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PARTE II

Ma ... ritorniamo a la « chiazza » per consolarci ... a la chiazza con i negozi « cu li' pporta a 'ddegna e senza la vetrara » ma tanto caratteristici e tanto affascinanti. Ritorniamo a la chiazza senza la Banca d'Italia e senza la Casa del Fascio, senza il corpo aggiunto sulla sinistra del Palazzo del Comune e che servì per ospitare l'Istituto Magistrale, prima, e negli ultimi anni alcuni uffici comunali. Ritorniamo per ricordare il palazzo fatto scomparire per far posto all'odierno « cascione », sede della S.I.P., dove vi era l'Albergo - Ristorante ROMA e che offriva alla « chiazza » una decentissima facciata con un bel portone ad arco. E il ricordo dell'Albergo non può essere disgiunto dal ricordo del suo gestore, don Salvatore, uomo distinto e cordiale, e di Lucia, la moglie, cuoca sopraffina sia per inventiva che per preparazione di piatti gustosi e appetitosi. Il suo segreto era la genuinità degli ingredienti e delle sostanze, di cui curava direttamente l'acquisto e che manipolava con particolare acume e saggezza culinaria. Tutto era fatto bene e tutto era a giusto punto di cottura e di condimento e quello che impressionava era la varietà dei piatti, non solo nel corso della settimana, ma nella stessa giornata.

Era speciale la « nostra pasta fatta in casa », strascinare, fusilli, ricchietelle, condita con sugo al pomodoro e formaggio pecorino o ricotta « tosta » salata, ma erano, altresì, speciali gli spaghetti alla napoletana, i risotti, come era speciale l'amatriciana, la bolognese, ma, forse, insuperabili erano i « cavatielli e rape » e i « bucatini agli' e oglie ». Le carni venivano servite in tutti i modi, una particolare attenzione era riservata al pollo ed al capretto. Molti i contorni e antipasti, tanti i sottaceti. Insomma, c'era di che saziarsi e per tutti i gusti e capacità gastriche.
La loro gentilezza e la buona tavola fecero dell'Albergo una meta d'obbligo per paesani e forastieri.
Non erano, certo, tempi scialacquoni e la gente non frequentava molto le trattorie ma i mangioni e i buongustai non mancavano, direi che non sono mai mancati. Grandi abbuffate, magari, si facevano nei retrobottega, a ora tardi e perché nessuno lo sapesse ma era come farle in piazza perché il giorno dopo tutti sapevano quanti metri di « sav'cicchie » avevano consumato, quanti chili di strascinare, quanti polli di primo canto o agnellini o capretti avevano mangiato, quanti fiaschi di vino avevano bevuto.
E queste erano più o meno le misure perché « lu sav'cicchie » si doveva mangiare a « toppe » e non a fettine « ca asserv'ne p' s' fà la comunione » erano soliti dire, il pane doveva essere tagliato a fette lunghe e spesse da « la scanare », « lu vine cu la cantra », il prosciutto a pezzi grossi « ca t' n'avive vrè 'bbene a strazzà cu li denti », almeno « nu peddastre » a testa e, naturalmente, non doveva mancare « lu maccarone d"ncasa », che potevano essere strascinare, fusilli, cavatielli o ricchietelle, che venivano scolati e conditi, con abbondante sugo e formaggio pecorino, in uno o più grossi piatti rustici, da cui tutti si servivano, a seconda delle proprie capacità gastrorecettive. Chi preparava e serviva queste abbuffate dei retrobottega, almeno per quanto riguardava le botteghe da piazza Prefettura a Portasalza, era il buon Peppino Ferrara, che gestiva, aiutato da due o tre sorelle, una trattoria, dai piatti e leccornie genuine e squisitamente paesane, al primo piano della casa dopo la Quintana Grande a Portasalza. Un uomo che non faceva, certo, molta reclame alla sua cucina abbondante e squisita allampanato, come era, con gli immancabili piedi piatti e deviati all'esterno, ma estremamente corretto, educato e fine. Offriva la buona cucina, l'ottimo servizio ma tanta cordialità e simpatia.
