Non conosce scuola, non sa né di tecnica ne di metodo, ignora disegno e decorazione. Il suo unico maestro è il fratello Nicola, scultore. Ma il genio, che aveva guidato la mano di Giotto pastorello in riprodurre sulla pietra le sue pecore e i suoi cani, e la sola grande risorsa di Giacomo Di Chirico. Egli è nato pittore.

I suoi ritratti sono definiti ammirevoli: da questo giudizio del fuoco, Egli esce con la fama di colorista armoniosissimo e di ritrattista efficace.

 

 

Ed è così che, fatto audace da questo successo, né grande né piccolo, domanda al Comune di Venosa un assegno mensile, per venirsene in Napoli a studiarvi pittura.

Il sussidio gli vien concesso, con deliberazione del 6 ottobre 1865, per soli due anni, il 1866 e il 1867, con la clausola che gli sarà continuato qualora egli dimostri di trarre dagli studi ottimo profitto.

Nell’ora della gloria, Giacomo Di Chirico, con gratitudine commovente, si ricorda di questo benefizio. Ed è largamente munifico dei doni della sua arte al suo paese natio, quando i suoi quadri, ammirati, ricercati e contesi in tutte le parti del mondo, adornano le pareti dei re e pendono dai loro arazzi.

E venne a Napoli, che si era al crepuscolo dell’Accademia.

Il seicento fu splendido per 1’arte italiana e per la scuola napoletana, la quale ebbe il torto, per certi storici dell’arte, 1’unico pregio per noi, d’aver studiato nel popolo le figure, le strutture dei volti, senza tener dietro ancora alla maniera sbiadita, convenzionale. Ma la gran licenza immessa alle tele, capita malamente dai seguaci, dette principio a quella decadenza che, nel settecento, divenne degenerazione. Il Solimena, continuatore di Luca Giordano, unico capo scuola, quantunque popolarissimo, non fece gran che di utile all’arte; nel senso reattivo, anzi, a dir vero, più male che bene; e i discepoli furono quale era stato il maestro: settecentisti ammanierati, che si discostarono dal vero in tutto e per tutto.

E si seguì a questo modo un pezzo, in uno stato di apparente stazionarietà, con rari barlumi di risveglio per l'arte vera, sino all’epoca napoleonica, la quale inceppò moltissimo i pittori, perché, piena d’apparente libertà, la nazione non se ne potette giovare gran fatto, né pensò giammai a trarne un profitto qualunque. L’arte ufficiosa ed ufficiale, quella che restò più a lungo, ebbe un carattere ridicolo col tentativo gretto di tutto romanizzare per l’occasione, in omaggio e in olocausto al Cesare di Aiaccio. Fu il capo d’un travestimento mancante di convenienza, e la forma ed il contenuto non furono mai d’accordo.

Lo scultore Costanzo Angelini creò una scuola di disegno per mettere un argine alla decadenza, e nessuno lo poteva meglio di lui. Ma se questi fu il purista per eccellenza dell’epoca, e dette la spinta al risorgimento, non creò una scuola con carattere proprio nemmeno nella scultura. La sua riforma non ebbe questa influenza, sì che 1’Accademia di poi s’impose, col suo purismo, che per l’Angelini, veramente, era stato mezzo e non scopo, come lo intesero i suoi seguaci.

Tutta una schiera numerosa di artisti di merito seguirono senza dubbio questo maestro comune, ma è un progresso relativo il loro, ed ognuno, che si eleva dal branco, ha una certa maniera propria di fare, maniera per nulla originale, perché non è il frutto di una osservazione esatta, naturale o personale. E 1’acquisto, tratto dallo studio di un autore piuttosto che da un altro, la maniera che si gabella per scuola da certuni, e la differenza di questi artisti nella pittura, i quali vengono dopo il riformatore, è grandissima; l’unica nota uniforme è la correttezza di disegno, che rifugge dai contorcimenti impossibili dei pittori della piena decadenza.

