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PRESENTAZIONE

La tentazione di scrivere di Potenza mi ha tormentato da sempre.
Sono nato ad Avigliano da padre genuino ed autentico aviglianese per fattori genetici, strutturali, sentimentali, anche passionali, come è nel carattere degli aviglianesi veraci, mia madre era di Ruoti, ma io mi sono sentito e ritenuto potentino e non per semplice adozione. un'affermazione che sottoscrivo in piena coscienza e senza infingimenti perché la ritengo naturale, giusta, doverosa. Sono venuto a Potenza in fasce e qui sono cresciuto e non soltanto fisicamente. Ero poco più che niente e qui sono diventato qualcuno, certo, per meriti miei ma anche, e soprattutto, per merito di chi mi ha conosciuto, aiutato, apprezzato. Non rinnego, con ciò, le mie origini, che altamente mi onorano, e non tradisco nessuno anche perché non ho interessi da difendere o posizioni da acquisire.
Se ad Avigliano ho visto la luce della vita a Potenza ho vissuto tutta la vita e anche se, calpestando costituzione, carattere, personalità, volessi mascherarmi da ipocrita ed usare la tanto abusata frase del « cordone ombelicale » affermerei una cosa inesatta sia nell'interpretazione allegorica che scientifica. Il cordone ombelicale è un annesso fetale che mette in relazione il feto con la placenta ed al momento della nascita del feto si recide ed una parte si distrugge con la placenta mentre l'altra parte va in preda a necrosi per mancanza di vasi e cade lasciando una cicatrice ,che è, poi, l'ombelico. Il cordone, dunque, è un elemento a vita breve, limitata al periodo intrauterino e legata alla presenza della placenta.
Se il feto è il prodotto dell'amore dei coniugi la placenta appartiene alla madre e mia madre non era aviglianese. Se il cordone ombelicale naturale muore per mancanza di vasi e, quindi, di nutrimento, anche il mio cordone ombelicale allegorico si estinse per mancanza di nutrimento ideale. Mio padre era solo e con una sorella nubile, morirono, manco a farla apposta, a cinquant'anni tutti e due e non lasciarono parenti in Avigliano ma non ne avevano. Si aggiunge a questo fatto, di per sé importante, che i miei rapporti, umani e professionali, con i « cittadini di Avigliano » non sono stati mai improntati a legami di continuità sentimentale ed affettiva, non per colpa mia e nonostante i miei sforzi per esserne degno. Ho ricevuto testimonianze di stima e di attaccamento, sempre, dai contadini, oriundi aviglianesi e sparsi un po' dappertutto, dagli aviglianesi residenti fuori di Avigliano perché più genuini, più all'antica, più aviglianesi « di dentro », senza ostentazioni, il più delle volte spacconescamente forzate e insincere, senza sofisticazioni, senza il complesso « aviglianesite » a tutti i costi. Non mi sono mai piaciute le manifestazioni e le espressioni razzistiche, a qualsiasi livello, e non mi piacciono, non amo i miti e le mitizzazioni, ritengo di pessimo gusto ed anche scarsamente intelligente parlare sempre di sé e solo di sé.
Tutti gli uomini hanno pregi e difetti, forse, più difetti, che è saggio riconoscerseli in umiltà e modestia, i pregi, se sono tali, li riconosceranno gli altri. Nascere in un paese anziché in un altro, in una famiglia anziché in un'altra non può costituire un pregio o un vanto perché non è frutto di una scelta ma semplicemente del caso, le virtù, quindi, non sono in proporzione al dove, al quando, al come si nasce ma al chi ognuno saprà essere e al come saprà procedere nella vita. Pur sentendo, naturalmente, per rispetto a mio padre, i rapporti con Avigliano in maniera privilegiata, non sono, però, nelle condizioni di ripetere, allorché suonerà la mia ora, la frase pronunziata da mio padre, esalando l'ultimo respiro in quella terribile notte del 29 luglio del 1929, « Portatemi alla Terra », anche perché sono cose superate dai tempi e fra poco inconcepibili.