« Haia savè stà affront' cu la 'ggenta » era il suo motto ma era il motto di tutti coloro che avevano un esercizio pubblico e, in verità, tanti lo facevano senza sforzo perché la cortesia era nata con loro. Certo, che ricordo qualche figura di grosso mangione così come ricordo che, per le loro intemperanze, non superarono la soglia dei sessant'anni, concedendo ai maligni la possibilità di concludere con la solita frase « Certo, ca s' n'è giù sazio! ». Alcune cose, però, non si credono se non si toccano con mano. Una sera ero per la via Pretoria, forse, più annoiato che stanco, quando mi si avvicinò un amico che, con la solita paccata sulla spalla, mi disse: « Ma 'cch' fai, qui, giammenenne a la Senna ». E la Senna era una specie di trattoria contadina alla riva del Basento nei pressi di « Battalemme ». Con me la compagnia si completò di diciannove persone e il « tutti a tavola » fu alle ore 21 lo « sciogliete le righe » fu dato verso le due del mattino. Si cominciò con il prosciutto e la salsiccia, non affettati, ma un prosciutto intero e capi di salsiccia, che giravano da un capo all'altro della tavolata e da cui ognuno tagliava la « toppa » a dimensione del proprio appetito, per continuare con le « spase » di strascinare, pieni di sugo e formaggio, a cui più di qualcuno aggiungeva qualche cucchiaino di caio « santo » (olio di oliva con pezzettini di peperoncino) o peperoncino o, meglio, « diavulicchie di Salerno », per
passare al pollo al forno, all'agnello alla brace, ai formaggi, più graditi il pecorino e il provolone piccante, alla frutta secca e fresca e da ultimo, accolta veramente nel più devoto silenzio e compostezza, « la divozione », una grossa zuppiera di bucatini « agli' e oglie », divorati con gli occhi prima che con la bocca dai presenti Al tutto fu annaffiato da un fiume di vino, « razzente » sì, ma, per fortuna, poco alcoolico, qualcosa come ventitre-venticinque fiaschi, per cui, dopo la mezzanotte cominciò la sfilata « a cagna d'aggua a la ulive » a urinare, cioè, a beneficio dell'orto del paziente e buon oste.
Fu un'esperienza, indubbiamente, positiva per aver conosciuto un certo tipo di umanità crapulona ma generosa, con particolare senso e rispetto dell'amicizia. Perché non dotato di capacità gastro-riceventi e gastro-resistenti stetti male per oltre una settimana con nausea, qualche conato di vomito e disturbi intestinali, e, non accettai altri inviti ma i vari Peppinuzzo, Gerardo, Rocco, Ricuccio, Toruccio ecc. si incontrarono sempre fino a quando la cirrosi del fegato o l'infarto di cuore o il tumore dello stomaco non li sistemò per sempre ed anzitempo ma erano tutti dell'avviso che « è meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora ».

« Vieni a vrè 'npò a zì Totore ca sta arravugliare », mi disse la moglie di zì Totore, un giorno, e zì Totore era a letto pavonazzo in grave difficoltà respiratoria, con un addome gonfio come un otre per un'ascite cirrotica. Mi rivolse uno sguardo piuttosto feroce quando mi vide e, quando, sollevando le coperte, scoprii che teneva sotto il letto, a portata di mano, un bel fiasco di vino, prima che io facessi le mie giuste osservazioni sul danno che si arrecava, sbottò e mi investì: « ... e mò t' n'haia gì proprie a fa 'nculo aggia murì ma aggia muri cu lu vine ca m'adda scorre da 'mmocca ».
Sono uomini scomparsi per legge biologica ma anche per una precisa scelta « di morire sazi » ma le cose che abbiamo fatto scomparire suonano per noi condanna perché non abbiamo distrutto solo la casa dei nostri affetti, l'ambiente dove siamo cresciuti, il ricordo dei nostri antenati ma abbiamo sepolto la nostra storia. Girando, subito a destra, il palazzo dell'Albergo « Roma » per imboccare la via Pretoria verso S. Luca, si incontrava la Carto-Libreria di don Michele Triani. Era un uomo piccolino di statura e molto magro ma un autentico signore di dentro e di fuori, che vide passare, incoraggiò e curò intere generazioni di studenti. Più che contare soldi, in verità non ce n'erano molti da contare, contava le parole che diceva a ognuno di noi ed erano parole sagge e sante. Consegnandoci un libro non mancava di dire: « Gni haia vulè bene e 'mparatelle bone ca i libri hanno fatto gli uomini ».
Scrive Michelino Pergola in « Potenza scomparsa » : « Un possente muraglione, che sorreggeva la Piazza del Seggio e spesso fungeva da trampolino di morte, dominava la valle e gli accessi meridionali della città. Culminava in un'elegante garitta nella quale una celeste sentinella s'era pietrificata un po' pel freddo un po' per le imprecazioni dei cocchieri colà stazionanti. Il muraglione e il tempietto di S. Gerardo, che, la furia degli uomini e dei terremoti, ancora hanno lasciato al loro posto, sorsero dopo la scomparsa dell'orto di Martorano e l'ampliamento della vecchia " chiazza ". Costituirono il punto di inizio del corso Vittorio Emanuele, oggi corso XVIII Agosto, che fu, quasi certamente, la prima vera arteria di collegamento della città con la periferia ».