Il colorito, ad esempio, è sempre e generalmente falsato, e la disposizione delle figure e gli studi di luce sentono di regole amovibili, sentono troppo di quell’Accademia, che entra e penetra dovunque. Lo studio del vero non era entrato ancora nella coscienza di questi alunni del purista per eccellenza. Però nomi splendidi, per 1’epoca in cui fiorirono, restano e resteranno ancora, ma per dare solamente un contributo alla storia dell’ arte in tutte le sue manifestazioni.

Tommaso De Vivo, ardito nella composizione, come si disse dai critici suoi coetanei, uomo di grandi idee in molti dipinti, e nella Cronaca del Convento di S. Arcangelo a Baiano del 1577, ed in altre opere, ha sempre un colorito falso, e prova ne sia una testa, (1820) studio dal vero, esposta alla Promotrice di Napoli di quell’anno, d’una correttezza di disegno eccezionale, ma di un colorito giallastro di carta pecora che non può esistere in natura. E con lui, Giuseppe De Mattia colori quasi sempre a maniera; Camillo Guerra, disegnatore di vaglia, colori assai malamente, e tutti su per giù gli artisti della prima metà del secolo o peccarono nella composizione, o nel colorito, e nessuno s’affermò seriamente.

I due, che raggiunsero la perfezione, senza creare una scuola, ma seguaci senza numero, furono lo Smargiassi, paesista, ed il Mancinelli, già delizia dei nostri vecchi, i quali non sanno parlar di certi artisti senza un lodevole entusiasmo. Ma, quando il giudizio su di essi è cambiato moltissimo per il nuovo indirizzo dato all’arte, mentre non possiamo negare che nel gran cammino percorso dalla pittura, oggi, un giovane colorisce con più verità dei vecchi maestri, dobbiamo riconoscere il loro merito relativo e giudicarli anche adesso non come il prodotto moderno, o, per dir meglio, isolatamente, ma nelle condizioni artistiche dell’epoca loro, all’infuori della quale non s’intende più il lavoratore e la sua produzione.

Saremo sempre riverenti per i vecchi per 1’incremento dato all’arte e per le difficoltà immense, insuperabili, le quali hanno dovuto superare, ed all’istesso tempo riconosceremo la superiorità della pittura moderna su l’antica, derivata dallo studio assiduo del disegno di quei maestri; e mai parola di biasimo, o di leggiera ironia velerà il nostro viso.

Lode sincera adunque sia al Camuccini, che informò la sua maniera allo studio di tre Grandi: Raffaello, Domenico Zampieri, detto il Domenichino di Bologna, ed Andrea Vannucchi, conosciuto meglio per Andrea del Sarto. Egli — creando pitture non degeneranti dalla dignità antica e schiettamente italiane, come dice Pietro Giordani, pose il miglior puntello alla decadenza e formò Nicola De Laurentiis e Giuseppe Mancinelli, l’ultimo, poi, che alla sua volta doveva dare i principi al Palizzi ed al Morelli, unici e veri creatori della scuola napoletana moderna.

Difatti il Palizzi, nella pittura di paese, ed il Morelli nella pittura storica, intese largamente, furono i primi ad allargare 1’ambiente, o 1’orizzonte artistico ai giovani, dopo di aver durato fatiche immense per trovar da soli la buona via, con la scorta del loro ingegno e, forse, della gran coltura, alla quale, io credo, vanno debitori del successo più che ad altra cosa. Ma non è da ritenersi che l’opera di questi Grandi si sia affermata senza battaglia.

L’ Accademia restava sempre a contrastare ai due ingegni novatori la gloria per le opere loro, che, con frase vecchia, portarono la rivoluzione nell’arte; ed i giovani, che, qui in Napoli, venivano a studiare, non cominciavano mai dal mettere in pratica i principi dell’uno e dell’altro, o seguirne le idee, ma davano il tributo all’Accademia, perché in Accademia, in quell’ambiente falsato, era vergogna, presunzione o peggio seguir altra via diversa da quella dei vecchi, legati ancora troppo a certe regole, che, in verità, non si potevano sradicare così alla prima senza tener conto del loro lungo dittatorato.

