PARTE
V
 |
Provo a distrarmi
un poco dalla Piazza, giro l'angolo ed entro in via Cesare Battisti per
rivedere Peppinella e il suo bar. Manca la porta a « 'ddegna »,
sostituita da una comune ed orribile serranda, ma vi sono i gradini, la
vetrinetta con la porta a vetri, non sono esposti più « i cannellini,
gli arancini,le fettucce di liquirizia » ma dentro vi è la solita
Peppinella, con la solita voce, suadente ed amica, con il solito sorriso
ospitale e generoso, ma, innanzitutto, con il solito caffè, preparato
con l'antica macchinetta napoletana, e lo schizzo di anice.
È la Peppinella del bar che si apriva prima che facesse giorno, che
continua ad aprirsi all'alba, del bar che ha visto passare generazioni
intere di contadini, di vetturini, di mulattieri, di lavoratori in
genere, di gente comune e di notabili, che serve ancora gli affezionati
a quel caffè all'antica.
È la Peppinella di una volta, alla stessa maniera, con gli stessi modi,
con la stessa pazienza di sempre, anche se gli anni passati sono ormai
tanti, anche se i guai non l'hanno risparmiata: è da molto tempo senza
il suo compagno Nicola ed ha perduto, pure, il suo unico maschio, il
buon Aurelio, che le faceva da aiuto nel diuturno lavoro.
È un esempio di madre affettuosa, di donna semplice e senza problemi, di
lavoratrice instancabile, per la quale il sacrificio e l'abnegazione
hanno costituito la norma della sua vita.
Ha saputo adempiere ai compiti di moglie e di mamma e nello stesso tempo
ha accudito ed ha soddisfatto i numerosi frequentatori del suo bar
perché in possesso di quell'insieme di virtù, che hanno fatto di lei una
donna eccezionale e, certamente, non ripetibile.
Non mi accorgo di essere arrivato al Largo Liceo e il luogo non può
sfuggire alla mia osservazione ed alla mia meditazione perché racchiude
in sé ricordi miei personali, legati alla mia vita studentesca, e
ricordi di generazioni di giovani, che attraversarono quel Largo più
volte al giorno, per mesi e per anni, sotto il peso dei libri, dei
pensieri, delle preoccupazioni, dei tormenti della crescita fisiologica
e culturale.
In quell'edificio, sulla sinistra, e che si scorge anche nella
fotografia, che presento, era alloggiato il Ginnasio-Liceo, che fu prima
« Luigi La Vista » e, poi, « Q. Orazio Flacco » ed ogni finestra
corrispondeva ad un'aula.
Verso quelle finestre, al mattino, si levavano i nostri sguardi
languidi, forse, chiedenti conforto alla notte trascorsa su grammatica o
sintassi greco o latina, su Dante o su Cicerone o Kant, ma si levavano
anche all'uscita dalla scuola con la pena o la soddisfazione di una
interrogazione andata male o bene. E, magari, anche qualche imprecazione
o qualche proposito di non ritornare « tant' 'cch' gni' viegne 'cchiù a
'fà » ma, puntualmente, l'indomani mattina eravamo tutti al Largo Liceo
e con il naso in aria verso quelle finestre.
Erano otto gli anni, tre di ginnasio inferiore, due di ginnasio
superiore e tre di liceo e ai gradi superiori si accedeva sempre con
esami. Le sessioni erano due, quella estiva e quella autunnale, ma alla
sessione autunnale si poteva riparare soltanto in due materie.
Le sezioni erano otto, una per ogni anno di corso, con classi di una
trentina di alunni. Questo fece parlare, ed ha fatto parlare, di un
liceo classico frequentato e frequentabile soltanto da appartenenti a
classi sociali più privilegiate.
Niente di più inesatto. Se un privilegio vi fu, fu solo di merito.
D'altronde, non era pensabile, né dovrebbe essere pensabile, che
affrontassero studi così impegnativi e severi giovani inidonei per
capacità d'intelletto, per qualità umane, per amore alla scuola.
Dal « Luigi La Vista » o « Q. Orazio Flacco » di Potenza sono usciti
giovani che, per maturità intellettuale e culturale, hanno affrontato
facoltà umanistiche e scientifiche senza alcuna difficoltà
e sono entrati nelle professioni ben preparati e tali da inserirsi nel
mondo del lavoro nel migliore dei modi.
Non fu la scuola dei padroni, come, demagogicamente, si è predicato in
questo periodo di falsi idoli e di bugiarde ideologie, perché il padrone
fu lo studente quando ebbe e dimostrò capacità per imporsi.
