Comune di
LAURENZANA

 
 

 


Un Castello da recuperare
 

 

SULLE TRACCE DELLA STORIA
di ROCCO M. MOTTA

 

En la casa de Dante 
bajo los viejos techos florentinos 
hay interrogatorios, y David 
con sus ojos de màrmol, sin pupilas
se olvidò de su padre, Buonarroti, porque 
lo obbligan cada dia a contar 
lo que con ojos ciegos ha mirado.

   (Pablo Neruda, La policìa)

 

Il Castello di Laurenzana è stato per lungo tempo l'estremo e sicuro baluardo di quel vecchio borgo che ancor oggi s'aggrappa ai suoi piedi ed a quelli della vicina Chiesa Madre con la naturalezza e la fiducia dettate dalla cultura e dalla ideologia feudal medievale. 
Lo schema del castrum, lo diciamo pur sapendo di dire cosa ovvia, tradisce non una istituzione che progetta l'attacco, ma un borgo che ha in mente la sola difesa. E la concezione difensivistica dell'epoca viene qui interpretata e tradotta alla lettera: controllo visivo inappuntabile delle vie d'accesso per un tempestivo avvistamento del pericolo, (quello grosso è costituito dalle bande piratesche risalenti il Serrapotamo e provenienti dal Camastra); utilizzazioni al massimo ed al meglio degli sbarramenti naturali; pratiche toni circolari nella cinta muraria a protezione ordinaria del nucleo abitato. 
Il Castrum, infatti, sfrutta alle sue spalle un lato naturalmente e praticamente inaccessibile, tien desta frontalmente l'attenzione delle guarnigioni e degli abitanti nella sola direzione Nord Ovest, s'avvale delle torri del Castello per dominare omnidirezionalmente la valle ed offre l'altura come rifugio estremo in caso di difesa straordinaria. 
Il sistema è a misura delle bande varie e occasionali non infrequenti sino a tutto il secolo XIII e, probabilmente, gli ottantanove fuochi registrati nel 1277 erano ancora raccolti all'interno di questo, più o meno definito, triangolo. 
Laurenzana patì l'inefficace ordine bizantino e subì, come tutto il meridione, l'anarchia piratesca e la conseguente ingovernabilità delle bande che periodicamente si alternavano. Solo nei secoli successivi, al diradarsi delle incursioni longobarde, bulgare, saracene, col prelevare e legittimarsi dell'ordine normanno, svevo e successivamente, angioino, la tensione ed il progetto difensivistico si allentarono: aumentarono i fuochi e la popolazione, più sicura e rinfrancata, cercò spazio per la sua casetta fuori dal perimetro descritto dalle cosiddette Settetorri. 
Sul Castello di Laurenzana non è stato ancora avviato uno studio programmato e completo, ma, stando a quanto dicono taluni esperti ed a quanto frammentariamente da noi raccolto, andrebbero individuate nella cinta muraria e nella torretta circolare semicrollata le tracce di più antica data ch'esso conserva. Tutto il resto sarebbe ristrutturazione, se non proprio fabbrica successiva, prevalentemente del XVI e XVII secolo. 
Il catalogo dei Baroni, solo documento che ci resta dei frequenti censimenti generali avvenuti nella seconda metà del XII secolo e che dà un pò l'avvio a tanta storia medievale dei nostri piccoli centri, indica in Guglielmo, figlio di Matteo di Tito, il feudatario normanno che possedeva Laurenzana in quel periodo. La storia registra, ancora, come ultimo feudatario di quella dominazione, un altro Guglielmo di Laurenzana, cui diede fama l'esser stato ribelle a Carlo I all'epoca della famosa rivolta antiangioiana del 1268, rivolta poi conclusasi tragicamente in Basilicata coi fatti di Potenza. 
Ma i dati della storia feudale non si spingono, sfortunatamente per noi, più indietro di tanto. E, come spesso accade in questi casi, là dove scompare la storia si accampa la leggenda. Leggenda vuole, infatti, che il primo politico, diciamo così, ad insediarsi sulla rupe sia stato un brigante saraceno. Sempre secondo la leggenda, costui si sarebbe sbarazzato della debole resistenza d'un santo eremita, custode lassù di un misterioso tesoro. 
Come ipotesi plausibile, la leggenda ci offre due personaggi ricorrenti: un eremita, (probabilmente un monaco basiliano), ed un avventuriero saraceno. Come ipotesi fantasiosa, o comunque da chiarire, un superbo maniero fatto erigere sui resti d'un tempio sacro. 
Che i saraceni scorazzino indisturbati in val Camastra prima della instaurazione dell'ordine normanno è fatto sufficientemente dimostrato. Essi hanno addirittura costruito e strategicamente fissato ad Abriola un covo-fortezza funzionale ad azioni piratesche in val d'Agri, mentre contendono ai Longobardi, in verità con alterna fortuna, vari castelli sulla val Basento. Sembra convincere meno il passaggio dalle nostre parti dei monaci basiliani, ma questo perché, a nostro avviso, la ricca presenza francescana in Laurenzana, dalla fine del '400 in poi, potrebbe aver cancellato ogni traccia d'altri preesistenti retaggi spirituali. I monaci basiliani, personaggi eccezionali sospinti da vocazione missionaria più che costretti da una poco probabile politica iconoclastica dai bizantini di casa nostra, s'erano in realtà dispersi un pò ovunque, scegliendo e commisurando i luoghi più in rapporto alla necessità del loro insegnamento che a valutazioni di ordine diverso. 
Lasciata la valle del Mercure, il monaco basiliano era uscito pure dall'isolamento totale, optando per un programma più calato nel sociale. Ma un pò per spirito missionario, un pò per intima natura aveva continuato a cercare i posti più isolati e sperduti ove permettere alla sua opera di meglio esplicarsi ed esaltarsi in Dio: nella solitudine e nella meditazione egli aveva imparato a conoscere le debolezze e le risorse dello spirito, nella vita comunitaria la soluzione a molti problemi pratici. Era predisposto, 
insomma, per essere tutto: il tecnico, l'intellettuale, il medico, il Santo. Di sicuro, egli sapeva guarire l'anima, ma con essa, molto spesso, finiva col guarire anche il corpo. 
Basiliano o benedettino, poco importa: il segreto del successo di questi personaggi è da ricercarsi nel carisma che indubbiamente irradiavano. Chi arrivava tra popolazioni isolate e sapeva dare tanto, presto diventava ancora quotidiana e punto di riferimento insostituibile. 
Della leggenda convince meno la serie di elementi accessori, che ricalcano troppo parallelamente e richiamano troppo da vicino la vicenda del martire Lorenzo. Questo fa sorgere il dubbio che tutto possa essere stato costruito per legare al nome del santo l'origine del toponimo. L'antico stemma di Laurenzana, infatti, esibiva la classica figura di San Lorenzo con l'inseparabile graticola. 
Il Racioppi, sulla scorta delle sue non comuni esperienze di studioso, avanza l'ipotesi per il nostro centro d'una iniziale Villa Laurentiana, individuando in una lontana masseria romana il primo nucleo umano di partenza. Il tema del Santo, tuttavia, si sarà in qualche modo associato o sovrapposto fino a fondersi, tenuto conto del porsi e riproporsi negli stemmi, e non solo in essi, del tema e della componente religiosa. 
La leggenda si conclude con la descrizione degli ultimi giorni del bandito saraceno che s'aggira impazzito per le stanze del suo superbo maniero, perseguitato dalle Erinni del luogo, ovvero dalla voce del romito assassinato che urla e rivendica il tesoro e lo spazio usurpato. 
Come tutti i castelli che si rispettino, anche il nostro ha, quindi, i suoi bravi fantasmi: l'eremita ed il muezzino. Mai nostri sono diversi dai vampiri di tanta letteratura e da quelli biancovestiti della cultura nordica: i nostri sono spiriti, ovvero ombre proiettate di volta in volta dal senso di colpa, dal timore della pazzia persecutrice, dall'assassinio impunito; sono spiriti implacati e si aggirano, minacciosi o silenziosi, in luoghi tristi, deserti senza croci. 
Nella cultura del borgo sono forse rimasti di tutta la faccenda il tema della vendetta nei confronti di chi si trasforma un luogo consacrato al culto in un luogo a diversa destinazione d'uso ed il nomignolo di saraceni per gli abitanti del rione San Giacomo. 