I giovani cominciarono tutti accademici, molti usciron di qui buoni a nulla, pochi, più accorti, ruppero le pastoie e si misero sulla retta via, pochissimi, i veri eletti , riuscirono a lasciare orme dell'arte loro.

In questo periodo si svolse e si formò la personalità artistica del Di Chirico.

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Forte di gioventù e di buon volere, quantunque privo di mezzi sufficienti alla vita, e cominciando la lotta sin dai primi giorni, tra i desideri di giovane e 1’amore di raggiungere il suo scopo, studiò all’Accademia di Belle Arti, e, nelle ore libere frequentò lo studio del De Vivo, il quale 1’amò pel suo ingegno e pel suo carattere, ed il giovane si legò al maestro con forti vincoli d’ amicizia, e mantenne di poi una costante ammirazione pel vecchio artista.

Rimase due anni con lui, mentre frequentava 1’Accademia assiduamente, ed il suo ingegno si svolse mirabilmente; ma s’avvide a tempo che non poteva sopportare più a lungo la tirannia delle regole inflessibili della scuola classica. Egli capì la via falsa, nella quale s’:era cacciato, capi che la pittura del maestro aveva già percorsa la sua parabola e, perché non voleva dispiacergli col disertare, e non voleva perdere ancora il suo tempo, dopo la conoscenza della maniera del Morelli, che aveva per base 1’osservazione di tutto ciò che è reale, lasciò Napoli e partì per Roma.

Quivi Egli allargò le sue vedute artistiche con lo studio della natura e con la spinta avuta dalle opere di tanti giovani, che correvano alla città papale, e quivi pure Egli cominciò i primi sforzi erculei per disimparare o modificare tutto quello che aveva già appreso in Accademia. Studiò seriamente in questa epoca con tenacia incredibile, e combattè contro le difficoltà immense che pongono l’arte e la vita. Egli provò tutto, e la dolorosa via, che mena al compimento di certi ideali, la percorse palmo a palmo, godendo le fantasticherie e gli entusiasmi della sua mente giovane, patendo le acerbe disillusioni e le lotte intime degl’ ingegni, che vanno incontro al segno misterioso del destino nell’ avvenire.

Stette tre anni a Roma, visitò le principali pinacoteche italiane, e, quando fu formato, tornò in Napoli e vi aprì uno studio di pittura con vita propria, ma fece sempre tesoro dei consigli del Morelli.

Dura fu la lotta del Di Chirico per uscire da un ambiente che non aveva nulla di preciso, di assodato, di organico, e questa lotta, che tempera il carattere o lo forma addirittura nei giovani, che sanno durare in essa, è forse la prima e la miglior cagione della sua originalità, ma non è la sola, a nostro credere.

Il Di Chirico, e con lui il Michetti ed il De Nittis (morto pure immaturamente), la prima origine della personalità artistica la debbono certamente ai due maestri napoletani, il Morelli ed il Palizzi, ma anche, e in maniera positivissima, al loro sentimento profondo della natura vergine, della quale hanno quasi carpito il segreto nella osservazione e nello studio minuto dei particolari e delle ombre, reso facile ad essi, già abituati inconsciamente a cogliere quei punti originali, che sfuggono ai profani.

Gli artisti più abituati all’osservazione del visibile e della natura sono sempre. superiori generalmente agli artisti, che vivono di astrazione teorica, più compassati, più esatti, più aristocratici. Gli artisti, che vengono dalla campagna, portano con loro tutta una nuova vita giovane nella già immobilizzata e monotona vita della città.

E come spalancare all’alba di primavera le finestre di una camera, che fu lungamente chiusa.