È un doveroso omaggio a quella scuola ma, innanzitutto, a quella classe
insegnante, che seppe fare della scuola il tempio dell'educazione e del
sapere e dell'alunno l'uomo, il professionista, il cittadino. E non è
sterile e stupida retorica ma realtà dimostrata dai fatti.
È retorica vuota, sfacciatamente conformista e leccaculista,
l'affermazione che fu la scuola del « credere, obbedire e combattere »
perché credemmo soltanto nello studio, nella preparazione, obbedimmo
alle nostre necessità spirituali e culturali, combattemmo per superare
gli ostacoli, con dignità e senza prostituirci. Nulla abbiamo pietito,
nulla ci è stato donato, siamo arrivati ai traguardi con la convinzione
di esserne degni e di valere per tanto.
Che, poi, fummo costretti anche a combattere le guerre non fu, certo,
colpa nostra perché le guerre non le abbiamo preparate noi, le abbiamo
subite e, pur subendole, le combattemmo con onore perché, comunque, era
impegnato il nome d'Italia.
È questa la verità. Ed è una verità, di cui siamo orgogliosi, mentre ci
disgustano le « affermazioni d'epoca » perché in quelle aule crebbe una
gioventù senza complessi e senza servilismi, nel rispetto degli uomini e
delle idee e nel culto della libertà individuale e collettiva. In quelle
aule crebbero « Pistone », « Bochicchio » che, con la comprensione e
l'ammirazione dei loro amici e compagni, seppero affrontare l'esilio e
il confino politico ma non il giogo e la rinunzia. Crebbero tanti
giovani, senza palesi insofferenze o plateali, inutili dimostrazioni,
facendo in silenzio il proprio dovere e coltivando « dentro » il culto
per la libertà e per l'amore.
Ma le « affermazioni d'epoca » risuonano, soprattutto, offesa ai nostri
maestri, che non si servirono del Fascismo per fare carriera e che non
insegnarono fascismo ma insegnarono, con abnegazione ed assoluta ed
indiscutibile competenza, italiano, latino, greco, storia, filosofia,
scienze e, non erano nozioni, come, per ignoranza e malafede, è stato
affermato da qualche parte, pure in questo periodo, incolto, incoltivato
e di pauroso regresso.
Non insegnò, certo, fascismo Eduardo Pedio, affettuosamente paterno con
tutti noi e che, nella sua grandezza d'animo, non fece discriminazioni
fra i suoi alunni. Eravamo tutti « figli », quelli che erano soliti
indossare la camicia nera e quelli che non la indossavano, quelli che
erano figli di signori o di gerarchi e quelli che provenivano da
famiglie povere e sconosciute. Fece una graduatoria dei suoi alunni ma
soltanto di merito; disistimò, profondamente quelli che, in possesso di
capacità e doti naturali, non le coltivavano.
Fu Uomo, galantuomo e maestro, tanto onesto quanto inflessibile nei suoi
principi e nelle sue idee, giusto nei suoi giudizi e nelle sue
valutazioni, intollerante di ogni sopruso e di ogni imposizione.
Non insegnò fascismo Rosario Magliano, uomo di una cultura varia e dalle
profonde radici, dalla erudizione, a dir poco, spaventosa, dalla memoria
da far invidia allo stesso Pico della Mirandola, sacerdote degno nella
forma e nella sostanza, interprete affascinato e curatore preoccupato
dell'Uomo-Anima e dell'Uomo-Carne.
 |
Fu maestro dalle
raffinate qualità didattiche e, nello stesso tempo, giusto nei giudizi e
giustiziere implacabile delle pecore zoppe.
Eravamo al secondo anno di liceo e l'Ispettore Ministeriale per le
Scienze era nella nostra classe per quelle che, allora, erano ritenute
le normali sorveglianze degli Istituti, degli Insegnanti e dei loro
insegnamenti. Manco a farlo apposta, e come sempre succede, fu
interrogato chi fra noi non brillava per attitudini e capacità ma
nemmeno per volontà. Naturalmente, la risposta alla prima domanda fu una
grossa bestialità.
« Don Rosario », con la freddezza e la calma di sempre, incurante della
presenza dell'Ispettore, con fermezza disse queste testuali parole: «
Giovanni ... , sei arrivato fin qui ma non andrai più avanti! ». E non
ci furono Federali o Fascisti importanti perché il povero Giovanni non
andò più avanti e finì in un impiego statale di gruppo C e così concluse
la sua esistenza terrena. Lo ricordo, dopo, nei nostri incontri, nel mio
studio per fatti professionali, o fuori, sempre timido, riservato,
mortificato, quasi sentisse pesa re tutta su di sé la responsabilità del
suo fallimento negli studi.