È chiaro che non si può uscire da piazza Sedile senza ricordarsi del « Muraglione », che, con la sua stupenda vista panoramica della valle e dei poggi, fu il belvedere dei giorni di festa della primavera e dell'estate. Ho detto dei giorni di festa perché, in quei tempi, non vi erano tanti pensionati, la pensione, il più delle volte, arrivava con la morte, nè tanti impiegati « al passeggio stradale ». Il giorno di festa era la domenica, il giorno di S. Gerardo, di San Rocco, di Santa Lucia, per la quale avevano particolare venerazione i Portasav'zese, qualche ricorrenza civile, come il 4 novembre o il 24 maggio. Era il giorno della Santa Messa, cu lu variniedde nuovo, della camminata a la chiazza e della affacciata al muraglione.

« A lu muraglione prima m' sò affaccià p' vardà queddu verde 'ncantatore tra musi-ha d'azzurro a frischiià 'cch' cummuzione ca m'ha tuccà lu [cuore! ».
Ma il fascino del Muraglione, che commoveva il poeta e i potentini sereni e benpensanti, qualche volta, nei labili di mente, si tramutò in stimolo di morte ed il Muraglione fece da trampolino, proprio come scrive Michelino Pergola.
Purtroppo, ogni tanto si sentiva in giro: « S'è menà da lu muraglione e è scattà 'ncorpe ».
Ed è chiaro che un salto da quell'altezza non poteva dare che quel risultato.
Però, io ricordo un caso che, oserei, definire tragi-comico.
Un giovane della Potenza-bene, fine, simpatico, preso da una di quelle sindromi neuro-ansiose giovanili, che tanto fanno discutere psicologi e sociologici di questa epoca moderna, dove non c'entrava, certamente, nè sesso e nè società capitalistica, dei consumi ed altro, un bel giorno prese la rincorsa, scavalcò il muraglione e si librò nel vuoto, sicuro di concludere la sua insoddisfatta esistenza sul selciato. Il buon Tanino, però, aveva sbagliato il tempo e l'ora perché finì fra le sporte di frutta e verdura di un camion, che in quel preciso momento si trovava a passare di sotto.
Se la cavò con qualche fratturella ma, penso, che fu costretto a pagare anche i danni all'altro. Insomma, al danno di non essere morto anche le beffe.
Scrive ancora Michelino Pergola, nel già citato libro, a proposito del San Gerardo nel sacello: « ... al suo cospetto nascevano le bestemmie più ricercate ». Certo, lungo la strada davanti al sacello come davanti al muraglione, stazionavano carrozzelle e cocchieri e ... via ... qualche bestemmia, nostrana o ricercata che sia, poteva pure rintronare nell'aria ma erano bestemmie buone, di anime semplici e, talvolta, veramente in pena, specie quando, dopo una giornata al sole o al freddo, erano costretti a tirare le redini senza un soldo nella scarsella, nemmeno per un pezzo di pane per il cocchiere e famiglia e un po' di biada per il cavallo.

La carrozza era per i signori e signori non ve n'erano tanti, la massa usava il cavallo di S. Francesco e la massa eravamo tutti.
Facevamo muscoli e salute e non inquinavamo l'aria.
« Ma i tempi sono cambiati ... » lo diciamo tutti, non so quanto per convinzione e quanto solo per consolarci. La risposta, forse, la potremmo trovare guardando una delle tante fotografie di questo libro o, magari, solo quella che riproduce l'ingresso principale del Palazzo degli Uffici con i cancelli e l'inferriata, stupendi per disegno e manifattura.
Non è facile allontanarsi dalla « chiazza » senza un pizzico di commozione. D'altronde, in quella piazza ci siamo tutti, morti e vivi, vecchi e meno vecchi e più giovani. Ognuno di noi è là con il suo passato e il suo presente perché le cose, gli uomini, gli avvenimenti di ieri e di oggi sono racchiusi in quello spazio.
Se qualche cosa è cambiata, è soltanto esteriorità discutibile, ma la sostanza del. la vita della città, storia, tradizione, usi e costumi, in una continuità naturale tra passato e presente, non sottratta, certo, alla logica della evoluzione, è la stessa ed è a Piazza del Sedile.
Se manca qualche elemento di vecchio folclore, l'asino, il mulo, la carrozza o il traino, le docili caprette, che si fermavano davanti a ogni porta per offrire il misurino del loro prodotto di giornata, alcuni tipi di uomini, mancano perché non si sono sottratti al correre del tempo ma la continuità non si è interrotta perché altre cose ed altri uomini hanno preso il loro posto.