Il Di Chirico non vede solamente la natura, egli la studia continuamente ed inconsciamente, quasi per 1’abito contratto a vivere in essa e di essa. E questo studio, che mancava assolutamente negli antichi, diventa necessità negli artisti nostri e li rende più apprezzati di quelli. Or chi non sa che la natura è la prima se non 1’unica maestra dell’ artista?

Giacomo di Chirico, oltre a le sue qualità acquisite, deve la sua fama, esclusivamente, o in gran parte, a questo studio coscienzioso, a questa interpretazione esatta della natura, esatta, perché egli non copia meccanicamente, ciò che sarebbe un errore, ma sceglie, armonizza, dispone, connette ciò che la natura offre in frammenti, e questo suo bene vedere, a differenza d’ altri che vedono male, è la qualità principale, fondamentale di tutte le sue opere.

C’era bisogno assoluto, per la perfezione dell’arte, di tutta una successiva osservazione del vero, e questa doveva essere 1’opera di molti. Il Di Chirico, principalmente, ed altri, con qualità spiccate per tali osservazioni, hanno abbreviato quasi il tempo, diciam così, della osservazione, per produrre opere complete, nuove, originali, e metter 1’arte su di una via più razionale, che risponde al concetto moderno della vita.

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Ma, come Verdi ai suoi compagni e ai suoi maestri del Conservatorio di Milano sembrò che non sarebbe stato mai altro che un mestierante di musichetta da oratorii sacri, per le pievi delle campagne, così fu giudicato che Giacomo Di Chirico non sarebbe stato mai qualcuno.

Egli era un assorto e sembrava un assente; perseguiva i fantasmi e le forme del suo genio, maturava, nel silenzio e nel raccoglimento, la sua anima essenziale di artista, cercava le materie, ch’egli avrebbe animato del suo genio e della sua creazione, e questo periodo di sosta, di attesa, di profondo travaglio spirituale e ideale sembrava inerzia e inettezza. Lo si giudicava incapace di fronte alla scuola e alle scuole, mentr’egli era già un temperamento artistico eccezionale ed eletto; e non sapendo o non volendo irretire e sterilire la chiarezza latinamente semplice e armoniosa del suo talento originale nelle tortuosità e nelle ambagi della maniera, della imitazione, della derivazione, si staccava da tutti, pure ammirando i grandi maestri, e compiva in sé tutto 1’immenso ciclo di una rivolta artistica, che può essere discussa e definita e anatomizzata nei suoi pregi e nei suoi difetti, ma che, innegabilmente, ha lasciato traccia, nella storia della pittura dell’ ottocento italiano, anzi, europeo.

Da questa angoscia dell’ originale, prima giornata di trionfo, di riconoscimento e di affermazione, esce il “Buoso da Duero ,,. Con esso, 1’artista nasce ed è già grande. Ed il trionfo è tutto del suo temperamento potente, della sua genialità originale, dei suoi istintivi fermenti di rivoluzionario dell’arte, che arresta la sua violenza solo di fronte alla realtà originale della natura universale.

Ma, prima di indagare il contenuto ideale ed estetico dell’ opera di arte di Giacomo Di Chirico, non è forse inutile tracciare a grandi e rapide linee il quadro storico-ambientale della pittura italiana, nel tempo in cui egli scandiva, uno dopo l’altro, i culmini, sui quali aveva prefisso di agitare la fiaccola della sua arte.

L’ ottocento pittorico italiano è il secolo classico di tutti gli ondeggiamenti, di tutti gli smarrimenti, di tutti i vaneggiamenti. Imitazione e derivazione, idolatria di modelli e feticismo di scuole, con la inspiegabile predilezione per le specialità, i dogmi, le tendenze, le teorie esotiche, gettano la pittura italiana nell’ orgia e nel pargoleggiamento. Tutto è resurrezione, niente è creazione. Il personalismo dei maestri e dei capi-scuola di ogni tempo assorbe le pleiadi dei seguaci ottocentisti italiani. E così tutta la produzione pittorica del secolo ci appare come un enorme cantiere di rifacimento, per non dire di contraffazione, che, qualche volta, assume toni e pose grotteschi di incubazione.