A distrarci dai fantasmi e a diradare le suggestioni della leggenda, provvedono, nel frattempo, storici ed archeologi. I primi quando affermano con certezza che i nostri castelli, sorti esclusivamente per ragioni di difesa all'introdursi del sistema feudale, ospitarono inizialmente solo guarnigioni di soldati, i secondi quando suggeriscono per quel che resta sulla rupe di più antico una data non troppo anteriore al 1300. Un pò tutti, quindi, sostengono che i nostri castelli si sarebbero trasformati in comode residenze baronali solo più tardi, forse a partire dal XIV secolo. 
Ma la storia può strappare spazi alla leggenda, soprattutto se si tien conto del fatto che queste costruzioni hanno, in molti casi, utilizzato piante di edifici preesistenti o riutilizzato preesistenti strutture (torri, opere di fortificazione...). Il recupero, pertanto, potrebbe costituire ghiotta occasione per scoprire quanto eventualmente fosse ancor celato tra quelle pietre plurìsecolari, anche se, (e ne siam certi), mai smetteremo di chiedere ad esse, con metodo di polizieschi o più o meno tali, quel che sanno e che hanno veduto e fors'anche quel che non sanno e non hanno mai visto. 
E' vero. Tra quelle pietre avvengono interrogatori: di semplici e di dotti, di umili e di saccenti, di profani e di esperti. 
- Erano trecentosessantacinque le stanze su al castello?
- Dov'era il quarto del Duca? e quello dell'amministratore? - Era là l'armeria? Era lì sotto la stalla? 
- Il ponte levatoio era davanti o proprio dentro l'androne d'ingresso?
- Le bocche dei cannoncini sbucavano da quelle due finestre uguali che s'affacciano sulla rampa d'accesso? 
- Dove sono finite tutte quelle pietre lavorate?
I temi della storia feudale sfilano in composta e muta folla di duchi, nobildonne, cavalieri e soldati malandrini... di trame, angarie, balzelli e jus primae noctis. 
Tutto c'è stato o ci sarà stato. 
Le menti brancolano nel passato nebuloso, si agitano nel presente ansioso, si proiettano nel futuro problematico. 
Il gigante, reso buono dagli anni, ostenta le ferite del sole o i giochi insinuanti dei lumi notturni: a chi s'accosta non par vero che entro quelle mura si sia consumata una storia normale, né pare possibile al buio che si possano negare con certezza i fantasmi. 
Quelle pietre, forse, continueranno a non rispondere a domande ingenue e poco originali o a domande curiose su fatti d'arme, di donne, di cavalieri, di grandi gesta o d'ospiti d'eccezione. Forse non avranno neppure voglia di rispondere alle domande degli amatori delle cose rimesse al loro posto originario, a quelle di chi chiede conferma alle domande di chi ha voglia di fare indagini. O forse risponderanno, e noi staremo lì a sentire. 
La storia feudale successiva è meno avara di notizie, come d'altro canto era pur lecito aspettarsi, ma anche più amara e deludente, oltre che abbastanza nota. 
Tra gli atti del nuovo re di Sicilia che più direttamente ci riguardano, vi fu nel 1269 la requisizione del Castrum Laurenciani. A Guglielmo, campione del ghibellinismo nostrano, ma bollato ormai come proditor nei Registri della Cancelleria Angioina, subentrò nel possesso del fendo Annibale Trasimundo di Roma. Con costui iniziò il periodo della dominazione angioina a Laurenzana e forse con costui, o poco più tardi, s'avviarono nuove costruzioni ed ampliamenti sulla rocca. Secondo stime approssimative, pare che Annibaldo, nelle cui mani erano finite anche altre proprietà di fuoriusciti potentini, sia rimasto su queste terre per quasi un trentennio. 
Un pò di tutti concordano sul fatto che il nuovo regime fu un vero guaio per la Basilicata, da esso considerata a guisa di podere da dividere a godere insieme a parenti ed amici: la Corona si preoccupava dei soli beni demaniali, i feudatari delle terre loro concesse, i pochi proprietari di quanto li riguardava direttamente. La terra era l'unica fonte di vita e di potere, ed in ragione di ciò la massa dei cittadini ne faceva parte in condizione inevitabile di servitù della gleba. Inoltre, il regime tradì presto la sua esosità. Bisognava provvedere a manutenzioni ordinarie, a manutenzioni straordinarie... 
Né si poteva sfuggire. Perché gli Angioini si avvalevano di una numerosa ed avida burocrazia che completava l'opera con ruberie in proprio, e i feudatari si comportavano nei loro fendi, grandi e piccoli, come veri e propri sovrani. 
Secondo il cedolario dei tributi del 1277, sappiamo che Laurenzana doveva corrispondere alle casse regie 22 once, 10 tarì e 16 grana. Il centro che allora era limitato all'odierno borgo comprendeva 89 fuochi o nuclei familiari, corrispondenti grosso modo, secondo le stime minime del Pendio, a circa 356 abitanti. Ma, quasi certamente, a questi dovrebbero essere aggiunti gli esenti e quanti sfuggivano al censimento, dandosi alla macchia per evadere le tasse. Può sembrare strano per i nostri tempi, ma allora gli evasori erano i contadini, i quali, per un'operazione oggi molto meno complicata, erano invece in quegli anni costretti a negare la propria esistenza o a denunciare sempre cattivo raccolto o ad esibire miseria. 
Forse l'abitudine costantemente manifestata a minimizzare i proventi della terra da parte dei nostri contadini ha questa comprensibile e lontana origine. Naturalmente ci riferiamo a quando i contadini erano ancora tanti e non erano ancora stati escogitati i premi d'integrazione. 
Per quanto concerne, poi, le manutenzioni ordinarie, si sa che i laurenzanesi dovevano provvedere in certa misura al Castrum Ansie (Anzi) oltre naturalmente a quella del proprio castrum. Almeno così ci viene di pensare. Arrivavano poi puntuali le manutenzioni straordinarie, come successe per l'ampliamento del castello demaniale di Melfi, che succhiò alle tasche dei laurenzanesi 10 once, 6 tarì e 12 grana. Bisognava, insomma, pagare e lavorare. Ma quel lavoro che veniva effettuato sulle terre feudali nelle forme di una economia curtense, non apriva certamente prospettive di scalata sociale. La popolazione diventò presto massa amorfa di lavoratori della terra, gente senza storia se non quella della solidarietà di vicinato, dei matrimoni, della religiosità e degli squarci di vita quotidiana nel borgo. In cambio riceveva un punto di riferimento politico più sicuro che ridusse i guai peggiori delle incursioni dei secoli passati. Permanevano, naturalmente, i guai medievali delle carestie, della pestilenza ed i riflessi periferici delle guerre di successione interne. 
A sorpresa ci balza nella mente Sant'Aloja. 
Nel repertorio delle cose poco raccomandabili, permaneva sino a qualche tempo fa a Laurenzana l'abitudine di inveire o imprecare contro questo santo della terra di Francia. Pare che il culto di Sant'Eligio, come meglio poi il nome si tradusse, sia stato introdotto nell'Italia meridionale proprio dagli Angioini. 
Noi non sappiamo dire se l'imprecazione nei confronti di Sant'Aloja fosse un relitto di sostrato culturale e, quindi, una bestemmia politica, né sappiamo dire se si trattasse di una semplice trovata di maniscalco per scaricare rabbia su di un santo dal nome strano, tanto strano da sembrare inesistente. Ma forse sappiamo dire che vivere a Laurenzana in quegli anni doveva essere molto difficile, anche perché non era possibile protestare. Più facile era, certamente, bestemmiare! 
Non bisogna, tuttavia, esagerare, anche perché le Università, ovverosia i comuni meridionali, avviarono il loro lento cammino verso l'autonomia e la libertà dal sistema feudale proprio sotto il regno delle due Giovanne di casa d'Angiò. E' pur vero, in ogni caso, che taluni provvedimenti giungevano a sanatoria per fronteggiare un fenomeno preoccupante che stava diventando irreversibile: la scomparsa, per le mille difficoltà che si paravano innanzi, di numerosi centri rurali. 
Il secolo successivo, verso la sua metà, segnò una tappa importante nella storia di Laurenzana, e non proprio per i riflessi che produsse alla base il cambio di guardia al vertice del Regno. 