Non più quei giovani, forse, troppo seri, per la loro età, nella forma e nei comportamenti, ma altri giovani, più vivaci nei comportamenti, più spinti nella forma e nelle fogge, ma sono sempre giovani che vivono nella piazza e le danno vita.
Vi sono autobus, sempre più nuovi, che trasportano gente, è gente diversa, con interessi diversi, ma è vita per la piazza.
Vi fu il Sindaco, poi il Podestà, è ritornato il Sindaco, è la storia amministrativa della città, che segue il suo corso, anche se in forme diverse, ma è la storia e la vita della piazza.

Il palazzo municipale è cresciuto in altezza e in larghezza, scomparve un vecchio lato per far posto alla Casa del Fascio, che non è più Casa del Fascio, non serve più ai gerarchi, perché non vi è più il fascismo con i suoi uomini e le sue manifestazioni, è stata adibita ad altri uffici, sotto il controllo di autorità diverse.
Sono ricordi e sono attualità ma è sempre vita e continuità di vita della piazza. Ed ecco perché dalla piazza ci si allontana con una certa emozione. Vide uomini politici, manifestazioni politiche, certamente, a darne un'idea basta la mia documentazione fotografica, ma è necessario ed è anche giusto ricordare uomini e manifestazioni perché, nel bene o nel male, è storia e la storia l'hanno fatta gli uomini, magari sbagliando e, non tutti sbagliarono in mala fede, né tutti furono cattivi o tutto quello che fu fatto fu fatto male.
Ogni epoca ha avuto i cirenei e i despoti, gli oppressi e gli oppressori, i fortunati e gli sfortunati, i privilegiati e le vittime dell'ingiustizia, dei soprusi, chi, senza arte e senza pregi, ha saputo vendere fumo,e chi, pur avendo meriti, ha tirato « a strazzà » la vita, chi ha creduto per fede ed ha mantenuto fede alle sue scelte, chi ha saputo fingere di credere ed ha saputo, con pari abilità, cambiare il suo credo, i camaleonti. Questi furono, sono e saranno gli esseri più abietti e, purtroppo, furono, sono e saranno fra i più capaci a fregare il prossimo e a sistemare le proprie cose.
Ci furono, ci sono, ci saranno e la loro esistenza non è, forse, legata alla ignavia, alla viltà dei buoni e degli onesti, alla credulità ingenua della gente, al napoletaneggiante « chi m'ho fa fà », all'egoistico « basta che va bene la tela mia, degli altri non me ne frega niente ».
Se non è facile farsi capire dalla gente, è ancora più difficile capire la gente: un misto di bontà e cattiveria, di egoismo e altruismo, di pazienza e impazienza, di coscienza e incoscienza, di comprensione e incomprensione, di ardimento e vigliaccheria, di onestà e disonestà. La gente è tutto, capace di amare e di odiare, di esaltarsi e di deprimersi, di osannare e di gettare nella polvere, la gente è, talvolta, sincera, più volte ipocrita. Ma va presa così come è, a mio giudizio e secondo la mia esperienza, tanto non è troppo malleabile. Un mio vecchio maestro, di quelli che sapevano essere contemporaneamente maestri di scienza, arte e di vita, una mattina, nella Sala « Moscati » dell'Ospedale Incurabili di Napoli, disse: « Prima di presentarvi il malato vi debbo dire di stare molto attenti nella vostra vita perché avrete da fare con la più brutta bestia: la gente ». E quando si parla di « gente » non vi è differenza fra il colto e l'incolto, fra l'istruito e l'analfabeta, il signore e il contadino, il cittadino e il campagnuolo, anzi, più si sale nella scala sociale e più peggiora la qualità. La gente siamo tutti e mi sembra, quanto meno, di cattivo gusto, ingeneroso in certi momenti fare i « distinguo ». Nelle adunate « oceaniche » di Piazza Sedile, di cui presento le immagini e sono immagini eloquenti, che si commentano da sé, c'era la gente, cioè, tutti, uomini, donne, giovani, meno giovani, vecchi, tutti inneggianti, felici e, non credo, fossero tutti autotrasportati o trascinati per la capezza, non tutti erano presenti solo per curiosità e, se non tutti erano presenti per fede, almeno, fra tanti, molti erano presenti per interessi personali, magari, per fare carriera più velocemente. Comunque, c'erano tutti, anche se col mugugno fra i denti o con il pensiero alla critica del giorno dopo, critica, naturalmente, cosiddetta « 'nda lu cappiedd' », che tradotta significa « critica sussurrata all'orecchio » non, certo, spifferata in piazza e ad alta voce. Ma questo è la gente ed è gente pure quella che si lascia trascinare, come le pecore, senza piaceri immediati ma anche senza piaceri o vantaggi futuri.