Vi si trova di tutto. Pittori — e a giudicarne almeno dalla perfetta tecnica, con la quale dipingono, si direbbe che potessero avere delle idee personali da realizzare nella poesia del colore — i quali declamano sul bagliore e sul tono di quel divinissimo sorriso carnale, vivo come la vita, onde Leonardo animò il volto bello di Madonna Lisa del Giocondo. E chi vi scarna, fino allo scheletro, in una iperbolica mania di spiritualizzazione convenzionale, le sue figure muliebri, sui calchi di Giotto e gli schemi di Cima da Conegliano; e chi nimba e aureola di santità e di purità, alla maniera di Raffaello, del Ghirlandaio, de 1’Angelico, ogni volto di tisica o di “ coquette ,, ; e chi arììa le carnalità opulente, o luminose, voluttuarie, di Sandro Botticelli, del Tiziano, di Guido Reni. Negletto, anzi reietto, il paesaggio : mistura di scuole, di tecnica, di metodi:

dai lindi fiamminghi alla Van Dyck ai tenebristi alla Rembrandt, già con qualche incrinatura di futurismo, che si palesa nella assenza della linea e nella policromia invadente, confusionaria, qualche volta stridente.

Questo è il triste ottocento pittorico italiano, conteso da macchiavelli e divisionisti, che passa vuoto e sgargiante. Nessun pittore di genio, nessun creatore vi appare sin presso la fine del secolo, quando emergono, improvvisi, come da un mare desertico — e sono però figli spirituali del novecento, e si ricollegano alla gloria della Rinascenza, il principe dei paesisti dell’Italia moderna, Francesco Paolo Michetti, e la luce dei ritrattisti contemporanei, Domenico Morelli.

Quali le cause della decadenza della pittura italiana, nell’ottocento, che in ogni altro campo dell’arte, della letteratura, della filosofia, della scienza e della storia, è un secolo di ravvivamento italico? Desistiamo dallo indagarle, perché "non est hic locus".

A noi preme rilevare come tra i pochissimi pittori originali dell’ottocento, Giacomo Di Chirico abbia il suo posto e lo tenga con dignità e valore, allineando contro 1’ altrui ciarpame decorativo ed imitativo la sua produzione limitata, ma emanazione schietta e diretta del suo spirito di meditazione e delle sue attitudini creative.

Egli comincia e finisce in sé: il suo mondo può essere angusto, ma non vi è in esso una sola idea — che non,sia sua, e ch’egli non abbia espressa con tutta la potenza originaria, di cui il suo genio lo faceva capace.

Qualcuno ha detto che la causa principale della mancanza di originalità nei pittori italiani del secolo XIX deve attribuirsi al fatto, ch’essi erano gente troppo cerebrale ed erudita, che si era fatta una cultura umanistica a spese della propria anima.

Io non so che cosa si voglia con ciò veramente dire, e non so se sia vero — anzi io non lo ammetto — che la cultura sia dannosa alle facoltà creative, all’ originalità dell’ artista. È però vero che Giacomo Di Chirico non aveva altra cultura artistica, se non quella, che si era formata nello studio e nella osservazione di quell’infinito poema di ogni bellezza perfetta, ch’è la natura: la quale è muta, come osservò Oscar Wilde, per chi non la sa intendere è non sa entrare in comunione di anima con la sinfonia eternale di acqua, di fuoco, di cielo, ch’ essa intona perennemente a l’Inconoscibile; ma, a chi la sa comprendere, e ha occhio per scrutarla, discopre la divina fattura delle sue forme incorruttibili e gli accende lo spirito di quella paradisiaca ebrietà, che, come ai mangiatori di loto e di ambrosia, dà il senso vertiginoso della divinità.