Non insegnò fascismo ma filosofia, e che filosofia, la signora Sbrozzi
Paolina, De Rosa, donna dalle giunoniche fattezze (la chiamavamo,
infatti, Giunone) e dalla eccezionale preparazione ed esperienza
didattica. Non insegnò fascismo ma non fece mai cenno al fascismo in
classe, nonostante il marito, l'avvocato Giulio De Rosa, figura
squisitamente signorile, fosse fascista ed avesse ricoperto anche la
carica di Preside della Provincia.
La signora Professoressa era nata a Tempio Pausania ed aveva con sé e
nel suo carattere tutte le note positive del popolo sardo.
Era figlia di un Ispettore scolastico ed aveva ereditato, con l'amore
per l'insegnamento, il rispetto per la scuola.
Insegnava bene e pretendeva meglio.
Un giorno entrò in aula il nostro bidello, affannoso e preoccupato,
perché aveva telefonato il Federale e voleva parlare, urgentemente, con
la signora professoressa. La signora ascoltò e senza scomporsi, direi,
come al solito, era diritta come una statua e insegnava con i guanti e
con il cappello, disse al bidello così: « Dica (fra l'altro parlava con
il " lei " sempre anche se era obbligatorio il " voi ") al signor
Federale che la professoressa Sbrozzi riceve nella sala dei professori e
non in orario di lezione ».
E le mie citazioni non sono soltanto casi « limite » o episodi ma era
tutto così e tutti anteponevano il dovere alle altre cose o
manifestazioni della loro vita perché erano tutti irreprensibili nel
sapere e nel dovere e, soprattutto, nell'onestà.
Come non era, certamente, un caso il professore di latino, Anfuso, non
facilmente dimenticabile per la sua piccola statura e per il parrucchino
che portava per coprire la sua precoce calvizie. Fascista, se non erro,
anche gerarca, ma fuori, nella Casa del Fascio e fra i fascisti, ma in
mezzo agli alunni fu Maestro, certo, con la « M » maiuscola, attento,
curato e severo. Aveva particolare preparazione di letteratura latina e
greca, aveva anche pubblicazioni in merito, e questo donava ai
discepoli, non fascismo o dottrina del fascismo ma sapere.
Come non era un caso il professore di matematica, Maffei, detto «
Bozzettino » per via di una cisti, che aveva sulla bozza frontale di
sinistra. Al figlio del Preside del tempo, Dante, divenuto, poi,
insegnante di filosofia e, per la verità, ottimo insegnante, dette, in
prima liceale, zero al primo bimestre, zero al secondo ed al terzo, zero
con il punto, cioè, meno di zero, alla fine dell'anno.
Sono cose che fanno una certa sensazione in questo mondo deteriorato ed
inquinato, dove si parla di raccomandazione già dalla scuola elementare
e deve essere quella, almeno, di un deputato, ma era proprio così e
quelli che affermano il contrario o non ricordano bene o non ebbero
qualità per andare avanti, o, è anche accaduto, per farsi martire e
crearsi una verginità politica.
Nelle pagine precedenti ho scritto che il Ginnasio-Liceo di Potenza si
chiamò, prima, « Luigi La Vista » e, poi, « Q. Orazio Fiacco » ma prima
ancora fu intitolato a « Salvator Rosa », non l'ignoravo e non l'ho
dimenticato. Ho omesso la citazione perché, per ragioni anagrafiche, non
ho ricordi personali, né scrivo il romanzo fantascientifico, dove posso
dare sfogo alla mia fantasia.
Questa « Potenza nei ricordi e nelle immagini », come era nei propositi,
vuole essere una narrazione, quanto più possibile vera e veritiera, dei
fatti, delle cose, degli avvenimenti, degli uomini, dei personaggi della
Potenza di un tempo passato e, purtroppo, non di un tempo trapassato,
anche se i ricordi trapassati e quelli passati avrebbero reso la mia
fatica, più completa, più suggestiva, più affascinante.
 |
Vicolo del Collegio |
Ma non ho tanti
ricordi personali, né tanti documenti, né tante fotografie. Durante le
pubblicazioni su « Tribuna di Basilicata » ho ricevuto espressioni di
simpatia e consensi, tanti, ma le mie richieste ripetute di
collaborazione non hanno avuto fortuna, gli inviti affettuosi ed
affannosi a scrivere « insieme » i ricordi di Potenza, non hanno avuto
fortuna e questi restano, purtroppo, i miei ricordi e solo i miei
ricordi.