È con le buone azioni da vivo che si onora la propria Terra e non con il ritorno da morto, magari dopo una intera vita di lontananza e di disinteresse. Certo, non ho frequentato Avigliano con ritmo abitudinario, non avevo la spinta, il movente, ma le abitudini sono, il più delle volte, senza sapore e senza profumo.
Posso affermare, in serenità e coscienza, che ogni qualvolta mi sono recato, e mi reco, lo faccio come se andassi in pellegrinaggio e con il rispetto che si ha per le cose care. Non manco di dare un'occhiata commossa « a la puteia sotto a r' 'cchiacculate », che ha conosciuto i sudori di mio padre, gli squilli dell'incudine alla tarantella con cui si chiudeva la giornata di lavoro. Non manco di fare un giro per la « chiazza » con la speranza di incontrare ancora qualche « cumpariedde » di mio padre, qualche suo amico per sentire parlare di lui, della sua bontà, della sua generosità, della sua versatilità, per sentire ancora chiamare « zì Rocco  Mast' Rocco ». Fra quegli amici non ho dimenticato il buon « cumpà Peppe r' Pio ». Non è più da anni ma ho sempre l'impressione di vederlo sbucare fra gli alberi della « chiazza », distinto nella sua bella figura di galantuomo, con il suo cappello alla scout, alto, pizzicato in avanti e a larghe tese, con il suo pizzetto triangolare, che tanto gli donava. Era dolce, pacato, corretto quando parlava e per quanto contenuto e dignitoso, negli ultimi tempi, la sua espressione non riusciva a nascondere il suo immenso dolore, che di dentro lo tormentava e torturava. Il figlio Pio, che mio padre aveva cresimato, bersagliere al 3° Reggimento in Russia, non era più ritornato. Era un bel ragazzo, un fiore fra i tanti fiori della razza italiana di quel tempo, che cattiverie, megalomanie, istinti perversi avevano spin
to alle sofferenze e alla morte, che si immolarono con il sorriso sulle labbra e che hanno lasciato ai credenti nei valori, e, non certo, agli atei ed agli immemori, il profumo della loro giovinezza, oltre ogni dire integra moralmente, sana fisicamente, senza vizi e senza complessi.
Il ricordo di Pio mi è particolarmente caro e mi commuove perché era con me, ufficiale medico, al 1° battaglione del 1° Reggimento Bersaglieri quando, dopo la campagna di Albania, venne scelto ed incluso in un battaglione complemento in aiuto al 3° Reggimento in Russia, già decimato dall'impari lotta. È un ricordo che durerà quanto la mia vita terrena anche perché di quel battaglione dovevo far parte anche io e fui sostituito all'ultimo momento da un collega, pari grado, volontario, anche lui mai più ritornato.
È un ricordo che durerà lacerando proprio perché, graziato da improvviso sbando del destino, io sono ritornato senza di lui.
