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PARTE I
(continuazione)

I« T'haia affaccià da Samuele... solo iedde... » oppure « Gn' veremme da Rocchino... » oppure « T'haia accurdà cu Felicielle... ». Tra quel negozio d'angolo di via Pretória, da tempo, ormai, e inspiegabilmente, con la saracinesca abbassata, ed il negozio di scarpe « Fusco », di fronte all'edicola-giornali di Vittorio Paggi, vi è un portoncino, che la furia del nuovo non ha ancora distrutto.

Samuele, di professione sensale

Era il portoncino di Mancusi, dal cognome dei proprietari degli appartamentini di sopra (come era ripida e mozza fiato la scala per raggiungerli) e del sopracitato negozio, dove gestivano una tabaccheria, che era « nominara » per il tabacco da naso più profumato e per il mezzo toscano « 'cchiù fresco ». Almeno così si diceva tra « paesani e frastieri » ed io la riporto come « vox populi », probabilmente anche « vox Dei », né posso dire se tale fama fosse giusta o usurpata perché, a quell'epoca, non annusavo tabacco né fumavo il toscano.
In quel portoncino, dunque, aveva il suo ufficio Samuele Pignatelli, detto soltanto « Samuele » e come tale conosciuto. Talvolta ho pensato che il suo cognome fosse sconosciuto anche ai suoi stessi parenti. Lo conosco e lo ricordo io perché ho avuto il piacere di essere stato, alle elementari, compagno di scuola del figlio Fortunato, tuttora fra i miei amici più cari e mio grande e sincero estimatore.
Samuele era di media statura, dallo sguardo guercio, dall'aspetto « menz' scugnare » e trasandato, con l'immancabile coppolecchia » in testa, con ciuffi di capelli, incolti e in disordine, che s'affacciavano dappertutto, sulla fronte, ai lati, « 'ndreta a lu cuzzett », un quadretto, insomma, così a prima vista, non troppo rassicurante né amabile. Dietro quelle sembianze, però, si nascondeva un uomo educato, civile, dolce nei modi ma, innanzitutto, di notevole intelligenza e di grande memoria. Di professione « sensale », seduto sui gradini di dentro, quando era cattivo tempo, o su quelli di fuori, Samuele non aveva registri e nemmeno un taccuino, forse, non sapeva nemmeno scrivere, ma sapeva bene a mente chi aveva appartamenti o camere da affittare, dove erano, chi aveva bisogno di una persona di servizio, di un muratore, pittore, idraulico, falegname, insomma, tanto per usare un termine moderno e molto di moda, un « generai manager ». Oltretutto si preoccupava anche di accompagnare la gente e di mediare il prezzo. E quanto guadagnava? Non è esagerato dire che viveva di « grazie » perché si contentava di quel poco che gli regalava chi concludeva l'affare: « Samuè, fa tu ca pò p' t' gn'è na bella realìa ». Era la frase in bocca a tutti e Samuele faceva veramente il suo dovere e cercava di contentare tutti, ne faceva un fatto personale « brutte fihure ie nunn' n' vuoglie fa ». Magari fosse vissuto in questi tempi o almeno fosse vissuto a Napoli, dove i sensali si facevano pagare e bene, avrebbe lasciato qualche cosa anche al figlio ma non lasciò beni di fortuna: morì così come era vissuto.
Passò dal portoncino di Mancusi alla tomba, tanti non se ne accorsero e tanti fecero presto a dimenticarlo. Tutto passa, è l'amara vicenda della vita, con Samuele sono passati anche i nostri genitori, tanti gentiluomini e quel fiore che, di tanto in tanto e con molta ostentazione, portiamo sulle loro tombe è un inutile ed ipocrita atto di pietà, che non li onora affatto e non li ripaga, certo, dei sacrifici di tutta la loro vita generosa. Furono sacrifici materiali « a strazzà la vira » giorno per giorno ma ancora di più sacrifici morali e mortificazioni perché ingiustizie sociali e beni di fortuna hanno divisi e incattiviti gli uomini sempre nel passato come nel presente e così sarà anche nel futuro.