Certo, il Liceo, che, a giusta ragione, fu ritenuto fra i migliori
d'Italia, vanta origini molto remote.
In un estratto dal Giornale delle due Sicilie del 12 ottobre 1850, n.
223, nel titolo si legge: « Gala del giorno 4 ottobre — Atti di
beneficenza ed inaugurazione del Real Collegio di Potenza consegnato ai
RR.PP. della Compagnia di Gesù ».
Nel contesto si legge: « Ebbe luogo ancora l'inaugurazione di quel Real
Collegio consegnato ai RR.PP. della Compagnia di Gesù, alfin di rendere
più manifesti e di gratissima ricordanza i tratti della Sovrana
munificenza largiti con tal concessione a prò di quel Capoluogo e della
Provincia intera ».
Ma c'è di più. Il Real Collegio fu istituito nel 1815 e con sede in
Avigliano. Non so dove fosse alloggiato il Real Collegio a Potenza nel
1850, è certo che fu sistemato nel Palazzo Loffredo dopo il 1860 e,
forse, il 1862 o 1865.
Ma il largo Liceo non conobbe soltanto i giovani e le loro ansie,
conobbe anche le ansie delle nostre mamme, tese a fare i calcoli tra la
fame della famiglia, quasi sempre numerosa, lo scarso contenuto del
portamonete e l'offerta dei banchi e delle bancarelle.
Sembrano veramente lontani i tempi, che ricordo: sei chili di patate per
una lira, un uovo tre soldi! C'erano anche i centesimi ma vi erano dei
generi, come la frutta, che, anche allora, avevano dei prezzi non
accessibili a tutte le tasche.
L'arancia si mangiava soltanto a Natale, il mandarino si trovava nella
calza della Befana ma soltanto chi era stato buono perché i cattivi
trovavano solo cenere e carbone e, in genere, eravamo tutti cattivi per
la Befana perché era vuota la borsa di mamma.
La mattina si partiva per la scuola con la tasca piena di castagne
bollite perché le castagne, nell'autunno, erano a buon mercato e perché
le castagne sapevano far tacere i crampi della fame.
Tirare la corda dalle 8 fino alle 14 e 30 era lungo. Vi era l'intervallo
fra le lezioni, la ricreazione, che durava mezz'ora, ma « era
impensabile, allora, che varcassimo soglia di salumeria per un costoso
spuntino », come scrive Michelino Pergola a pag. 28 del suo libro «
Potenza Scomparsa ».
Il Largo Liceo conobbe anche i fasti delle feste religiose, da quella di
S. Gerardo a quella di San Rocco, del Corpus Domini, vide i falò e le
luminarie, la sfilata dei Turchi.
Fu il cuore palpitante della vita culturale, tradizionale, della piccola
economia. Fu noto al colto ed all'incolto, al professionista come
all'artigiano e a « lu bracciale » che, alle prime ore del giorno,
scaricava i prodotti della terra e del suo sudore, in genere, verdure e
ortaggi ma anche legumi sia freschi che secchi.
La vita del Largo era intensa e movimentata, chiassosa fino alle
tredici, tredici e trenta perché nelle ore pomeridiane e serali, con la
chiusura del mercato e della scuola, Largo Liceo si chiudeva nel
silenzio, si ammantava di austerità quasi ne avesse bisogno per
riflettere sul consuntivo di una giornata vissuta e per programmare il
domani.
Si chiudevano le botteghe ambulanti, che venivano ricoperte di teli
impermeabili tenuti fermi da funi, senza chiavi, chiavistelli, porte
blindate e sistemi di allarme, nessuno rubava, e si chiudevano le
botteghe alloggiate nei locali dei palazzi, che facevano da corona al
Largo. Erano povere e modeste botteghe perché le migliori botteghe
erano, naturalmente, in via Pretoria e « alla chiazza » ma sarebbe
sciocco immaginare negozi lussuosi per stigli, vetrine, specchi e
tabelle, come si vedevano prima del terremoto del 23 novembre del 1980
in via Pretoria e come si comincia a rivedere anche oggi, anche se ogni
bottega o negozio si abbelliva a mano a mano e con il passare del tempo
e con il cambiare della moda.