So di sicuro che fra quella gente « oceanica » non c'era mia madre, che avversava le manifestazioni e le confusioni, ma che, soprattutto aveva ben altre preoccupazioni e ben altre cose da fare, ma non c'era, finché è vissuto, nemmeno mio padre. Artigiano, socialista e repubblicano, fu fedele ai suoi principi morali e politici, che difese pubblicamente ed alla luce del sole, non aveva paura, d'altronde era un onesto e viveva di suo lavoro. Non ebbe aiuti dai fascisti, ma, in verità, nemmeno fastidi, comunque, nemmeno gli dettero una mano gli antifascisti, quelli che comparvero e, in tanti, numerosi e presuntuosi dopo le truppe alleate ,quando si verificò quel vero miracolo all'italiana: i fascisti diventarono tutti antifascisti!
Il deputato fascista avvocato Bartolo Gianturco, ogni volta che mi incontrava, non mancava di ripetermi, non ho mai capito con quanta ammirazione o con quanta rabbia, forse, più con rabbia perché mio padre era consigliere comunale nel dopo-guerra ed aveva anche un certo seguito: « Sai come mi rispose tuo padre quando io arrivai ad Avigliano per fondare il Fascio? Te ne puoi scì, Rocco è uomo cu i mustazzi, né Rocco e né tutti gli amici di Rocco ».
Ma « mustazzi » dopo il 1945 ce ne furono pochi e quei pochi ebbero il torto di ritirarsi nel privato e di lasciare il campo e la prima fila a quelli che, per venti anni, avevano sfilato, stivaloni, sahariana e « cacciafumo in testa » pure in prima fila e sempre in prima fila. Ci furono « tante barbe » ma barbe di paglia per « guappi di cartone », pronti a calarsi le brache al nuovo padrone o, meglio, al padrone di moda. Quanti? Tanti e fra i tanti ci furono i più spudorati, quelli che fecero « faccia e cuzzett' » tutto una cosa.
Non molto tempo fa, avevano appena attaccato un manifesto di lutto all'angolo di Piazza del Sedile, e, a mio giudizio, fu giusto che l'episodio avvenisse in Piazza del Sedile perché proprio la Piazza aveva assistito ai fasti ed alle nefandezze dell'uomo, quando un signore dopo aver letto nome e cognome, con espressione schifata, fece un passo in dietro e mormorando « troppo tardi » sputò contro con quanta più rabbia avesse in corpo. Non che avesse fatto male alla gente direttamente, non ne aveva l'autorità e la possibilità, ma indirettamente sì. Ruffiano di tutti i Federali e gerarchi fascisti, prima, di gerarchi e faccendieri democristiani, dopo, aveva fatto più male lui alla gente di Potenza e Provincia che tutti i terremoti. Non era questo oggetto prezioso né fisicamente e né intellettualmente o culturalmente, aveva frequentato poco più della scuola elementare, tanto è vero che, come impiegato, era poco al di sopra dell'uscire, ma aveva l'abilità dei « dritti », secondo una dizione moderna, di quelli, cioè, che sanno fare i fatti propri. Quale « Marcia su Roma » aveva fatto? Quale fascista antemarcia era? Eppure portava la sahariana con i fregi degli « antemarcia », il nastrino rosso a giro intorno alle maniche, che, poi si risolveva in un soprassoldo in più sullo stipendio.
Ma, in fondo, questo era niente nei confronti delle sistemazioni, dovute e non dovute, di parenti e di amici e delle lagrime della povera gente, colpita dalla sua cattiveria. Ora è chiaro che tutti possiamo sbagliare, che è necessario evolversi ed anche cambiare, specialmente in politica, anche perché passa il tempo e con il tempo si cambiano gli uomini, le idee, gli usi, i costumi ma la sfacciataggine, il protagonismo a tutti i costi e con qualsiasi padrone dà fastidio e l'affarismo non trova giustificazioni, fa semplicemente schifo.
E fa schifo perché i protagonisti, gli affaristi al momento del « dare senza ricevere » non ci sono più, al momento di rendere ragione delle loro idee e delle loro azioni se la sono squagliata.

Erano giovani e belle... ma in divisa... Erano in divisa anche i grandi, uomini e donne, ed erano veramente in tanti... in Piazza del Sedile... che sembrava scoppiare nelle "adunate oceaniche"...