Rocco Tulipano e Mario Albano in uno dei tanti skecht durante la « naia » (1933).

« Gn' veremme da Rocchino » e Rocchino era Rocco Tulipano, il barbiere di « dietro l'angolo », infatti, « il salone », che affacciava sulla « chiazza » faceva angolo con la tabaccheria Mancusi.
Un localino accogliente, pulito e sempre alla moda ma, soprattutto, caldo di quel calore umano che solo Rocchino, per virtù innate e coltivate, sapeva donare. Un uomo compito nella persona e nei rapporti con gli altri, distinto, di una eleganza accurata ma sobria e decorosa e mai affettata, aveva intelligenza e ingegno vivace e multiforme. Aveva ereditato dal padre, Gennaro, il mestiere di barbiere ma avrebbe potuto eccellere in qualsiasi altro mestiere o professione, ne aveva le qualità. Aveva seguito gli insegnamenti del padre ma per volontà dello stesso padre aveva fatto l'apprendistato presso altri maestri fra cui don Carluccio Viggiani, famoso per « becchi e mustacci » (pizzetti e baffi) a punta di forbici e taglio di capelli « all'Umberto », di cui vi era predilezione e moda. Ma vi era stato mandato per imparare modi di servire, di vita, costumanze di clientele diverse e di diverse condizioni sociali, perché, allora, niente doveva essere affidato al caso, al pressapochismo, alla superficialità e perché si sentiva, interiormente, il bisogno di superare se stesso e gli altri.
Aveva cominciato a lavorare quando i barbieri per arrotondare i poveri guadagni andavano in giro applicando « coppe e sanguette », di cui i medici facevano larga prescrizione per ogni forma di reumatismo o di mal di testa; quando il barbiere si recava di casa in casa per radere barbe e tagliare capelli a preti, a « persone civili », a malati e che, appunto per questo suo girare era ritenuto « il gazzettiere della città » e non era una semplice maldicenza. Oltretutto, la sala da barba era il ritrovo, c'era anche il giornale gratis da leggere, degli sfaccendati, dei pettegoli e, purtroppo, era là che si riferivano e si apprendevano e si propagandavano, magari ingigantendole, le notizie del giorno e le avventure o disavventure delle famiglie. Ma la sala da barba si frequentava anche per la simpatia che sapeva suscitare il barbiere che, nonostante le ristrettezze dei tempi, era di indole allegra, tendenzialmente festaiola e spendereccia. Basterebbe ricordare quello che erano capaci di fare il lunedì, che era il giorno di festa dei barbieri, per rendersi conto che erano diversi dagli altri « artieri ».
Ricordo bene quando tornavano, a tarda sera, dalle loro scampagnate a Betlemme, a S. Antonio la Macchia, a Macchia Romana, sulle carrozzelle inghirlandate a festa, chiassosi alla musica di chitarre e mandolini, dopo una giornata di « tuocch' é morra tra zuppa di baccalà, sarache e sav'cicchi' arrusture alla braccia, nu truppelo di pane, na cirasedda e la fiasca d' lu vine cu la cannetta ».
Rocchino aveva superato alcune consuetudini, aveva saputo fare della sua sala da barba non il luogo del pettegolezzo e delle volgarità ma il luogo scelto per serietà e civiltà ma non aveva saputo allontanarsi dal lunedì dei barbieri. E non credo potesse essere facile allontanarsi tale era forte il fascino di quella giornata di riposo e di festa ma Rocchino non avrebbe potuto anche perché la sua compagnia era richiesta e indispensabile: sapeva cantare, recitare, suonare più di uno strumento e con tanta bravura e perizia, soprattutto, il flauto. Era un « prezioso » e un « virtuoso » e se avesse avuto la possibilità di andare fuori a studiare non sarebbe rimasto il « menestrello di Potenza » ma sarebbe, certamente, entrato nella cerchia dei migliori attori e artisti d'Italia.
Con la sua scomparsa scomparve il più tipico rappresentante di quell'arte vernacola, diretta figlia della commedia di pura tradizione, fotografica dipintura di ambiente, espressione di un mondo fatto di semplicità, di ingenui amori, di modeste aspirazioni, di lealtà e di onestà, di cui fu « una bandiera » e di cui sentì sempre nostalgia profonda ed accorata.
La fortuna non l'aveva baciato in fronte e la vita gli fu piuttosto amara e assai breve, eppure, oltretutto, fu uomo di gran cuore.