Frutto di questi colloqui di Giacomo Di Chirico tra la sua anima e 1’infinito, fu il Buoso da Duero il lavoro della rivelazione e dell’affermazione, ch’era già una rivolta artistica e ideale da lui interamente compiuta nel suo spirito e fuori del suo spirito, nell’ambiente e nella materia della sua arte e nella stessa fiammella animatrice di tutto il suo divenire artistico. Col “ Buoso da Duero ,, Di Chirico ha trovato definitivamente la forma della sua arte. Questo quadro, che è un punto di partenza, è anche una meta. Esso è già gran parte del cammino e della misura artistica di questo pittore di genio, la cui ascensione nel cielo dell’ arte e la cui vita furono brevi come il guizzo di un chimera: tanto brevi da non consentirgli né soste, né tappe, ne tregue. Dopo il suo “ Buoso da Duero ,, egli non conobbe, non ebbe più che delle mète ardenti da attingere e da superare: e non si sarebbe fermato ad alcuna di esse, se non lo avesse fermato la follia.

Ricordate Mazeppa di lord Byron? Così la cavalcata ardente di Giacomo Di Chirico, nei campi dell’arte e della vita: una galoppata verso il mistero.

La sua opera di arte — incompiuto — ciclo mostra, qua e là, qualcosa di mutilo, di ferito. Si è ch’egli aveva febbre, aveva fretta, e non indugiava mai a rivedersi perché il genio urgeva e, forse, egli presentiva la calata sul suo cervello di quella terribile ombra di insania, che glielo disfece, e lo uccise.

Ma la tragedia di Giacomo Di Chirico artista non ha soltanto questa origine.

Come Federico Amiel, egli accoglieva nel suo cuore il canto di tutta la vita e di tutto il sogno:

il canto e il pianto. Come avvenne ad Amiel, il quale distrusse la vita nella più furibonda lotta tra la lontana visione di un ideale altissimo di arte e di gloria, e la impotenza umana a renderlo in atto, avvenne così a Giacomo Di Chirico che ogni suo pensiero, ogni sua visione, ogni sua idea di arte fossero sempre la sostanza impeccabile di un capolavoro, mentre ogni suo colpo di pennello rivelava, al suo spirito tormentatore, tali mende, che il suo genio non bastava a soffondere di luce, a eliminare, e quindi restavano ineluttabilmente fra lui e il suo sogno, eh’era la soggiogazione della bellezza infinita, la perfezione, l’assoluto racchiuso nella relatività delle forme, e annientavano il suo ideale di artista implacabile.

Ma Federico Amiel si rassegnò, ebbe il coraggio di scrivere il suo “ omnis moriar ,, mentre proprio attendeva al suo “ Iournal intime ,, che — il filosofo non ne ebbe coscienza — lo avrebbe salvato dal morir tutto.

Il temperamento di Giacomo Di Chirico compì invece la sua tragedia di artista e la fece più immane. Anch’egli ebbe coscienza della irraggiungibilità del suo sogno, poi che il suo genio era limitato e illimitato era soltanto li suo ardore. Ma si ostinò a volerne stringere qualcosa: e volle confinarlo e definirlo, perché non andasse tutto in cenere e in frammenti e non si ritrovasse vuote le mani, arido il cuore. Lavorò a farsi piccolo, come già aveva lavorato per divenir grande. E al suo sogno di arte volle dare 1’anima, la voce della sua Terra. Era come trasportarlo dall’infinito al finito. Non vi riuscì e finì col distruggerlo. Volle costringere, piegare la sua arte, e costrinse invece e piegò sé stesso, l'anima sua. Ne divenne folle. E la follia dovè abissalmente piangere nel suo cuore, come la sordità di Beethoven. Ma i critici — che Dio li perdoni — di Giacomo Di Chirico non compresero nulla della sua eschilea tragedia di artefice — tutta contenuta nel suo spirito— e dissero eh’egli aveva messo le scarpine di raso e gli abiti di seta ai buoni villici di Basilicata, per farli camminar sulla neve delle fosse, come in un salottino alla Pompadour.