E con cumpà Peppe r' Pio io conservo nel mio cuore tutti gli artigiani aviglianesi, grandi rappresentanti e artefici di un artigianato nobile per onestà, serietà, capacità, che ha lasciato segni indelebili e che non ebbe giusto seguito e meritato premio soltanto per la incomprensione e l'inettitudine della classe politica e dirigenziale, da Rocco Rusiello, ebanistascultore del legno, a Michele Spinamare, non calzolaio ma artista della scarpa, originale e geniale creatore di forme e modelli, a Mast' Vito r' Meuue (all'anagrafe Valvano), maniscalco, inventore e creatore di strumenti professionali. Questo solo per fare qualche nome perché gli altri sono della stessa dignità e degnità e vorrei, mi sia scusata la mia presunzione dettata soltanto da amore per la nostra terra, il nostro passato, gli umili che fecero la nostra storia, che queste mie semplici e brevi citazioni fossero di stimolo e di incoraggiamento a qualche aviglianese di sostanza e non di chiacchiere, ci sono tante belle intelligenze e culture anche nell'Avigliano dì oggi, a scrivere, imitandomi, ne sarei felice, « Avigliano nei ricordi e nelle immagini ». Di Emanuele Gianturco, dei fratelli Coviello si è scritto tanto, si è detto tutto o quasi tutto in Italia e nel mondo ma poco o niente si è detto e si è scritto di don Antonio r' Scesce (Labella), dalla intelligenza esplosiva, dalla vena poetica spontanea e piacevole, dalla oratoria brillante ed efficace. Meritano un posto nella storia della nostra terra anche questi, forse, più questi, che non si lasciarono incantare da emigrazioni sicuramente favorevoli, ma qui rimasero per continuare e onorare tradizioni, usi, costumi, operando e soffrendo. Meritano un posto le vecchie vie e le antiche case r"mbera la terra, r' 'ncapa a lu puosce, r' lu surutiedde, lu uafio e lu bell'vrè, come la festa r' la Maronna o r' Sant' Vito cu' gli vinnili, lu masce e 'rrù fuoco r' zì Cola Maria o r' Ciarlitiedde, come la grutta r' zì Cola Perrotta, che ancora rimbomba delle grida appassionate r' la morra a firnì, r' lu patrone e  sotto cu lu urm' e lu 'mbriaco per sfizio o p' strire, come le storielle condite di saggezza e di arguzia popolare, come zia 'Uanna r' Viggiano, analfabeta dalla intelligenza lucida e dall'ingegno vivace, che parlava in versi dialettali a rima baciata, passando dal serio al faceto ed al satirico, scolpendo uomini, cose, scenette come in una lastra fotografica.

Avigliano: Antico Panorama

Non mi è stato e né mi è indifferente passare sotto l'arco r' la chiazza e non perché, a quanto si dice, vi fosse stato appeso il cadavere di Ninco Nanco.
Passare l'arco è stato ed è per me come passare in un altro mondo, un mondo povero di mezzi materiali e di beni di fortuna, bersagliato dalla mala sorte, ma ricco di moralità, di senso dell'onore, di realtà, di rettitudine, di sincerità, di onestà, un mondo in cui lu sciur'ch' e la mormorazione erano cattive azioni e la vita era comprensione, amicizia, aiuto scambievole, conforto reciproco, partecipazione non formale, ipocrita e perciò fastidiosa, ma sostanziale e sostanziosa.
Passare l'arco ha avuto per me, e lo ha sempre, il sapore del refrigerio dell'anima, inquieta per le vicissitudini di tempi maligni, perché mi ha ricondotto alle carezze materne della cummara Luisa Labella, spirito eletto nei pensieri, negli atti, nelle opere.
Alle avversità di un amaro destino, alle difficoltà di tutti i giorni seppe opporre il coraggio e la forza d'animo di un'educazione raffinata e nobiltà di sentimenti. Seppe soffrire, mai piagnucolando e mai rassegnandosi, ma esaltandosi perché nel dolore e nel sacrificio si incontrava con l'umanità, si incontrava con Dio ed in questo credo la sua vita fu culto della famiglia, amore per il prossimo, fede in Dio.
Al ricordo di zia Luisa si abbina, d'obbligo, il ricordo di mia zia Maria Giuseppa Galasso, nubile per sua scelta e per il preciso scopo di vivere accanto al fratello Rocco, mio padre, vicino alla cognata, mia madre, per i suoi nipoti, nel lavoro, nel sacrificio, nella preghiera. Furono due anime gemelle nella stessa tempesta di eventi gravosi e sfavorevoli. Furono due cirenei che, materialmente, abbracciarono la pesante croce della famiglia, diretta per zia Luisa, indiretta per zia Seppa, senza sudori e senza lagrime ma con la preghiera così come abbracciarono la croce ideale di Cristo nelle periodiche, faticose, « quarantane » verso il Calvario.