Un angolo di via Pretoria all'altezza di piazza del Sedile con neve

Ebbe dalla natura il dono di poter donare, trovò la grazia di saper donare e la forza di dimenticare. Ebbe sacro l'amico come il dovere, contenuto nel cosciente rispetto della propria collocazione e di quella degli altri, estimatore degli uomini di cultura e dell'arte, rispettoso del prossimo e, in particolare, dei suoi clienti ma mai servile. Fu animatore di concertini, recital, commedie .e fu lui stesso protagonista e attore. Gli fu congeniale la musica leggera e la commedia dialettale ma seppe andare anche più in alto sia nelle esecuzioni musicali come nella recitazione. Ebbe seguito di pubblico e fece pubblico ogni volta che comparve con uno strumento in mano da solo o in orchestra, ogni volta che comparve su un palcoscenico sia per il semplice sketch o per il monologo sia come protagonista di una commedia. Ebbe seguito anche di giovani e ragazzi, di suoi coetanei, che si affiancarono a lui per collaborare, per imparare da lui, per imitarlo. Tonino Larocca, Gerardo Crisci, Gigino Labella, Peppuccio Di Bello, Dino Bavusi, per fare dei nomi e non a caso, trassero da lui l'ispirazione e l'amore per il teatro, il coraggio di presentarsi in pubblico, la volontà per la preparazione, la forza per i sacrifici da sopportare, il piacere dell'applauso. « La chiazza senza alberi e sedili
ma ancora bella nella sua semplicità conta li fatti antichi e pur civili ca certe nunn' s' ponne 'cchiù scurdà... ».
È un riferimento poetico alla Piazza di cui ho scritto, alle sue cose, ai suoi personaggi, che sono cose e personaggi a memoria mia, ma negli stessi versi vi è un pizzico di nostalgia per la Piazza con alberi e sedili, di cui non ho memoria perché non ero ancora nato. Ma con negli occhi e nel cuore la visione della chiazza « a memoria mia », superba nella sua semplicità, maestosa nella sua austerità, mi riporto con l'immaginazione a quell'altra, quella più lontana nel tempo, che, appunto perché aveva alberi e sedili, era, certamente, più suggestiva, dolce, di un fascino idilliaco.
Forse, abbiamo avuto la sfortuna di incontrare sul nostro percorso barbari e giuda, che vuoi per istinto malvagio e vuoi per i trenta denari, hanno dilapidato la città nelle sue strutture, che costituivano l'ambiente, che erano la storia, la tradizione di un certo tipo di umanità, che su quelle strutture aveva costruito la sua vita, con luci ed ombre, certo, ma perché si eternasse e non perché si affossasse.
Era una umanità degna nell'essenza, nella realtà, nelle realizzazioni. Era una umanità che avrebbe meritato e meriterebbe ben altra considerazione e più attenzioni, quantomeno nella toponomastica di questa cosiddetta « moderna città », che si deprezza e non si esalta, dedicando piazze e vie a gente e gentaglia, che o non hanno mai conosciuto Potenza o, se l'hanno conosciuta, non l'hanno mai amata. Se, per caso, l'hanno amata, ebbene, l'hanno amata soltanto per interesse, come terra di conquista e lo scempio urbanistico ne è la prova come il progressivo decadimento sociale ed umano.
Sono fenomeni annessi e connessi, frutto di incultura, di pressapochismo, talvolta, di protagonismo ma che, a mio giudizio, hanno avuto un solo movente: la mancanza di amore, amore per le pietre e l'ambiente, amore per i potentini.
Guardando qualche panorama di Potenza intorno agli anni trenta, qualche scorcio di panorama, che ritragga, per esempio, il rione Tavolaro, vi è qualche cosa anche fra le mie immagini, viene da scrivere, mestamente come all'inizio del racconto di una malattia o di una disgrazia ad esito mortale, « e cominciò così... ».
Infatti cominciò proprio così e da quel rione.
Alle distruzioni seguirono i funghi in cemento armato, in una crescita disordinata, orribile, disumana, senza programmazione lungimirante e in sintonia con la crescita sociale, economica, culturale della citt4, una crescita di chiaro stampo speculativo. Tant'è che il tempo ha dimostrato il suo fallimento sia sul piano funzionale che della stabilità e validità. Fu un fallimento l'edilizia popolare perché gli stabili furono inadeguati alla mentalità, usi e costumanze dei nuovi inquilini ma fu un fallimento anche l'edilizia cosiddetta di lusso con il risultato di costrizione ed affogamento del centro senza servizi e strade compatibili e sufficienti, della occupazione di tutti gli spazi liberi dei costoni e pendici della collina a scapito del verde e delle più elementari regole e norme igieniche, in favore soltanto di un inurbamento selvaggio da grande malessere generale ed anche degli stessi amministratori, messi di fronte a problemi grossi e non facilmente risolvibili. Al motto di « tutti in città » o la città « a tutti i costi e costi quel che costi » seguì il pauroso abbandono delle campagne dei dintorni di Potenza e dei paesi limitrofi e la vecchia Potenza, che poteva diventare il centro turistico e culturale e punto di riferimento e direzionale della nuova città, divenne la città del caos e della babilonia. Ci fu, persino, chi all'acme di questa febbre del nuovo sulle macerie del vecchio ipotizzò la città dei grattacieli raccolta nel solo spazio della collina.