Sola novità, sotto l'aspetto politico, fu il confluire della terra di Laurenzana tra i possedimenti inclusi nel ducato di Venosa. Ad un primo privilegium, infatti del 1443 di Re Alfonso I d'Aragona che confermava Gabriele Orsini signore di Venosa e di Lavello, seguì un secondo privilegium regale del 7 giugno 1454 che trasferiva titolo e possedimenti a Maria Donata, figlia primogenita ed ancor nubile del nel frattempo defunto Gabriele. 
Per esser ancora più precisi, la neoduchessa, allora ancora ventitreenne, ottenne da Re Alfonso numerose terre, tra cui Laurenzana e Castel Vellotto Castel Vellotto o, più correttamente, Castelbellotto è uno dei numerosi centri abitati scomparsi in quegli anni cruciali cui accennavamo. I suoi resti si trovano a poche miglia da Laurenzana lungo la strada che conduce alla borgata rurale di Casalini, nome generico d'una zona meglio conosciuta come Pian dei Porcari. Questa terra, appartenuta in epoche precedenti ad altri feudatari normanni ed angioini, si fuse, probabilmente d'allora, con quella di Laurenzana e serba ancor oggi i ruderi d'un antico luogo fortificato, in posizione strategica e panoramica, con la sua brava torre cilindrica. Le ragioni della sua scomparsa furono certamente le stesse che portarono alla scomparsa decine di altri centri rurali in epoca angioina: guerre, angherie, tasse e cataclismi naturali. 
Gli storici ci descrivono la nuova duchessa di Laurenzana come signora giusta, clemente e pia ed appartenente ad una famiglia di principi cui piacque soprattutto essere amati dal popolo. Oggi le sue spoglie riposano nel duomo di Venosa dove la salma fu traslata nel 1956 dalla chiesa di San Biagio della stessa città. Alla esumazione, in quella circostanza, colpirono e rafforzarono un mito il volto mummificato ed ancora spirante nobiltà, la mano affusolata con l'unghia ben curata ed il cordiglio francescano umilmente stretto a legar le gambe. L'alone di santità era derivato alla duchessa dalla vita semplice e dall'animo mansueto oltre che dall'aver saputo sopportare con rassegnazione un marito truce ed ambizioso quale la sorte le aveva assegnato nella persona di Pirro del Balzo. Quella scoperta rinnovò nei cuori degli ex sudditi i sentimenti di devozione di quasi cinque secoli prima. 
Sarà stato per una felice congiunzione astrale, o, più semplicemente, per una fortunata combinazione di destini, sta di fatto che un altro lume di santità vera s'accese nella Laurenzana del XV secolo: quello del Beato Egidio, al secolo Berardino Di Bello, nato nel 1443. 
Berardino indossò il saio nel 1483, entrando in quell'anno, come vuole la tradizione, a far parte della locale comunità degli Osservanti. 
Nessuno sa con esattezza dire quando siano giunti a Laurenzana i Francescani; comunemente si dà per buona una data, il 1473, ritenendola, per una serie di ragioni, quella della fondazione del Convento. Fu il francescanesimo, in realtà, l'evento veramente nuovo o la tappa fondamentale nella storia di Laurenzana cui alludevamo all'inizio. Esso permeò di sè, con la sua lezione spirituale e la sua opera concreta nel sociale, la vita quotidiana degli umili, e non solo di quelli. La povertà trovò nella bontà e nella santità la sua valorizzazione ed il suo riscatto. Fra' Egidio segnò e consolò una generazione di oppressi nell'arco di storia a cavallo dei secoli XV e XVI. 
Erano anni in cui il clima politico non era dei peggiori, ma in cui le condizioni dei più permeavano misere. Il sistema era quello di sempre e poco valeva il grande legame di devozione attorno ai francescani, di conti, duchi e baroni laurenzanesi e del circondario. 
Nel libro di padre Caruso si accenna, infatti, al grande interessamento di Raimondo Orsini del Balzo signore di Laurenzana nel 1483, per le sorti del locale convento minacciato di chiusura per i contrasti interni all'ordine, diviso dalle polemiche. Non sappiamo se dallo stesso sia stato proposto o voluto un qualche ampliamento della pianta del Castello; forse un suggerimento potrebbe venire dal castello quadriturrito di Venosa, la cui Costruzione fu avviata dal conte Pirro del Balzo nel 1470, ma v'è da aggiungere, tuttavia, che detto castello ha mantenuto l'originaria struttura militare. La parentesi degli Orsini del Balzo a Laurenzana si chiude con Raimondo e con lui si chiude pure una pagina di storia feudale. Probabilmente fu tra i baroni ribelli all'epoca della famosa discesa di Carlo VIII, visto che fu espropriato e rimosso per fellonia nel 1496. Undici anni prima era stato Pirro a meritare la stessa accusa per aver partecipato alla altrettanto famosa congiura dei Baroni ed a pagarne le conseguenze con grande dolore, immaginiamo, di Maria Donata, moglie infelice e incolpevole, passata a miglior vita in quello stesso 1485. 
Restava su al convento frà Egidio a compiere quei miracoli che né la politica, né la medicina sapevano allora fare. 
Per lui la morte corporale giunse il 10 gennaio del 1518. 
Egidio, per i laurenzanesi, costituisce un nome ed una eredità inestinguibili. Ma al fonte battesimale è ricorso e ricorre spesso pure il nome di Maria Donata o Donata Maria. 
Da questo momento in poi, la storia dei grandi, diciamo così, procede seguendo un rituale monotono ed arcinoto. 
Tutti i feudi, infatti, (ma i piccoli in maniera particolare), passano da un signore all'altro con una frequenza a dir poco estenuante. E non poteva essere diversamente, vista la strana tassa di successione che le popolazioni interessate devono ogni volta pagare al feudatario subentrante, desideroso di rifarsi quanto prima delle spese sostenute. 
La nuova famiglia che si insediò nel feudo di Laurenzana dopo gli Orsini di Venosa fu quella dei conti Poderico. La loro presenza, qui da noi, va dal 1496 al 1550. Si trattava di una famiglia di emergenti dopo la Congiura dei Baroni, possessori in Basilicata pure del feudo di San Mauro Forte. I nomi che interessano Laurenzana sono quelli di Antonio Giovanni e Paolo Antonio Poderico, quest'ultimo confermato sul feudo da Re Ferdinando il Cattolico nel 1505. 
Dopo di loro i Loffredo, altra famiglia di emergenti, possessori pure di Salandra, e dopo di costoro la famiglia dei conti Filangieri con Maria Aurelia, Gerolamo Ruggieri Filangieri, Ettore Ruggieri Filangieri. 
L'ultima famiglia di titolati Duchi di Laurenzana fu quella dei subentranti del 1606: i Gaetani d'Aragona dei Principi di Piedimonte d'Alife. 
Ma i passaggi non s'erano ancora conclusi, né c'è da farsi meraviglia, anche pensando a Pietrapertosa, tanto per non andare molto lontano, che in un arco di tempo molto più breve, dal 1494 al 1560, fu venduta e rivenduta ben undici volte. 
I passaggi non sono finiti, dicevamo, ma ci fermiamo, anche per dire, come ci suggeriscono da qualche parte, che in questo arco di tempo i baroni di Laurenzana fissano sul castello la loro dimora, avviandovi rifacimenti, ampliamenti ed introducendovi tra le arcigne strutture, quale elemento ornamentale di pregio, la grazia discreta della pietra scolpita. 
Per la gente del popolo di veramente interessante la politica riservava assai poco, anche se molto dovette giovare la serie di usci civici che piovve sulla comunità con la Convenzione del 1554. 
Fu un debole segnale della Università in ascesa, ma fu forse sentita come una grande conquista. Testimonia, tutt'oggi, formidabilmente in tal senso la difesa caparbia del legnatico sulle foreste ex feudali, nel mentre che un'ottica meno medioevale propone una utilizzazione diversa del patrimonio boschivo. Ritornando ai castelli, v'è da dire che la crisi per loro come strutture militari iniziò,secondo gli esperti, nettamente sul finire del '500, per due ragioni inoppugnabili: la ripresa dell'assolutismo e, soprattutto, l'uso delle artiglierie che resero inutili gli imponenti masti di prevalente costruzione normanna. In seguito a ciò, molti castelli furono adeguati e resi funzionali alle nuove esigenze. Il nostro appartiene a questi ultimi e, tra questi, al gruppo di castelli che subirono ristrutturazioni radicali: da quel momento in poi, infatti, le esigenze collegate alla dimora baronale presero il sopravvento sul tema della difesa pura. 