Al di là dell'arco r' la chiazza vi è la Chiesa Madre, dove ricevetti il battesimo, con il ricordo di buoni sacerdoti, l'arciprete Loffredo, figura distinta e composta, don Nicola Stolfi, dall'aspetto trasandato e distratto, studioso, di grande cultura umanistica, grecista eccezionale e latinista, di cui sarebbe opportuno raccogliere e pubblicare una bio-bibliografia.
Al di là dell'arco vi è la via Mauro Macchi, dove sono nato, con la casa paterna « 'mbacc' a lu Bell'vrè » e sotto « ai pezzienti », la casa di riposo per vecchi diseredati e senza famiglia.


Fra loro faceva spicco una donnetta minuta e tanto distinta, intelligente e piena di contegnoso decoro, Alice, « la mammana » che aveva assistito alla nascita di tanti aviglianesi e che l'ingiustizia umana e sociale, l'ingratitudine, aveva relegato in quel posto, dove non mancava un letto e un tozzo di pane ma non donava, certo, calore umano e consolazione spirituale, e morale.
Fra i tanti aveva visto nascere tutti noi e mia madre le serbava riconoscenza e particolare affetto, non la dimenticò mai, materialmente, con quel che poteva, spiritualmente, con tutto il suo cuore.
Partivamo da Potenza sempre con un pacchettino per Alice. L'accettava confusa e vergognosa mentre con gli occhi umidi di lagrime ci stringeva al suo esile corpo in un misto di soddisfazione e di materno amore.
In quella salita Mauro Macchi abitarono due personaggi, emblematici della vita, della mentalità e, perché no, della cultura di quei tempi: « Zì Vicce e Cirodda ».
Cirodda era una donnetta tutta pepe e sale, d'intelligenza vivace e « cu la linguzza spuntata », più volte sposa e più volte vedova, talché quando parlava della « banalma » non si sapeva mai a quale buonanima si riferisse. Visse gli ultimi anni con la cassa da morto, situata su di un ripiano in legno, appositamente costruito al di sopra del letto. Era una cassa di legno pregiato all'esterno e di zinco all'interno. Per scaramanzia, diceva, ma anche per la preoccupazione che, alla sua morte, i superstiti non avessero ottemperato a questa sua volontà: che l'ultimo vestito fosse buono per comparire decente e bene accetta al cospetto del Padreterno.
Zì Vicce, un ometto aggraziato, con la faccina tonda e liscia come un bel Sant'Antonio, con un taglio di capelli monacale, con l'orecchino d'oro all'orecchio destro, a pensarci bene, oggi, si potrebbe definire come il progenitore dei Beats. Aveva intelligenza, fantasia e mani d'oro nel fabbricare ninnoli di creta, che, poi, pitturava, da mettere nei presepi ma anche come soprammobili.
Suonava la Pastorale di Natale e cantava con voce bitonale. Da solo faceva spettacolo ed era, veramente, uno spettacolo nella figura e nelle movenze.
Ecco fin dove sono e mi sento aviglianese, passato e presente, ed ecco perché ho creduto, quasi un dovere, di scrivere di Potenza.
Forse, mi era mancato il tempo, forse, il coraggio ma, soprattutto, mi era mancata la spinta Al caso, due fotografie dell''antica Potenza nelle mani di Pino Gentile, la Redazione del settimanale « Tribuna di Basilicata », la solita domanda « che fare? » « Potenza nei ricordi e nelle immagini »fu la risposta immediata e spontanea e l'idea si concretizzò e fui autorizzato a riempire, settimanalmente, una pagina del giornale con scritti e fotografie.
La prima pagina comparve nel n. 19 di martedì 5 ottobre 1982 e fu come uscire da un incubo, come sgravarmi di un peso, ma quanta paura, come se allora movessi i primi passi nel giornalismo e nella narrativa. Fu una presentazione, scritta come si dice in gergo, in punta di penna, in semplicità e modestia, garbata, così:
« Non ho la pretesa o, peggio, la presunzione di scrivere una storia di Potenza. Non sono uno storico e, tantomeno, un attento e paziente ricercatore ma, d'altronde, penso che non vi siano nem meno fonti da scoprire né sono a conoscenza che siano venuti alla luce documenti o reperti archeologici tali da portare lumi nuovi o concezioni diverse sulle origini della nostra città.