I primi « sconci » edilizi visti da Piazza XVIII Agosto

Non divenne realtà la città dei grattacieli ma si costruì quella dei « mezzi grattacieli », con piani sotto il livello stradale e piani sopra il livello stradale, con « cime ineguali » e, sì, perché chi più ebbe fiato più in alto andò a respirare. Qualcuno recita, oggi, non so con quanta onestà, l'atto di contrizione, non serve perché quello che è stato fatto si commenta e si condanna da sé, sarebbe più opportuno recitare un atto di buoni proponimenti per il futuro, perché, una buona"volta, questa città, che non ha mai avuto un futuro, abbia un futuro. Me lo auguro con tutto il cuore e con me se lo augurano tanti potentini, o patiti di questa città, ma che sia un futuro, però, che tenga conto dell'estetica, certamente, basta con gli scempi, ma che sia costruito, soprattutto, secondo scienza, metodo scientifico e coscienza.
E quando si parla di scienza cerchiamo di includervi anche la geologia. Non è possibile dimenticare che Potenza ha avuto la sua parte, più o meno pesante e disastrosa, di tutti i terremoti, e sono stati tanti, che hanno avuto l'epicentro in Basilicata e fuori, nelle regioni limitrofe.
I più violenti, o fra i più violenti e con più effetti distruttivi, penso, siano stati quello del 1857 e quello recente del 1980, ma anche quello del 1930 non scherzò.
Per ragioni anagrafiche non ho ricordi diretti del terremoto del 1857 e so della violenza, delle repliche, dei disastri al patrimonio cittadino ed agricolo, dei morti e delle sofferenze dei sopravvissuti tanto, quanto ho potuto apprendere dalle notizie storiche tramandate. Non ho immagini e, in tutta franchezza, non so se esistano e dove possano essere conservate.
Anche se, all'epoca, ero appena un ragazzo, ho memoria di un altro terremoto, quello del 23 luglio del 1930, che fu di breve durata ma di alta intensità e di estrema violenza. Come quello del 16 dicembre del 1857, ci colse di sorpresa e nel sonno, erano all'incirca le 2 e 30 della notte e questo, naturalmente, rese più tragiche le scene di panico e di terrore anche perché eravamo al buio per l'interruzione dell'energia elettrica. Fummo subito tutti in mezzo alle strade, svestiti, vestiti a metà, con il resto degli indumenti nelle mani, qualcuno anche con la « mappatella » del necessario, in un gran vociare nervoso, tra pianti, lagrime, strilli di bambini terrorizzati.
Mia madre, già vedova, coraggiosa e calma come sempre, ogni tanto ci contava, eravamo otto figli, e ci confortava, come, del resto, facevano anche gli altri genitori. Le famiglie numerose, allora, erano quasi la regola. Eravamo al buio della notte ma anche all'oscuro di notizie e quello che si diceva era soltanto frutto di emozione o di fantasia. Abitavo, allora al Rione S. Maria, che non era quello di oggi, poche e vecchie case all'Angilla Vecchia con alcune famiglie, per lo più contadine, e, all'incirca, un centinaio di famiglie alloggiate nei padiglioni, a due piani, che erano stati costruiti per il manicomio ma che non furono mai adibiti a tale uso. Noi fummo, però, sempre definiti gli abitanti del manicomio e noi stessi per far intendere subito e meglio dove fosse la nostra abitazione non avevamo difficoltà a dire che abitavamo al manicomio e senza toccare amuleti o fare scongiuri o recitare le « 'razioni » in uso contro mali, maluocchi e malicristiani.
Nel Rione non avemmo morti, non vi furono feriti e nemmeno crolli. Cadde qualche pezzo di cornicione e si verificarono crepe di scarsa rilevanza ad alcune pareti ma di vecchie case.
I danni maggiori furono, anche allora e come in tutti i terremoti, al centro della città e, in particolare, a Portasalza, Santa Lucia, nella zona intorno alla Cattedrale e Largo Liceo, al vico Addone e a S. Luca. Con il fare del giorno arrivarono notizie più precise sia sui danni alla città, si seppe l'epicentro e il nome dei paesi dove maggiormente il terremoto aveva imperversato.