E' vero che le trasformazioni avviate andavano via via snaturando la sua antica struttura, ma è pur vero che le stesse gli permisero di continuare ad esistere e sopravvivere abbastanza bene sino agli inizi degli scorsi anni cinquanta. Contrariamente a quanto potrebbe apparire a prima vista, il degrado del nostro castello è di questi ultimi trenta quaranta anni. 
Basta prendere una qualsiasi foto degli anni trenta per rendersi facilmente conto dei mutamenti avvenuti nel corso dei secoli XVI, XVII e XVIII: il corpo centrale nasce o si amplia sino a finire a ridosso delle strutture di difesa, inglobandole; il palazzo baronale prevale e scaccia il torrione, sovrastandolo e ridimensionandone la funzione; in qualche tratto la cinta muraria appare abbandonata a se stessa o solo contenuta nel suo degrado; altre torrette, qua e là rimediate, danno più l'idea del belvedere che della postazione di guardia; il cortile interno ottiene evidenti momenti di attenzione (pozzo, portali, scalinate...) estetica; ove affacciano altri locali per servizi più ordinari. Probabilmente, in quest'area retrostante si sviluppò agli inizi del secolo scorso il violento incendio doloso cui fa riferimento il Duca in una sua lettera al Re. 
Molto attenta appare, invece, la difesa della rampa d'accesso, che certamente sarà stata resa più agevole, ma lasciata contemporaneamente protetta dal ponte levatoio e guardata da cannoni oltre che da una stretta torre circolare al lato esterno del portone d'ingresso.
A prova forse di una tesi precedentemente esposta v'è la scomparsa del caposaldo avanzato eretto ancora più a monte, in contrada detta per l'appunto Torre, e sorto a suo tempo o per ampliare il raggio di controllo visivo della valle o per l'introdursi successivo del concetto di difesa in profondità. 
Per troppo tempo la storia ha ignorato gli umili, occupandosene poco e male. La stessa Basilicata, prima di districarsi dai problemi della campagna vera, ha dovuto a lungo lottare contro i miti strani della campagna falsa: quella edenica descritta da viaggiatori e relatori, frettolosi o miopi, dei secoli scorsi. 
La storia vera degli umili, pertanto, resta quella che gli stessi hanno scritto da soli: la storia dei territori interni e della vita dura nella campagna lucana. 
Laurenzana conserva un documento speciale che riguarda questo periodo: è il Capitolo del Beato Egidio, che noi rileggiamo senza la pretesa di scoprirvi cose diverse da quelle che vi sono; lo rileggiamo come una sorta di verbale corale, indistruttibile perché scritto dai protagonisti e profondamente inciso nel cuore della loro storia. 
Lo sfondo che il Capitolo ci offre è costituito da elementi reali, inconfondibili del paesaggio lucano: la montagna, la masseria, l'aratro. E' la campagna vera della Basilicata più debole all'interno del complesso sistema socio-economico regionale in via di frazionamento. Non è la Lucania delle grandi valle aperte al progresso, ma quella dell'interno che non si sviluppa o, per dirla con un brutto termine, non si nordizza. I protagonisti umani sono il valano, il massaro, il frate, la gente... Scena e scenario si arricchiscono, poi di altri personaggi e di altri elementi: il delatore invidioso, la vigliaccheria, il convento, la settimana santa, il miracolo, la generosità e la bonomia del frate, il suo amore per le creature, il bisogno di miracoli tutti, l'iperbolico linguaggio della gente che riferisce o narra. Balza individuabile sono un nome, quello del Conte di Potenza, colto,- tuttavia, nella fragilità della malattia. 
Tutto il resto è folla anonima, malata nella carne, ammirata dello spirito, a cui chiede, comunque, quasi sempre, meno dolori fisici. 
Frate Egidio passa in questo contesto senza austerità, senza nessuna prestanza fisica, bravo ed atteso come una soluzione fuori del comune, perché lui incanta e stupisce col togliere la febbre ed il dolore ai sofferenti. Ciò che sconcerta di questa gente è la tacita certezza che quel fraticello non ha bisogno per sé di nulla. Egidio è un uomo di Dio, cosa potrebbe servirgli? La dimensione umana del frate si condensa tutta in una sola e semplice richiesta finale di morire nel suo paese. 
Riferendoci a quegli anni, non possiamo non immaginarli e catalogarli come quelli del bisogno, dell'esaltazione e del trionfo del Santo. Laurenzana aveva avvertito il passaggio di un suo figlio santo in terra, fu per lei naturale, dopo morto, pensarlo, e sentirlo in Paradiso. 
Finalmente - pensò la gente - un santo tutto nostro in Paradiso, un santo che ci conosce ad uno ad uno e ci ama! 
Il popolo di Basilicata e di Puglia lo cercò e lo trovò anche dopo morto. Il Capitolo registra pellegrinaggi da Barletta e da Altamura a prova sicura dell'uscita del nome di Egidio dai confini lucani in direzione Est, fors'anche segno del passaggio nel piccolo feudo dei signori di Venosa. Padre Caruso, nel suo bel libro, annota, tra l'altro, testimonianze della devozione di marinai pugliesi per il nostro santo. 
E le grazie scesero numerose sulla Lucania povera dell'odierna statale novantadue e non solo su questa. 
Il Seicento, fastoso e borioso altrove, qui da noi non sembra introdurre soluzioni di continuità, anzi, continua a svelare stralci inquietanti di umanità dolente, colpita nella carne ed in cerca di grazie. Di alcuni cognomi non resta più traccia, altri, invece, sono ancora incredibilmente vivi ed attuali. E' tutta gente disposta a sacrificare ogni suo avere pur di recuperare una vita o la propria salute. Sono tempi in cui la scienza medica offre solo modeste terapie empiriche, mentre il potere politico o è troppo lontano, geograficamente parlando, o è troppo lontano dal pensare d'esser stato posto per risolvere i problemi della gente. Esso dove vive con la gente, vive della gente, anche se - e bisogna pur dirlo - talvolta prega con la gente e risolve (come la gente) i suoi problemi: malattie e dolori sono misteriosamente distribuiti a tutti, anche ai nobili laurenzanesi: le grazie, ugualmente, sono distribuite secondo un criterio esterno che non segue la logica elementare di una giustizia di classe: al Santo viene attribuita la guarigione della nobildonna Enrichetta, moglie di don Girolamo Ruggieri Filangieri e quella di don Francesco Ruggieri Carafa... 
Il Santo è porta aperta per tutti. Guai, se non vi fosse la speranza e questo appiglio a cui aggrapparsi! Tra Pestilenze, terremoti, guerre e vita grama, la richiesta di grazie materiali di prima necessità la sentiamo pienamente giustificata, diversamente anche lo spirito ne avrebbe sofferto. Non ci va di porci di fronte a tanti fatti incredibili, con lo stato d'animo di chi considera le grazie scadente prodotto di campagna nel secolo della meraviglia. Il sentimento, è vero, conduce e guida troppo facilmente e spesso all'esaltazione, ma la ragione apre la strada a troppe tentazioni peggiori: derisione, scetticismo, calcolo, superbia. Forse in nessun altro periodo della nostra storia più che nel '600 il bisogno di aiuto fu così grande e così indispensabile l'intervento divino. Si pensi al terribile flagello della peste che colpì la Basilicata negli anni bui 1656 -'57. Chi scampò non poté non gridare al miracolo: Laurenzana gridò al miracolo, perché - così vuole la tradizione - scampò. L'università mutò il suo stemma: scomparve il mite san Lorenzo nel ricordo e nel mito; comparve l'ovale sormontato dalla corona ducale ed includente al suo interno la colomba, il cielo azzurro, le tre montagne, le tre comete precipitanti, forse, nel bel mare di San Giovanni d'Acri. Diciamo forse, volendo prestar fede al Gattini, secondo il quale, detto stemma altro non è se non una riproduzione approssimativa di quello dei carmelitani.
L'evento miracoloso era stato dal popolo credente attribuito all'intercessione della Madonna del Carmelo; da qui i mutamenti, la costruzione ed il restauro della cappella a lei dedicata in quegli anni, a perenne ricordo nei secoli futuri. 