Allora, ricordo che i negozi più eleganti erano le « spiziarie » ma
tutta la loro eleganza era costituita da qualche vetri-netta, che
mostrava una serie di vasi e vasetti impatinati, che contenevano tutto
ciò che la scienza medica poteva offrire: sale inglese, cremore di
tartaro, citrato, rabarbaro e mannite, qualche sciroppo di malva e
camomilla, alcuni ingredienti per confezionare pozioni, tisane o pomate.
Allora il farmacista creava e manipolava e le confezioni in fiale erano
poche, sconosciute le supposte, poche le compresse. La supposta è stata
una scoperta del consumismo ed anche la felice interprete di un mondo di
inversioni e perversioni sessuali, in cui l'omosessualità e la
pederastia sono diventate di moda e, a mio giudizio, la supposta ha
agito ed agisce come stimolo a provare l'altra via.
I primi tempi della supposta non furono felici e la gente, che riusciva
a capire il mezzo e la via di somministrazione, respingeva con sdegno ed
offesa la novità. Chi non si rendeva conto della spiegazione del medico
o per distrazione o perché non immaginava mai la via della supposta, la
metteva dovunque meno che nell'ano.
Un collega, amico e compagno di lavoro, mi disse, in un tardo
pomeriggio: « Sono costretto a partire di urgenza ma non ho pazienti di
particolari necessità. Ho un bambino con una tonsillite altamente
febbrile, ho detto ai familiari che, se avessero bisogno, venissero a
chiamarti. « Era d'inverno e alle nove di sera sembrava già notte fonda
quando si presentarono due uomini intabarrati, erano ancora in uso i
mantelli a ruota, che, in preda a grande preoccupazione, mi dissero: «
Haia venì subito ca lu criature stà brutte! ».
Non avevano torto. In una stanza, anche ampia, di una casa contadina
della periferia della città, con sedie tutt'intorno alle quattro pareti,
su cui erano seduti altrettanti uomini intabarrati e donne di varia età,
così come si era soliti vedere quando vi era il morto in casa, in un
lettino piuttosto arrangiato, giaceva un bambino marcatamente cianotico
per asfissia e con il nasino ridotto alla forma e alle dimensioni di una
piccola dava. Fu questo dato obiettivo che mi fece capire tutto e mi
fece agire di conseguenza. E non fu facile estrarre dalle due narici due
supposte integre e intatte, che non si erano sciolte, non avevano
medicato ed avevano soltanto occluso la via del respiro nasale mentre
l'altra, quella orofaringea, era occlusa da due grosse tonsille in fase
di acuta infiammazione.
Nelle vicinanze della « chiazza », nei vichi, e qua e là per la città,
comunque, non molti, si incontrava qualche negozio di « merciaro » o «
funnichiero », di scarpe, di stoffe e, poi, naturalmente, i negozi di
generi alimentari, che puliti, certo, non erano e profumati nemmeno ma
decenti, non mancava la sorveglianza igienica, specialmente dopo
l'apertura del laboratorio d'Igiene e Profilassi, che aveva un reparto
specializzato per i controlli dei generi alimentari ed aveva propri
vigili per le visite ai negozi e i prelievi di generi non ritenuti
idonei alla vendita o avariati.
Nel linguaggio comune erano i « putìare » e basta o « ugliarale » dove
si trovava tutto, dalla panella di pane al baccalà, che era tenuto « a
spunzà » nella tinozza, a lu « tiniedde » di sarache o di arenghe, a lu
« cugnette » d'alici, ai recipienti di stagno, che contenevano l'olio
con a fianco le misure: rotolo, mezzo rotolo, quarto di rotolo e «
misuriedde ». Si potevano ammirare, appese alle pareti, pezze di
formaggio, di ricotta salata, « pettine » di baccalà secco, prosciutti,
lardo, « vesciche d'nzogna », « 'nzerte d' cirasedde » insieme a
provoloni, butirri e non mancavano nemmeno le candele.
Insomma, quello che, oggi, si definisce, grazie alla nostra esterofilia
generosa, « super-market ».
Di queste botteghe, naturalmente, tutte « cu li 'pporte a 'ddegna » e
con uno-due gradini per entrare, ricordo quella di Trombone, di
Gennarino Di Pietro, di Gambardella, di Viggiano. Era tutta gente
decente e decorosa, che godeva anche di una certa tranquillità, pur non
essendoci le cambiali, perché vi era la buona abitudine di pagare.