Né meno vasta della sua tragedia di artista fu la sua tragedia umana. Si riassume in poche date: a venticinque anni, Giacomo Di Chirico era nessuno; a trentacinque era glorioso; a trentasette era folle; a trentotto era morto.

La sua arte gli sopravvive, perché essa è una pagina eterna: guardiamone le quattro opere capitali.

Il   “Buoso da Duero,, nella sua violenta genialità originaria, è 1’opera della rivelazione e della affermazione di Giacomo Di Chirico. Con esso, egli, che non era stato mai, si può dire, discepolo, si dimostra degno di entrare nella schiera dei maestri. Ma che cosa è, dunque, questo quadro tremendo?

Un uomo, un nome, che ha una storia simile a una leggenda e non appartiene né alla vita né al tempo, ma che, per questo appunto, può essere la vita e il tempo, una grande ombra dell’inferno dantesco

 

piange qui l’argento de’ Franceschi

 quel da Dovara,

là dove i peccatori stanno freschi

 

vien trovato morto presso la porta di una Chiesa, — fra uno strato di neve fresca, nella quale il peso del corpo inerte ha affondato e quasi aderito. La macie di quel volto fa pensare a una strana maschera di anima e di pietra, che la morte ha irrigidito ma non può dissolvere, e la neve ha la trasparenza e la inconsistenza di un sudano, che può avvolgere un corpo, non seppellire un cuore. “Buoso da Duero,, ombra dantesca, non può avere morte corporale. Leggenda la sua vita, leggenda la sua morte. Giacomo Di Chirico, che ha violentato tutte le leggi della scuola, è fedele milite delle leggi eterne della vita. Ma allora, la maschera indissolvibile di Buoso non è forse l’agonia eterna dello spirito dell’uomo, la fine del suo sogno, il suo abbandono, il suo destino, la sua miseria, la sua disperazione; non è, forse, 1’ultima verità della vita — il nulla — espressa nella pietrificazione di una carne di rinnegato, che rappresenta materialmente la continuità dello spirito, immortale, non per la sua gloria e per il suo bene, ma perché neppure con la morte possa sfuggire al suo perpetuo destino di dolore, di espiazione?

Potente quadro, potente sintesi di un’idea dantesca, fattura magistrale. E la tragedia umana, concepita dal genio dell’annientamento, e raffigurata nella sembianza dell’uomo, che ha tradito ed è tradito dalla vita e dalla morte.

Lo Studente ,, è l’opera della gloria. E notevole ed ammirevole come Giacomo Di Chirico semplifichi sempre più gli elementi della sua arte, mano a mano ch’egli si accosta alla piena espressione di sé e alla perfezione.

Ecco le figurazioni del quadro, ch’è un compiuto poema della felicità domestica di piccola umile gente. Lo studente torna nel suo paesello, a studi compiuti. Partì dalla casa povera quasi contadinello, vi ritorna dottore. I suoi vestiti hanno la dubbia eleganza — squisito tratto psicologico — che i piccoli provinciali si arrogano nelle grandi città; ma la sua testa è rimasta forte e bella e pura.

Nella casetta tutto e come una volta, ma tutto e più vecchio: la mamma è più bianca, il babbo più curvo. Solo i piccoli si sono cresciuti e levati, fra tutto quel piccolo mondo cadente. Nel focolare, splende e crepita la grande fiammata, fuori c’è la neve, fin sotto la porta, e par sentire il gocciolio dei tegoli. Lo studente squaderna la grande carta della laurea, e la mostra al vecchio babbo, contadino nell’anima, nell’aspetto, nel vestito, che non sa leggere quella scritta pomposa, ma crede in essa come in una virtù taumaturgica, e ne piange di tenerezza e di orgoglio, come innanzi al mistero glorioso del suo figliuolo. Egli non ha occhi che per la laurea Quale luce è nata nella sua casa oscura? Divino contrasto, la madre non ha occhi che per il figlio suo, del suo tormento e della sua passione, della sua carne e del suo spirito. E c’è tanta luce sulla sua carne, nei suoi occhi, sulle sue vesti, nei suoi capelli bianchi, che sembra ella riviva, nel rimirare il figliuolo, tutto lo strazio umano e tutto il gaudio divino della sua prima maternità.