Passavano, intanto, nel cuore della vita rionale, i volti e le storie dei Santi Ausiliari. Passavano su nuovi o rinnovati troni un po' come i signori feudali, anche se, diversamente da questi ultimi, non sempre si succedevano o si sostituivano; molte volte - più democraticamente - coabitavano. 
Ci riferiamo a quei quattordici Santi, per lo più martiri, invocati in calamità e pericoli d'ogni genere a partire dalla peste del XIV secolo, che la tradizione cristiana occidentale raggruppa sotto quella denominazione. Ognuno giungeva con una storia: di eroismi e di sofferenze patite, di miracoli e guarigioni elargite. Ognuno possedeva il suo specifico. 
Tradizione vuole che il più importante del gruppo fosse San Giorgio. Del gruppo era il personaggio più versatile e più complesso, quello meno storico e più dotato, con possibilità e varietà di intervento che vanno dalla solita peste fino all'arte di specialisti. 
San Giorgio certamente passò nella vita del nostro borgo, tant'è che ancora permane intitolata a lui una cappella che ha espresso ed esprime grande capacità di aggregazione, specialmente nell'ambito della popolazione anziana femminile. 
Oggi, in verità, molti trovano strano che la chiesetta non serbi effige alcuna dell'antico titolare. Trovano strano che non serbi niente, neppure una statuetta o un quadro che riproduca l'antichissimo motivo dell'uccisione del drago da parte del nobile cavaliere. 
Spulciando qua e là, scopriamo che detto Santo, oltre a combattere la solita peste, proteggeva per l'apppunto i cavalieri, e se così fu certamente si legò tra noi a fatti d'armi e di nobiltà. Egli, inoltre, proteggeva contemporaneamente armaioli e fabbricanti di archibugi. Chissà se, in ragione proprio di tanto, si rivolsero a lui i mastri ferrai laurenzanesi accreditati produttori dei ricercati fucili di cui parlano le statistiche murattiane. 
Più in là e pur lasciando la dedica al suo originario titolare, la chiesetta meglio si ritrovò attorno alla piccola statuetta di San Rocco - anche lui ausiliatore - che da un certo momento in poi divenne titolare di fatto. L'intestazione sul bel portale sistemato all'ingresso principale indica inequivocabilmente in San Rocco il destinatario dell'opera e, quel che più conta, l'iniziativa popolare della spesa. Forse l'istinto popolare vide in San Giorgio una figura più mitica che reale; la Chiesa stessa, del resto, ha rivisto la posizione storica di questo Santo. La figura di San Rocco, qui come altrove, meglio si legava alle più impellenti necessità della gente umile, sempre in lotta con sventure e malattie. Nobili o archibugieri portarono altrove qualche pregevole effigie ed il popolo si ritrovò sempre in quell'umile cappella sopravvissuta ai terremoti, sia quello del 1857, sia a questo del 1980. Ma bisogno d'aiuto ve ne fu sempre tanto, e San Vito - ausiliatore pure lui e pure lui incluso tra i quattordici - ebbe il suo trono. La sua cappelletta, oggi completamente rifatta, vien nominata da antica data. Esiste certamente sul finire del '700 in cima a quella che una volta veniva detta la Tempa delle scale. Il Santo aiutava, come si sa, contro l'omonimo ballo, le malattie degli occhi e le epidemie del bestiame. 
Qualcuno include tra i protettori o, più propriamente, tra gli ausiliatori anche san Donato. Ma, onestamente, nei testi da noi consultati non si accenna a lui, nè vi é traccia, nella memoria, di culti speciali in suo onore a Laurenzana. 
Eppoi, san Donato è roba d'Anzi! 
Ma le cose stanno proprio così, come rivela una gustosa ed arguta aneddotica dettata da campanilismi esagerati ed esagitati del passato. 
Tra le cose che gli anzesi citano, quando vogliono denigrare i laurenzanesi, v'è la famosa vendita del busto di san Donato, che, seconda una non meno documentata vicenda, sarebbe passato all'altra sponda in cambio di uno di quei famosi prosciutti di cui Anzi ha sempre, e giustamente, menato gran vanto. Il tutto fa capo ad una tesi che vuole i laurenzanesi golosi e commercianti nati ed incalliti, capaci di vender tutto... anche i santi. 
Noi non ci dilunghiamo più, né citiamo altri Santi Ausiliatori. Solo l'umana leggerezza può coinvolgere i Santi nel gioco e nell'ironia dei campanilismi. Ma l'uomo è fatto così: ammira e scherza, prega e fugge. 
La santità non è solo un'idea, una meta o una dispensa. La santità è sopratutto l'insieme di esempi reali ed eccezionali di vita, ed è per questo che un noto proverbio ammonisce senza tergiversazioni. 
Miracoli e tradizioni a parte, non è possibile ignorare la decadenza che Laurenzana, come altri centri di Basilicata, conobbe nei secoli XVI e XVII. 
Dice molto, e forse non tutto, la tassazione sui fuochi nell'arco di tempo compreso tra il 1595 ed il 1669. Si passa dai 520 ai 500 fuochi del 1648, anno di rivolte generalizzate e di brigantaggio diffuso, per giungere sino ai 434 del 1669. Il che significa decremento demografico con perdita quasi certa rispetto alla prima data di circa 400 unità. Naturalmente, vanno tenute in debito conto le approssimazioni legate a fattori tipici di quella età e di quella società. Per quanto concerne le sorti del feudo di Laurenzana v'è da dire che lo stesso, per combinazioni matrimoniali e per doti, finì inclusi tra i possedimenti dei Duchi Quarto di Vaglio e di Belgioioso. Altra nota, diciamo così, politica è il destino del titolo di Duca di Laurenzana. Ma il fatto, a dire il vero, sembra più un tema di storia interna di famiglie nobiliari che un evento di interesse e di rilevanza politica nel borgo. A noi basta annotare il fatto che detto titolo restò nell'ambito della famiglia Gaetani d'Aragona. Duchi famosi di Laurenzana, ma che con Laurenzana ebbero ormai poco o nulla a che vedere, furono Niccolò ed Onorato, tanto per citare i due che, sebbene in epoche successive e diverse, in turbiinosi ed altalenanti periodi, seppero dimostrare sagacia ed equilibrismo politico tali che ne favorirono le rispettive carriere. Sul piano sostanziale, verso la fine del secolo, vi fu l'abbandono del feudo da parte della nobiltà chiamata - anche per ragioni di ordine pubblico - a risiedere in Napoli. I nobili lasciarono così nei loro castelli, amministratori, rappresentanti e familiari a curare da presso i loro interessi, mentre nella capitale, aiutati nei loro litigi da avvocati spavaldi e spregiudicati, difendevano nel foro i loro diritti, veri e presunti, di proprietà attaccati dalle Università o dai nuovi emergenti. Questo fatto coincise con la ripresa lenta ma costante del borgo, ove gradualmente prese ad affacciarsi una nuova classe sociale costituita da neoproprietari terrieri ed una meglio composita rete di addetti al secondario sia pure operanti attorno alla vecchia struttura agricolo - pastorale. 
Non è facile scoprire quanto il Comune contasse in quel periodo in termini di peso politico e di capacità amministrativa: c'è il dato di fatto delle relazioni successive che parlano di larga prevalenza della proprietà feudale e di quella ecclesiastica, quest'ultima sempre alimentata dalle donazioni e dall'affermarsi del clero pletorico. Non vi sono di quest'epoca assai travagliata tracce di interesse artistico nell'edilizia sacra e feudale. Tra le personalità di un certo rilievo, un nome indigeno resiste all'attacco dell'oblio ed è quello del pittore Francesco Antonio romano, che pare abbia operato nel XVI secolo. La sua pittura annovera temi e soggetti di contenuto esclusivamente religioso e si esplicò all'interno dei conventi Niente, purtroppo, rimane di lui a Laurenzana e neppure a Corleto ove il Romano avrebbe affrescato la locale chiesa degli Osservanti con figure di Santi ed una Pentecoste. Restano, invece, due sue tele a Pietrapertosa e sempre nella locale chiesa degli Osservanti. Le stesse non appaiono in condizioni ottimali e delle due la meglio conservata rappresenta una deposizione. 
Altra personalità di tutto rilievo, sebbene operante in un settore completamente diverso, fu quella di frà Bonaventura da Laurenzana. 