Fuori dalla cinta della città si trovava altro genere di botteghe come «
lu furna sciare », che faceva e vendeva pignate, per cuocere verdure e
fagioli, urciuoli e piatti grossolani, ma si trovava, innanzitutto, « lu
ferraro » per gli strumenti che servivano al contadino, la zappa, lu
zappone, lu zappariedde (a seconda delle dimensioni), come lu fav'cione,
la falce, e per il grande numero di muli, cavalli, asini, giumente da
accudire e da ferrare.
E già perché i trasporti si facevano con i « traini » per le merci e con
le carrozze per le persone sia città per città che per i paesi.
Vi erano famiglie di trainieri, come famiglie di cocchieri: « i Zurluse,
i Bursutiedda, i Felicielle, i Pagliadonga ».
Erano trainieri e cocchieri per tradizione familiare ma anche per
passione e ci tenevano pure a differenziarsi tra loro (no... no...
quedde sò n'ata cosa... sò i trainieri... ci teneva a puntualizzare
qualche cocchiere). E gli uni e gli altri ci tenevano, soprattutto, a
differenziarsi con i mulattieri, quelli che, a dorso di mulo,
trasportavano dai boschi legne e « frascedde » (insieme di ramoscelli,
spezzoni di rami, legne di piccolo calibro e dimensione, che, per lo
più, servivano ad accendere i fuochi grossi nei forni e nei camini,
anche perché, in genere, erano molto asciutte e secche), sacchi di grano
e di farina, ceste di uva, barili di vino.
I mulattieri erano anche quelli che si cimentavano nelle arrampicate del
« maio » alla festa di San Gerardo; che rifornivano di « 'ddegne e
frascedde » li « fanoi », che ardevano « 'npont' ai vichi e nelle
cuntane » nelle sere di festa. Erano quelli che portavano in città, a
suoni di pifferi e di tamburi, per bruciarle in onore del Santo, le «
iaccare », che erano un insieme di « frascedde e cannucce », affasciate
intorno ad una trave lunga e sottile. Erano quelli che fornivano i muli
per la sfilata dei Turchi ed essi stessi non disdegnavano di unirsi ai
bracciali nel vestirsi da turco.
I Turchi erano simili soltanto nelle facce e nelle mani nere, tinte con
il nerofumo delle caldaie o dei camini, ma erano tanto diversi
nell'abbigliamento da fare ognuno numero a sé.
Il Turco, insomma, ognuno se lo fabbricava in casa secondo la propria
immaginazione e fantasia e secondo gli indumenti e stracci, che aveva e
resi, magari, più caratteristici dall'uso e dalla consunzione.
I cocchieri, invece, fornivano i cavalli « a l'angiliedde », i bambini
vestiti da Angeli, che, mezzo assonnati, sfilavano insieme ai Turchi.
Il Largo Liceo, oggi, forse, è lo stesso di quello di ieri. Non vi sono
più tante bancarelle e sono aumentati i negozi ed è cambiato il numero e
la qualità degli utenti, ma, soprattutto, non vi sono più gli studenti
del Ginnasio-Liceo e dal terremoto del 23 novembre 1980 non vi sono più
nemmeno gli studenti del Conservatorio di Musica perché il vecchio
palazzo è semidistrutto e non ancora in ricostruzione.
Ha cambiato nome e questo, mi pare, sia più importante e più giusto.
Non più « Largo » ma « Piazza Raffaello Pignatari » in memoria di un
figlio buono della città, che visse in quel palazzo dall'antico e
sontuoso portone in pietra, ben martellata e sagomata; per onorare un
uomo che amò la libertà più della vita, convinto com'era che non vi è
vita senza libertà, non vi è bene senza la libertà, non vi è giustizia
sociale ed umana senza la libertà. Quindi, scelta giusta per un luogo
giusto e di un uomo giusto.
Non ho conosciuto Raffaello Pignatari e ho motivo di credere di aver
perduto un esempio di vita e un sincero discorso di democrazia.
Mentre durante il ventennio ho ascoltato o, meglio, abbiamo ascoltato
soltanto mormorazioni a fior di labbra o barzellette sussurrate a fil di
voce e qualche rara escandescenza nello stato di ubriachezza di quel
solito bontempone, che finiva puntualmente in camera di sicurezza,
specialmente quando era preannunziata la visita di qualche grosso
gerarca di Roma.
Largo Liceo era anche il centro della vita di quella vecchia Potenza,
contro cui ha maggiormente infierito la ruspa e il cemento armato: Rione
Addone, San Luca, « Lu castiedd' » con l'antico Ospedale.
|