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CASTELLI_FEDERICIANI
 

Sotto le mura del castello, nell’ampio spiazzo che divide il maniero dalla pianura, un folto gruppo di uomini a piedi e a cavallo segue con interesse uno stormo di uccelli in volo d’avvicinamento. Sul braccio di un giovane altero, occhi azzurri e capelli biondi, finemente vestito, posa un falcone. All’approssimarsi degli uccelli il nobile uomo toglie il cappuccio che copre la testa e gli occhi del rapace e lo lancia, come arco scoccato dalla freccia, verso la preda. Con eleganti e veloci colpi d’ala il predatore è già alto nel cielo. Lo scompiglio si diffonde nello stormo. La vittima designata è una giovane femmina. Nell’impatto il falcone la ghermisce con gli artigli e fa cenno di andarsene lontano. Poi cambia direzione e torna a posarsi sul braccio del suo padrone alle cui spalle si erge il vessillo imperiale, un’aquila in campo d’oro. Un servitore si avvicina a raccogliere la preda dilaniata consegnatagli dal signore di altissimo lignaggio, facendola sparire in una capiente bisaccia.

È già il tramonto. Il signore e il suo seguito ritornano al castello per trascorrervi la serata fra fasti regali e colte chiacchierate, per passare la notte in attesa di un’altra faticosa e dilettevole giornata di caccia.

Correva il secolo tredicesimo e questa scena dev’essersi ripetuta almeno un paio di volte nel castello di Lagopesole e nelle immediate vicinanze. Federico II di Svevia, Imperatore dei Romani, Re di Sicilia e di Gerusalemme aveva infatti una grande passione per la caccia col falcone, passione che poi immortalò in un’opera (“De arte venandi cum avibus”), ancora oggi stupefacente per gli studiosi di rapaci e per coloro che coltivano questo genere di sport.

Ma lo Staufen non fu soltanto un grande cacciatore. Fu anche e soprattutto un monarca senza uguali, finissimo politico e grande statista. Ed un eccellente architetto che, pur non essendo in grado di disegnare i suoi castelli e i suoi palazzi, stabilì direttive estremamente precise, tanto da condizionare tecnici e consulenti. Lo dimostra la frase con cui Emile Bertaux, autore di un classico sull’arte dell‘Italia meridionale, concluse le sue osservazioni sul castello ponte di Capua: “C’est i ‘ernpereur qui a été le vrai sculpteur et i ‘architecte”.

Tutta l’Italia meridionale conobbe sotto la sovranità dello Staufen un’epoca di grande risveglio artistico e socio-economico, accompagnato da un vero e proprio boom edilizio. Alla coda del cavallo di uno Staufen sta sempre attaccato un castello, solevano dire in quel tempo gli Alsaziani. E mai constatazione fu più vera. Nell’area del Vulture, che si estendeva dopo le solari pianure pugliesi, area selvaggia, aspra e montuosa, ricchissima di boschi, Federico edificò e ristrutturò tre castelli, diversissimi fra loro: a Lagopesole, a Melfi, a Palazzo San Gervasio.

Il primo, così chiamato perché a circa cento metri dal lago omonimo oggi completamente prosciugato, è una delle ultime costruzioni alle quali l’Imperatore si interessò. Un castello di caccia che mostra caratteri riscontrabili in nessun’altra rocca federiciana. Ha scritto Cari Arnold Wiilemsen:

L‘insolita forma rettangolare allungata fu scelta, senza dubbio, per sfruttare maggiormente le strette superfici del terreno in pendenza da ogni lato e limitato ancor più dalla totale impossibilità di adattamento dell'edificio alle condizioni naturali del suolo. Certo si tentò di livellarlo, per quanto fu possibile, in modo da realizzare anche qui uno schema fedele al castrum, ma mancano comunque le quattro torri angolari che la ristretta superficie e la rapida pendenza del terreno non permisero. Comunque l'incomprensibile posizione del battifredo, costruito sicuramente in precedenza, non lasciò il posto all'ala sud per cui ci imbattiamo per la prima volta in una pianta non esattamente a quattro ali. Per giunta il castello di Lagopesole non si adatta al paesaggio, non conferisce a quest’ultimo, come in altri complessi architettonici dell’Imperatore, un aspetto romantico.

Osservata da lontano la rocca appare come un blocco erratico, poggiato su una cima tondeggiante. Particolarità che insieme ai due cortili interni di grandezza diversa e ad altri “punti sospetti” fanno pensare, sempre secondo il Willemsen, che Lagopesole sia stato ampliato da Federico su una base già esistente.

Ad ogni buon conto Federico riservò questo castello esclusivamente ai suoi soggiorni estivi, quando la calura pugliese e siciliana diventava insopportabile, e alla caccia prediletta col falcone. Una doppia funzione che giustificava le imponenti dimensioni della rocca - notevolmente maggiore di quella di Gravina di Puglia, pure adibita al riposo dell’Imperatore - fra le cui mura dimorava il grande seguito di amici cortigiani e servitori che Federico soleva portare con sé. Un edificio che in seguito il figlio Manfredi, cagionevole di salute, sfruttò molto, così come fece Carlo d’Angiò, dopo aver abbattuto l’odiata stirpe.