Dopo frà Egidio è forse il più menzionato nella storia del locale con vento. Semplice ed illetterato il primo, dotto e scrittore il secondo. Questi visse nella seconda metà del '600 e scrisse nello stile caldo ed artificioso tipico della sua età una Vita del Beato Egidio da Laurenzana edita in Napoli nel 1674. Il suo nome, è tuttavia, legato ad una Cronaca della riforma in Basilicata, pubblicata anch'essa in Napoli nel 1683 e posta all'indice con decreto del 21 novembre 1690. 
Il perché di tale provvedimento è da ricercarsi nei giudizi ch'essa includeva, giudizi ovviamente non condivisi dalle gerarchie ecclesiastiche. Gli altri cronisti s'erano limitati ad una semplice registrazione dei fatti, fra' Bonaventura azzardò un tentativo di analisi e sulla sua opera cadde il pugno pesante ed intransigente della chiesa post-tridentina. La Basilicata era rimasta estranea per lungo tempo ai contrasti interni dell'ordine francescano, diviso tra rigoristi e conventuali. I suoi monaci si erano preoccupati esclusivamente di diffondere gli ideali di San Francesco, ma nel XVI secolo i contrasti giunsero pure nella nostra regione. Nell'opera suddetta, Frà Bonaventura analizzò le ripercussioni e le polemiche che precedettero la riforma approvata da Clemente VII nel 1532 e successivamente confermata nel 1579. 
Una significativa ripresa s'avviò in Laurenzana tra la fine del '600 e gli inizi del '700. Lo deduciamo da pochi, noti, ma sufficienti dati, anche se gli stessi vanno analizzati con cautela e valutati in relazione ai tempi. 
Andavano certamente prendendo quota gli emergenti della nuova leva di proprietari, ed il segno inequivocabile di questa ascesa è costituito dal figlio prete o dal figlio dottore. Nel secolo dell'Illuminismo, da noi si nota un clima nuovo chiaramente prodotto dal riassestamento sociale, dal fervore edilizio e dalla fiducia nelle nuove idee. Non dovevano essere molte le famiglie dei benestanti, ma le stesse di rivelano ben organizzate e sicure. Questo fatto è la prova ulteriore che guerre e terremoti non giungevano, come non giungono, sempre e soltanto per nuocere. D'altronde è saggezza popolare denunciare il doppio volto di questi flagelli. 
Il terremoto - dicono un pò tutti qui da noi - è come la guerra: rovina alcuni, aggiusta altri. Noi possiamo solo aggiungere, come qualcuno ci faceva notare, che qualcosa di simile nel passato aveva fatto pure la peste. 
L'avvento di Carlo III sul trono di Napoli e l'interessamento dello stesso per le condizioni delle popolazioni lucane, la cui indigenza non era sfuggita al suo occhio attento ed intelligente, stimolarono energie nuove nei nostri centri. E' pur vero che a leggere le relazioni inviate a don Rodrigo Gaudioso non nasce motivo che possa giustificare esaltazione per antiche glorie. Colpisce, infatti, soltanto il dato sorprendente del notevole incremento demografico. Nel 1736 Laurenzana registrava ben 4830 abitanti, vale a dire una popolazione più che raddoppiata rispetto a settant'anni prima. Restava naturalmente un paese agricolo e certamente povero, un po' per endemica condizione, un po' per cauta denuncia dei redditi. Sul suo territorio si estendeva il latifondo, i beni della Ducal Camera ed i beni della parrocchia. I più, quindi, lavoravano sulle terre di altri per produrre grano, vino, orzo, avena, legumi . . . e tutta una serie di prodotti tipici di un'agricoltura finalizzata, totalmente o quasi, al consumo interno. L'allevamento più diffuso riguardava i suini e gli ovini che davano vita ad una rudimentale industria di trasformazione. Permanevano belli, nonostante tutto, i boschi della Lata e dell'Abetina ricchi ancora di acque e di selvaggina, offerta a chi amava e poteva permettersi la caccia. 
Il Comune ci appare, in questi tempi, diventato più grintoso più presente e forse più laico, anche se non completamente autonomo dal potere feudale. 
Abbiamo detto più laico perché qualche sindaco si permetteva di non ottemperare ai tradizionali impegni col Convento, suscitando proteste, carta bollata, ricorsi ed interventi diretti del sovrano. Naturalmente, si fa per dire. Ci riferiamo alla somma che il Comune doveva versare ogni anno al Convento quale elemosina stabilita per la missa pro populo. Nell'agosto del 1850, al sindaco riluttante e seccato per questa consuetudine medievale, padre Francesco Saverio da Laurenzana richiamò una disposizione di Carlo III del 25 aprile 1754, che avrebbe fatto seguito ad una analoga opposizione da parte del Comune di Laurenzana. Secondo il padre guardiano, nell'atto redatto in Napoli dal notaio laurenzanese Domenicantonio Fanelli, si sarebbe fatto esplicitamente richiamo a tre cose: ai 51 scudi da versare ogni agosto; alla motivazione già citata ed alla durata di questa particolare elemosina. Ci colpisce proprio la durata convenuta di questa tassa: essa a partire dal 1473, presunta data della fondazione del Convento citata dal padre, doveva essere corrisposta in perpetuum vel mundo durante. 
Ma il Convento imparava a sue spese quanto poco affidabili fossero le promesse degli uomini e, soprattutto, quanto poco sostenibile fosse dagli uomini il "per sempre" delle promesse. Probabilmente, (o a pensarci bene), forse non si trattava di laicismo, quanto piuttosto di nuove rivalità o del desiderio dei nuovi di mettere le mani, o i piedi, sulle terre di San Francesco. (Ed anche qui si fa per dire). 
Ma se proprio vogliamo porre la questione sul piano culturale e religioso, non dobbiamo scandalizzarci più di tanto. E' vero che il fatto testimonia del declino della presenza del Santo, ma è pur vero che il rifiuto giungeva dopo ben quattro secoli di promesse mantenute. Un record, se pensiamo ai nostri tempi. Scusate se è poco! 
All'Antonini, che un giorno del 1745 s'apprestava a fare ingresso in paese, Laurenzana apparve ben disposta ed in amena posizione, con la bella abbazia dei francescani, da una parte, il borgo, dall'altra, aggrappato ai piedi della Chiesa e del maestoso castello. Probabilmente, qualcuno porse invito al barone di San Biase, che rimase stupito all'assaggio delle bellissime uve moscate dai laurenzanesi conservate fresche sino a maggio in particolari grotte utilizzate a mo' di frigoriferi naturali. Poi il suo occhio si farà fatto più attento, perché il famoso visitatore accenna dispiaciuto nel suo taccuino alla gran frana che aveva fatto e che certamente avrebbe fatto ancora a quel paese tanto male. Noi non sappiamo se qualcosa a Laurenzana sia scomparsa per colpa della frana, ma è probabile che qualche grotta o laura del passato sia, per lei, finita nel passato senza storia, pardon! senza memoria. 
La netta ripresa della vita del borgo è testimoniata non solo dall'incremento demografico, ma anche dalla buona vivacità culturale e da un certo fervore nell'attività edilizia, evidente soprattutto in quella sacra 
Sono del periodo in questione la ricostruzione a lamia del vecchio convento dei francescani, ove comparve con maggiore frequenza la pietra lavorata con precisione e sobrietà di decorazioni, e la ristrutturazione su vasta scala della Cattedrale, ove si inserirono elementi tardobarocchi. Dell'ultimo quarto del '700 sono pure un bell'altare della Potentissima ed una pregevole tela di Giambattista Serra da Tricarico sistemata sul fondo della chiesa del Carmine. 
Mancano esempi particolarmente appariscenti nel campo dell'edilizia privata, segno che la ricchezza non era giunta ancora a livelli tali da generare voglia d'arte, ma non manca qualche bel portale e qualche balcone caratteristico, incastonati in strutture non proprio vistose. Certamente vi saranno state altre cose che a noi in questo momento sfuggono, ma in questa sede non possiamo nutrire la pretesa d'essere completi. 
La cronaca registra pure un nome di intarsiatore locale, fra' Angelo La Raja. Ma la destinazione infelice del convento a cimitero, ideata nel secolo scorso, decisa ed attuata agli albori di quello attuale, ha praticamente fatto perdere ogni traccia di probabili lavori di costui e d'altri. 