Il padre assorto nella laurea: la madre assorta nel figliuolo, i piccoli della casa si aggrappano con le piccole mani agli orli della valigia aperta, si alzano sulle punte dei piedini, ed immergono le teste bionde nello spettacolo, nuovissimo ai loro occhi stupefatti, dei libri rossi, delle bottiglie, dei cosmetici dalle dubbie fragranze, delle scarpe lustre coi bottoncini di oro. E sembra che le loro anime innocenti intuiscano 1’esistenza di uno sconfinato mondo di realtà, di meraviglia, di miseria, di splendore, di mistero, oltre il confine roseo, tracciato dal dito dell’Angelo, al loro sogno e alla loro innocenza.

Fuori e’ è la neve, fin quasi dentro la porta, sotto la soglia. Ma nel camino, splende la grande fiammata. E nella piccola stanza chiusa si conclude il più compiuto poema del colore che l’arte pittorica conosca.

Equivale infatti a un poema, a un grande poema, questo quadro di Giacomo Di Chirico, nel quale ogni colpo di pennello è un pensiero, ogni tono di colore un’ idea.

Il  Viatico ,, al moribondo è 1’opera della elevazione, della maturità riflessa, della perfezione dei mezzi e della estrinsecazione delle capacità geniali dell’artefice tutto intero.

Nel villaggio, tutti sanno chi muore: e la campana del viatico ha richiamato sulla piazzetta, fra la neve, la piccola, l’umile folla oscura, fra la quale c’è il Sindaco, accorso a far omaggio della sua reverenza al Sacramento. Intorno al passaggio del prete, estasi ingenue e ingenue fedi di contadini, chiasso di bambini, che non sanno della morte se non come si sa di una favola strana.

E il dramma.

La moglie del Sindaco, una bella giovane .donna simpatica, è anch’essa tra la piccola folla. E fila il suo “flirt,, provinciale con lo studente, forse l’unico, del villaggio, avanti a Dio.

Nel “ Matrimonio in Basilicata,, l’artista si compie. Questo quadro contiene, nello splendore supremo dell’arte di Giacomo Di Chirico, il primo tarlo della sua decadenza. Dopo di esso, l’artefice darà ancora nuova bellezza alla sua arte, ma non le potrà più dire una parola nuova, nè darle una forma nuova. Il suo ciclo è concluso.

Tale, come noi la intendiamo, l’arte di Giacomo Di Chimico. O ch’Egli rilevi dalle bolge infernali le grandi ombre dantesche; o ch’egli esprima l’anima, e la terra, e la nascita, e la vita, e le nozze, e la morte, e le gioie, e i lutti della sua Gente; o ch’egli sfolgori nei colori ardenti del sole o aderisca ai sudari tetri della sua neve; o ch’egli ricerchi 1’angoscia o il segreto ardore di Giovanni il Battista, con lo stesso cuore, forse, col quale lo ricercò Oscar Wilde; pittore storico e pittore umano; o ch’egli ritragga nella tela i paludamenti pomposi, ieratici, della Sibilla e del Doge Veneziano, o ch’egli, a colpi d’ anima e di pennello, riplasmi e ricrei la nudità dolente ed ardente dell’uomo; Giacomo Di Chirico ha intonato nel colore una sinfonia vasta, come quella, che Beethowen intonò nel suono, e ha scritto nell’arte della pittura — sia giunto dove si vuole il suo segno, e vano e ricrearlo — una grande parola di vita e di verità, che la sua tragedia d’uomo rende più viva e più vera nel tempo.

 

FERDINANDO SANTORO

dalla Basilicata nel Mondo (1924 - 1927)

 

 

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