La notizia di qualche morto e la visione delle macerie, direi quasi, mi atterrirono, la gente con i segni visibili della paura e della sofferenza fisica costituiva, per me, un trauma continuo ma quello che era insopportabile, il giorno 23 ed anche nei giorni seguenti, era il grande caldo, pesantemente afoso, che aumentava il nostro disagio igienico con continui sudori fastidiosi ed appiccicaticci, che aumentava la polvere e il tanfo che proveniva dalle macerie e da qualche fogna scoppiata.
Fu una estate tanto torrida quanto glaciale è stato l'inverno dopo il terremoto del 1980, a conferma che agli sconvolgimenti tellurici seguono sconvolgimenti meteorologici.
Non mancò il pane, l'acqua e non mancarono generi alimentari, ma non beneficiammo molto degli aiuti nazionali perché fummo quasi considerati dei beneficiati del terremoto, forse non a torto, e il maggiore sforzo in uomini e mezzi fu concentrato, a giusta ragione, nella zona del Vulture. Ma anche noi non eravamo abituati agli agi e alle leccornie, alla « fettina » o alle cioccolate e un pezzo di pane e formaggio ci faceva felici e contenti. La gente rimase fuori di casa un paio di notti, perché, come accade sempre, i « saputi » predicavano repliche a breve scadenza e guai peggiori ma, in verità, ben presto la vita si normalizzò e, senza aspettare il famoso « panariello » che scendesse dal Cielo, tutti si rimboccarono le maniche, si sbarazzarono delle macerie di casa e fuori di casa e ricominciarono a rivivere, ringraziando Iddio che li aveva salvati dal terribile flagello.
Dunque, tutta la zona del Vulture e, in particolare, Melfi, Rionero, Lacedonia, Rocchetta S. Antonio, pagarono un pesante contributo con distruzione di case, morti e feriti. Le grida strazianti, i lamenti di tanti di quei feriti li sentimmo anche noi e proprio noi del Rione Santa Maria perché, allora, nel padiglione di fronte all'Istituto « Principe di Piemonte » vi era il Policlinico « Remigia Gianturco » del Prof. Giulio Gianturco, chirurgo valente ed uomo generoso, che mise subito a disposizione dei feriti la clinica, la sua opera e quella dei suoi collaboratori medici e paramedici. Era uno dei figli del grande giurista Emanuele e del padre fu ben degno per preparazione scientifica tecnica e culturale, per umanità e grandezza d'animo. Fu chirurgo completo e d'avanguardia e, proprio nell'occasione del terremoto, dimostrò le sue spiccate qualità e capacità per la quantità e qualità degli interventi chirurgici praticati, di cui molti di neurochirurgia, per l'elevato numero di feriti cranici e spinali. Ricordo che i feriti furono veramente molti tanto che furono sistemati letti di degenza anche nell'Istituto « Principe di Piemonte ». Questi i fatti veri come è vero che i risultati furono veramente brillanti e tanti tornarono ai loro paesi guariti ma è anche vero che intorno ai fatti, come sempre, molto lavorò anche la fantasia del popolino. Intorno alla clinica stazionavano, quasi, a permanenza, specie dal lato della camera operatoria, crocchi di persone e in mezzo a questi crocchi vi era chi raccontava di aver visto feriti maciullati ricostruiti pezzo per pezzo, di aver visto veri e propri miracoli. t evidente che miracoli non furono compiuti ma è, altresì, fuori dubbio che la presenza del Policlinico « Remigia Gianturco », nella zona terremotata, con quella eccellente equipe sanitaria, carica di umanità e spirito di sacrificio, con la sua attrezzatura avanzata e che precorreva i tempi, dette un contributo più che notevole alla vita e alla salute di tante persone, sfortunate vittime della violenza della natura, anche perché fu possibile praticare i soccorsi con prontezza e celerità.