In più generale e più vasto ambito culturale, altri nomi s'accampano a testimonianza di una evoluzione in atto non trascurabile. Colpisce il nome del padre Evangelista Motta maestro dei minori conventuali, che viene descritto frequentatore in Napoli di circoli giacobini ed iniziatore di altri giovani laurenzanesi alle idee repubblicane. Seguendo il suo esempio ed il suo invito, pare si sia formato Giovanni Battista Marone, medico e cultore di scienze naturali, introdotto da padre Evangelista negli ambienti rivoluzionari partenopei. Viene definito ricco di nobili sentimenti liberali e di elevata cultura l'arciprete don Domenico Dell'Orco; viene, inoltre, indicato come autore di scritti costituzionali il Carlucci. Peccato non resti più nulla del poeta rivoluzionario Angelo Carbone, descritto in qualche nota come malato di mente e molto sfortunato, ma giudicato, buon cultore di lettere classiche ed interessante compositore di versi. 
Non abbiamo citato altri politici come Leonardo Romano, anche perché l'elencazione potrebbe risultare stucchevole. In ogni caso, v'è da dire che alcuni di costoro operano in Napoli, altri furono protagonisti in loco nei giorni cruciali della Repubblica Partenopea, proponendo in periferia il fatale distacco, denunciato dal Cuoco, tra intellettuali e masse popolari, che alimentò e diede vita al moto sanfedista. 
A rendere più interessante la vita a Laurenzana, contribuivano, intanto, la settimana di feste dedicata al Beato Egidio, onorato dalla nobiltà che partecipava alla cavalcata in suo onore nelle forme spettacolari a le consone, e la festa della Madonna del Carmine, anch'essa con la risaputa e fastosa cornice dei nobili accorrenti dal circondario e del clero numeroso. 
Il richiamo di questa festa era tale che neppure i briganti sapevano resistere alla latitanza e scendevano dalla macchia per solennizzare la Beata Vergine. L'atto venne in una circostanza giudicato provocatorio del barone Federici di Abriola, vittima successivamente dei briganti e presente per l'occasione a Laurenzana, in realtà era stato un semplice prodotto di nostalgia 
Forse nacque pure nel '700 lo spettacolo carnascialesco di Pascalin' operato dal chirurgo teatrale ed irridente ai progressi della medicina, che andava, tuttavia producendo anche in Basilicata gli ospedali velleitari e di poco prestigio. 
Laurenzana, per farla breve, viene descritta sul finire del secolo XVIII cittadina tranquilla, operosa ed avviata a toccare le settemila anime. Non sembra toccata da fenomeni di delinquenza o di turbolenza politica tali da far presagire i fatti eclatanti di fine secolo, anche se un moto di contadini, che avevano proceduto all'occupazione di terre demaniali, avrebbe dovuto far riflettere sulle future strumentalizzazioni che detto malcontento poteva Ingenerare. 
Era il 1795. Da lì a poco la storia avrebbe avviato altri sviluppi. 
Prima di accennare ai fatti di fine secolo, ci piace ancora indugiare sulla vita e sulla società laurenzanese, così come andava evolvendosi tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo. Nel borgo qualcosa andava mutando in direzione di un diverso settore: l'artigianato. 
Stando a quanto dicono le statistiche murattiane, i migliori erano i mastri ferrai. Nelle loro botteghe, infatti, riuscivano a produrre coltelli, forbici, tagliole, pregevoli serrature, chiavi e - cosa assai sorprendente fucili definiti ricercati. 
La loro fu un'arte che durò a lungo, ma che purtroppo non conobbe evoluzione, spegnendosi inesorabilmente nell'immediato secondo dopoguerra, quando anche in loco, per la concorrenza del prodotto industriale, essa risultò troppo vecchia ed inadeguata. 
Nelle statistiche sopra citate si accenna pure alla presenza di due argentai capaci di piccoli lavori ed ad un'altra attività per noi curiosa: l'allevamento del baco da seta. Per quel che concerne quest'ultima, le statistiche rilevano, obiettivamente, che i tessitori laurenzanesi peccavano in sede di rifinitura. Veniamo, così, a sapere che alcuni mandavano direttamente fuori il prodotto grezzo, un po' come succedeva in quasi tutto il Regno delle due Sicilie. Quelli che non facevano altrettanto, si industriavano come potevano, ma ignorando i metodi di lavorazione, producevano grossolane opere a maglie e filo per cucire. Approssimativi risultavano anche i metodi per la tintura orientati, tra l'altro, esclusivamente verso il nero e il rosso attraverso l'utilizzazione di rudimentali timbri e di inchiostri che appesantivano eccessivamente ogni libbra di tessuto. 
Dai nostri filatoi uscivano pure tele di lino per camicie e lenzuola al costo di cinque o sei carlini la canna. Ancora a Laurenzana, veniva lavorato il cotone e venivano prodotte coperte e panni di lana, ahimé!, di verun pregio. 
Impietoso è il giudizio del relatore: Impedisce - egli dice - l'avanzamento la mancanza di gusto e di istruzione e precisamente il non usare il metodo di filare con macchina e dare il pelo. 
Ma all'istruzione avrebbe dovuto provvedere lo stato, come pure alla necessaria incentivazione. I borboni, invece, avevano trascurato le aree interne e non resi competitivi alcuni prodotti frutto di iniziative pressoché spontanee. E' giusto, quindi, prendersela con lo stato assente quando la gente mette a disposizione volontà, industriosità, come è pure giusto prendersela con la gente quando si verifica l'esatto contrario. 
L'unica vera risorsa naturale di Laurenzana era anche allora il legno. Apprendiamo che, in Basilicata, il nostro era un paese esportatore; poca cosa, in verità, specialmente dopo che abbiamo scoperto quanto sia controproducente ogni taglio speculativo ed irrazionale: siamo passati dall'80% della superficie boschiva della regione dei Ljki e preromana al 16% dell'attuale, dal fascino interminabile della terra dei boschi allo sfasciume di cui troppo spesso di parla. 
Dopo il campanello d'allarme dei moti contadini del 1795, gli avvenimenti politici registrarono a Laurenzana i tragici fatti della resistenza e della reazione sanfedista. 
Il Castello divenne, secondo alcune testimonianze, la sede sicura per le trame ordite dalla feudalità minacciata, dal clero antigiacobino e da qualche grosso proprietario terriero che temeva oltremisura le nuove idee eversive provenienti d'oltralpe. 
Nei giorni della Repubblica Partenopea gli elementi più inquieti si rivelarono i contadini, quel ceto sociale, in pratica, che più si sentiva escluso dai benefici dei tempi nuovi e dolorosamente privato dei benefici dei tempi vecchi. Essi avevano imparato ad odiare i nuovi proprietari ed erano potenzialmente predisposti per essere formidabili strumenti delle forze reazionarie e del loro progetto controrivoluzionario. 
Gli elementi più a rischio erano, naturalmente? i galantuomini, soprattutto coloro che non avevano fatto mistero delle loro idee liberali, se non proprio repubblicane. Su costoro si scatenerà la vendetta dei ceti privilegiati ed il risentimento violento del sotto proletariato agrario. 
La pronta caduta della Repubblica Partenopea del 1799 spense i primi fuochi e tranquillizzò che si sentiva minacciato dall'ordine nuovo. Ma fu una tregua di pochi anni. 
Al Castello le trame ripresero dopo quel 27 dicembre del 1805, giorno in cui Napoleone dichiarò decaduta la dinastia borbonica. Collaborarono col messo di fiducia del Belgioioso i noti protagonisti di qualche anno prima, che insieme stesero un piano efficacissimo e tremendo. 
Abbiamo nel frattempo, omesso di parlare solamente del clero, ma esclusivamente per ragioni di disomogeneità o di diversità di comportamenti all'interno dello stesso. Accanto, per esempio, alla nobile ed elevata figura dell'arciprete dell'Orco, figuravano altri personaggi visceralmente reazionari e filoborbonici. C'era chi, con aperta noncuranza, rifiutava di pregare per il nuovo re Giuseppe, come il cauto invito dell'arcivescovo proponeva, e non aggiornava, come altri, il testo delle orazioni ufficiali. E' possibile, tanto per intenderci distinguere il clero laurenzanese in due categorie principali: gli aggiornati dell'Oremus pro rege nostro Joseph e gli ignari dell'Oremus pro rege nostro Ferdinando. Ma qualcuno si spingeva oltre e faceva politica attraverso gli slogan diffusi o trascritti sulle porte delle chiese. 