Il castello di Melfi, invece, ospitò molto spesso lo Staufen che alla costruzione diede il suo tributo edificando la “torre dell’Imperatore”. Per Federico era davvero Melfi il luogo ideale. Nelle foreste circostanti poteva dedicarsi al suo svago preferito senza per questo tralasciare gli impegni di Stato. Melfi era un centro vitale del Regno, oltre che nodo di importanti arterie di comunicazione e sede della “Suprema Corte dei Conti”. Il castello, prediletto pure dai Normanni conquistatori delle Puglie, era divenuto col tempo un maniero ben fortificato, cosa che Federico non tralasciava mai e alla quale diede sempre una incondizionata priorità. A Melfi l‘Imperatore si accinse a unificare le leggi siciliane, redigendo il suo capolavoro legislativo, quel “Liber Augustalis” pubblicato nell’agosto 1231. Questa grande codificazione, la prima dopo Giustiniano, e l’unica nel Medioevo, riscosse l’ammirazione del mondo intero. Durò per tutto il tredicesimo secolo, sicché ebbe una non trascurabile influenza sulla formazione del Diritto negli stati assoluti d’Europa.

Il terzo maniero federiciano è a Palazzo San Gervasio. Si tratta in realtà di un casino di caccia. Se osservato da lontano sembra ancora completamente intatto. Ma non è così. Mentre ci si avvicina la sorpresa si fa sempre più negativa. L’intero corpo della costruzione è stato trasformato e giace nel più completo abbandono. All’interno l’originaria struttura è stata deformata e non è più riconoscibile la mano di Federico. Lungo la facciata nord-est del piano superiore sono state murate le finestre bifore e trifore che indicavano le sale imperiali. Peccato perché, come gli altri castelli federiciani, o almeno la gran parte di essi, anche questo fu costruito dall’Imperatore in un luogo particolarmente ameno dal quale si poteva godere uno stupendo panorama. E magari se qualcuno un giorno dovesse trovare le bifore e le trifore, oggi murate, del castello di Palazzo San Gervasio libere dall’occlusione dei tufi, potrebbe anche rendersene conto personalmente.

Di vestigia federiciane è però disseminato tutto il Mezzogiorno. Soprattutto castelli, che si susseguono a breve distanza l’uno dall’altro. Lungo la fascia adriatica: da oriente a occidente i castelli di Lucera, Melfi, Lagopesole, Benevento e Napoli; da nord a sud lungo un percorso interno della Penisola. Una ragnatela che si diramava in tutte le direzioni. Molte rocche esistevano. Federico Il le modificò, rese a queste opere di difesa strategica del suo amato Regno meridionale la bellezza di decorazioni finissime, la gioia di innovazioni artistiche, la superbia di architetture semplici e geniali che egli stesso indicava ai suoi capimastri, quei frati cistercensi il cui stile è riconoscibile in tutti i castelli appulo-lucani. Uno stile che soppiantò ben presto il normanno-bizantino.

L’itinerario dei castelli federiciani, uno dei più straordinari della Penisola, porta a conoscere, attraverso paesaggi mirabili, tutta la realtà di uno Stato che era unitario molto prima che l’Italia lo divenisse - uno Stato costruito dai Normanni e solidificato dagli Svevi - con un codice legislativo di primissima qualità.

Lo Staufen amò molto questo suo Regno. Lo preferì sempre alla Germania. E con lungimiranza, avendone colto le enormi potenzialità, si adoperò per farne il centro propulsore del suo impero; rendendolo opulento, inespugnabile e non più preda di occasionali invasori.

Questo sovrano, illuminato per i suoi tempi, governò severamente e machiavellicamente. Ma sempre con intelligenza cui aggiunse un pizzico di spregiudicatezza dovuta alla sua giovane età. Il “Puer Apuliae” fu incoronato Imperatore dei Romani quando aveva poco più di vent’anni.

Fiero delle sue costruzioni, ordinò di mostrarle, dopo la sfolgorante vittoria imperiale sulla Lega lombarda a Cortenuova nel 1237, ai prigionieri più nobili detenuti in Puglia, al fine di provocare lo stupore dei vinti che, di fronte a tali meraviglie, avrebbero riconosciuto anche il contributo da lui offerto all’arte e alla cultura. Ed è probabile che l’Imperatore mostrasse loro la sua perla più preziosa, l’opera che più di ogni altra assurge a simbolo del suo genio e della sua creatività: Castel del Monte.

Ancora Willemsen: “In nessun altro luogo meglio che nell‘aria densa di mistero di queste sale si può sentire il respiro del suo ingegno universale, maestro di sintesi, qualcosa della grandezza e della singolarità, ma anche qualcosa dell‘imperscrutabile e dell ‘enimmatico della sua personalità che un cronista a lui contemporaneo ha definito con le parole stranamente suggestive:

“Stupor mundi et immutator mirabilis”.

Da qualsiasi parte si giunga, da nord a sud, da occidente a oriente, da Bari o da Melfi, da Andria o da Minervino Murge, il castello presenta sempre il medesimo aspetto suggestivo e il superbo spettacolo del suo ottagono compatto con Otto torrioni, ottagonali anch’essi, innestati agli spigoli. E forse lo si può immaginare, il grande monarca, quando nelle sale dorate dalla luce, si accinge a dettare il “De arte venandi cum avibus”. Castel del Monte simboleggia l’apogeo della signoria sveva in Italia e l’ultimo atto della dinastia.

Morto Federico II, gli odiati Angioini strapparono i quattro figlioletti alla vedova di Manfredi. Beatrice tornò libera dopo quindici anni di prigionia. I tre maschi furono invece deportati da Carlo I d’Angiò a Castel del Monte e condannati a restarvi per tutta la vita con i ceppi ai piedi. Inesorabile fu l’odio angioino verso gli Hohenstaufen: “Vivano pure” dissero “ma vivano come se non fossero mai venuti al mondo, vivano per morire in carcere”.

Dopo Federico II, Imperatore dei Romani, Re di Sicilia, Re di Gerusalemme, iniziò per tutto il Mezzogiorno un inarrestabile declino. Il biondo monarca non l’aveva previsto

 

Francesco Sernia    

 

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