Palco per le Autorità preparato in occasione della posa della prima pietra del Manicomio a Santa Maria

Purtroppo, abbiamo cercato e cerchiamo con argomentazioni varie, talvolta strumentali, tal'altra capziose, di dare gloria persino ai briganti che, comunque, seminarono terrore, sangue e morte ma siamo restii anche a soffermarci nel semplice ricordo dei benefattori dell'umanità e quelli del Policlinico « Remigia Gianturco » furono dei benefattori e non solo in occasione del terremoto. Ma chi se ne ricorda? Eppure non sono tutti morti i beneficiati ma avviene anche che per ricordare i galantuomini ci facciamo guidare dal « distinguo », molto discutibile perché non sereno e tantomeno obiettivo, siamo soliti ragionare così « sì, è vero ... ma ... » e, tante volte, per giustificare la nostra posizione di rifiuto, cosa più detestabile, a quel « ma » facciamo seguire giudizi sulla loro ideologia politica, dimenticando per pochezza d'animo, livori personali, invidia che i « galantuomini » furono, sono e saranno « galantuomini », sempre, al di là e al di sopra di ogni ideologia politica e di ogni nostro giudizio, con o senza il nostro ricordo.
Miserie umane e tristezze della vita di cui, ogni tanto, è anche bene ricordarsi per essere più buoni, è bene ricordarle agli altri, a quelli con i para-occhi i presuntuosi poveri di spirito, perché riflettano sulla loro condizione di povertà di sentimenti, di cultura, di educazione civile.