I resistenti antifrancesi si rivelarono, pertanto, spregiudicati e sciaguratamente vendicativi. Utilizzando i briganti della banda Taccone, diedero praticamente via libera agli stessi e si resero moralmente responsabili dei fatti del Luglio e dell'Agosto del 1809 che poco o nulla hanno da invidiare a tante vendetta medievali di stampo guelfo o ghibellino in alcune città centro-settentrionali, e per spietatezza di esecuzioni e per piromanie. 
Ma dopo quegli anni incerti, vi fu la storia certa dei moti liberali del 1821-22 che videro recuperati all'opposizione antiborbonica, nelle file della Carboneria, anche alcune frange inizialmente su posizioni diverse, e Laurenzana, sebbene messa a dura prova dalla corte marziale del maresciallo Roth, diventò un centro vivo di azione liberale. 
Dobbiamo veramente pensare ad un problema di frane quando sentiamo parlare di nuova era per l'ubicazione del cimitero individuata in contrada monastero oppure al compromesso peso del Santo nella cultura del borgo? 
Vada pure al primo motivo il primo visto per quella ubicazione, ma è probabile che il Santo abbia già visto scemare la sua presenza e s'appresti a cercare le più consone a lui strade del cielo. Il dubbio ci assale mentre leggiamo il verbale-inventario di un'ispezione su al Convento (1808) effettuata dietro la spinta di segnalazioni anonime di fuga di oggetti sacri dallo stesso. 
Nuovi espropri minacciano, questa volta, i francescani, nuove Erinni puntano irose i loro sguardi sul vecchio borgo. Si affacciano in lontananza i tempi in cui più nessuno rimpiangerà la cuccìa, il tipico piatto dei poveri offerto a Santa Lucia dalla cucina di frate coco e si avvicinano i giorni in cui l'amabile espressione avere un santo in paradiso diventerà ironica speranza o metafora concreta di menti più terrene. 
Per una migliore viabilità, è pronto (1824) un progetto e poi (1826) un riprogetto del ponte sul torrente San Pietro. Che conquista e che fatica per liberarsi dalle acque travolgenti di quell'inerme ruscello dalle lunghe afe estive! Eppure il ponte s'apre (1830) ed apre verso le vigne dei Santi quaranta e giù sino a Tricarico. 
E poi l'acqua e le... polemiche nella Laurenzana dell'800 coi suoi oltre settemila abitanti, con poche fontane e mediocre approvvigionamento idrico. Nascono le due tesi: quella della poca acqua erogabile e quella della molta acqua nascosta. Chi ha ragione? Realtà o fantasia? Qualunquismo o razionalità? Praticismo o programmazione? 
Un ingegnere, certo Biancucci, parlò allora (1855) di supplizio di Tantalo per quel povero paese che moriva di sete e che nuotava sull'acqua. Oggi, un neoincaricato geologo conia per noi una tesi e forse una sintesi conclusiva: Si nuota sì, ma su poca acqua. In termini più espliciti, la tesi conferma il permanere dei problemi di dissesto idrogeologico accanto alla certezza che l'acqua c'è e va cercata con studio e competenza, per ché il terreno argilloso non ce la sputa addosso. 
I problemi che gli amministratori laurenzanesi affrontano e dibattono nei consigli comunali nei primi decenni dell'800 sono quelli di sempre frane, acqua, migliore viabilità. Le soluzioni, naturalmente, sono concepite e proposte in ragione delle possibilità finanziarie, delle esigenze contingenti e delle indicazioni provenienti dalle conoscenze e dalle menti d'allora. 
Ma la nostra attenzione resta per lo più colpita dai soliti lunghi tempi necessari per la realizzazione, il cui ritmo serve a calarci non tanto nelle risapute ed ovvie lentezze tecniche e burocratiche della Basilicata borbonica, quanto nella dimensione che in tempo generava di sé all'interno della coscienza collettiva. 
Una differenza esistente tra zone sottosviluppate, ma sarebbe meglio dire povere, e zone ad alta suscettibilità di sviluppo consiste, secondo noi, nella maggiore o minore brevità della linea che intercorre tra il dire e il fare. 
Il riflesso nelle coscienze è inevitabile, perché lentezza e brevità vi generano delle scansioni differenti da quelle generate altrove dai loro contrari. Solo le rivoluzioni producono alterazioni con le loro spinte e le loro accelerazioni; in assenza di queste fanno qualcosa di simile le casualità. Le casualità sono legate all'imprevedibile naturale e storico. 
Laurenzana, come del resto tanti paesi al mondo, sin qui non ha mai beneficiato di niente di tutto questo. Forse non avrà mai avuto sentore di quel tempo sconosciuto e non spiegato sui tanti piani dell'esistenza: il tempo, per troppo tempo, ha coinciso con la ruota quotidiana, con quella stagionale, con le alternanze metereologiche che legavano al destino della terra il destino di coloro che ne dipendevano. 
Questa condizione secolare ha creato all'interno delle coscienze un piano in cui si collocano le cose che non mutano o che mutano tanto lentamente da lasciare freddo e assopito l'occhio che non coglie. 
E' forse afferrando questo concetto che noi riusciamo a capire quello che siamo e quello che resta annidato negli strati della nostra cultura, retaggio indiscutibile di nove secoli presumibili di storia. 
Non muta la natura ed il passaggio, non mutano le condizioni di vita, non mutano le idee e le abitudini, non muterebbe il momento politico che coincide esso stesso con l'idea dell'immutabilità. 
Che il paesaggio non muti o non sia mutato non sempre e vero o, se pur vero, non sempre è un male. Che per molti le condizioni di vita non mutino o non siano mutate è forse vero, com'è pur vero che per altri mutano, in meglio o in peggio Non sempre certe idee si evolvono e non sempre certe abitudini si correggono Questo è vero, com'è vero che troppi credono o lasciano credere che il momento politico abbia un solo volto insostituibile ed eterno. 
Non sempre, tuttavia, è lecito dar torto ai luoghi comuni, specie quando la realtà offre loro riscontri e prove. 
La feudalità era stata raggiunta dalle leggi eversive nel 1806, ma è pur vero che troppo feudalesimo perdurò o ci mise troppo a scomparire. Il nostro pensiero va al pubblico mulino ad acqua che il Comune di Laurenzana progettò di costruire diversi anni dopo ed alla opposizione d'istinto del duca di Belgioioso, che rivendicò il possesso dell'acqua della Lata anche fuori dai confini della sua proprietà. Segnale positivo, in quella circostanza, fu la decisa contrapposizione del Comune, ormai sufficientemente forte per essere in grado di realizzare un'opera che a noi oggi appare di trascurabile entità. Ma, tornando al tempo ed alle sue scansioni, torniamo pure a ricordare che abbiamo parlato di piani diversi della coscienza, e non a caso, perché quel tempo che stentava ad incalzare le cose ferme, non aveva mai cessato di incalzare l'esistenza degli uomini: di allora e di sempre, ovunque. Semplice o dotto che fosse, al termine d'ogni faticosa giornata, ognuno continuava a scoprire che la vita era soltanto un breve sogno. 
Sui resti delle grosse tragedie dei tempi moderni, l'occhio esperto della televisione ha più volte fermato l'immagine simbolica di testimoni muti ed immobili offerta dagli orologi di piazza o di stazione, casualmente coinvolti. 
A noi torna alla mente il terremoto della notte di quel mercoledì 16 dicembre 1857, Quando tre scosse di tipo ondulatorio e sussultorio misero in ginocchio una terra abituata da sempre a tremare. 
Anche Laurenzana conobbe il terrore alla prima scossa, i boati ed i crolli dopo le seconda e la terza. 
Erano le ventidue e quindici, come conteremmo noi oggi. Erano le cinque ed un quarto, come si diceva allora, perché si iniziava a contare dall'ora del tramonto del sole. 
Su, al Castello ex feudale, tacque per sempre l'orologio da cui prendeva l'ora la comunità locale. 
Allora non vi fu una ricostruzione abile a cancellare il ricordo ed a riproporre la danza delle,ore. Giudicate in pericolo e bisognose d'esser poste in salvo, la macchina e le due campane vennero rimosse ed accantonate chissà dove. 
La delibera comunale annotò freddamente anche la spesa: 5 ducati e 40 grani. 
Era il 4 gennaio e correva l'anno del Signore 1858.

 

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