Con le incerte origini diventa ancora più difficile comporre, con una certa attendibilità, una mappa delle componenti umane e sociali degli antichissimi tempi.
Pochissimo è stato scritto, molto è stato tramandato a voce di famiglia in famiglia e questo passaggio di ricordi in ricordi ha contribuito, a mano a mano, a sfocare i ricordi stessi e, molto spesso, a disperdere i fatti e gli avvenimenti.
La ricerca storica è sempre difficile e diventa sempre più difficile in assenza di documenti. Sicuramente del materiale poteva trovarsi presso alcune famiglie di potentini veraci ma le vicissitudini delle famiglie stesse, la loro emigrazione, il brigantaggio, i movimenti politici e tellurici, il progressivo e crescente innesto nel seno della popolazione originaria e genuina di potentini di gente forestiera, sono stati tutti elementi negativi ai fini di una composizione storica precisa, veritiera ed attendibile.
Basti pensare alle rovine che procurò alla città il terremoto di mercoledì, 16 dicembre del 1857, alle ore cinque e un quarto del mattino, terribile per gravità dei fenomeni, per la durata e la frequenza delle scosse, e che fece anche molte vittime fra la gente, sorpresa nel sonno, per rendersi conto che in momenti in cui è difficile salvarsi la vita non si pensa, certo, a salvare le cose.
Io so, dunque, di Potenza tanto quanto ho potuto apprendere dalle opere che restano e si trovano ed è veramente tanto anche se molte cose sono nebulose.
So, innanzitutto, che Potenza era modesta come città, ma piena di fascino, provvista per una vita frugale ma comoda, sana e tranquilla, campestre e casareccia insieme. Non vi erano grandi ricchezze ma vi era il lavoro e l'economia veniva amministrata con parsimonia e giudizio. Non vi erano grandi palazzi e strade imponenti ma vichi selciati, tuttavia si viveva decentemente, decorosamente e sicuri.
Leggendo e scavando nei miei ricordi, che sono proporzionati alla mia età, provo tenerezza, nostalgia e, lasciatemelo dire, anche rabbia per quanto di semplice, di caratteristico, abbiamo perduto, per le tradizioni che abbiamo sepolto.
Ed ecco lo scopo di queste pagine. Pagine fatte di ricordi a memoria e, quindi scritti, corredate di testimonianza visiva, attraverso una serie di fotografie stupende, artistiche, che, con tanta squisita comprensione ma anche per amore verso la città, mi hanno dato Gerardo Pecoriello, titolare della " Cine - Foto Bucci " e Leonardo Marolda, integerrimo e zelante funzionario del Comune.
Due autentici " patiti " come me e non gli si può dar torto.
" Una carrellata ", dunque, come si usa dire, fra amici e fra amici di Potenza, in particolare, ed ecco perché non vorrei essere solo a scrivere, voglio scrivere insieme e, perciò, invito tutti gli amici di Potenza ad inviarmi i loro ricordi, gli aneddoti, le osservazioni ed ancora fotografie.
Una richiesta di collaborazione per il bene della città, per la difesa della nostra città da ulteriori barbarie, una esortazione che io vi rivolgo, amici, con i versi del grande poeta dialettale potentino, Raffaele Danzi, quando nella sua canzone " La costituzione di luglio 1848 " esortava i giovani a difenderla:

Affilareve li 'ccett'
nu' ddasciar' li curtiedde,
e pensar' ca lu varniedd'
nu' v'avir' da fa strazzà.

Sono versi che potremmo adattare alla circostanza e sarebbero di tanta efficacia ed attualità solo mettendo al posto di " varniedd' " il nome di Potenza.
Facciamolo e non la facciamo più " strazzà " ».