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PARTE IX
(continuazione)

Ma la gente che aspettava curiosa, ansiosa, fremente la sfilata dei turchi, gli attori sapevano l'origine di questa manifestazione, la conoscevano gli studiosi e i galantuomini? Vi era stato un avvenimento storico che così veniva rivissuto di anno in anno perché così era stato tramandato?
Sono convinto che niente fosse successo nell'antichità che potesse trovare riferimento nella sfilata dei turchi. Nessun documento storico è stato trovato o tramandato e di certo esiste soltanto la tenacia, la volontà, l'amore con cui la manifestazione era stata tramandata e veniva rinnovata.
Forse, per ricordare, esaltando, episodi di ribellione cittadina contro invasori e predoni, chiamati turchi per la loro cattiveria e perché i turchi erano cattivi e malvagi, ma, a mio avviso, il nostro bracciale ignorava chi fosse e come fosse il turco e, perciò, ognuno se lo creava impegnando la propria fantasia, le proprie conoscenze o reminiscenze, specialmente
« d' quedde ch'avìa cuntà la bonanima d' vavone ». E appunto per questo, credo, la sfilata dei turchi, avvolta nell'origine misteriosa, diventava originale e appassionante.
La cosa ha interessato gli storici, e non poteva essere diversamente, per il suo fascino ma, innanzitutto, per seguire l'insegnamento di G. B. Vico: « ... Simboli e tradizioni popolari rivelano sempre fatto e ricordo di storia antica ».
Emanuele Viggiano, anticamente, Padre Mario Brienza, in passato, Tommaso Pedio, recentemente, si sono occupati « dei turchi » con zelo, passione, con competenza, con impegno, con l'autorità di studiosi delle cose della nostra terra sono giunti a risultati diversi, anche contrapposti, ma la verità? La verità, forse, è ancora di là da venire e, forse, non c'è una verità. Io preferisco rimanere in quello che mi raccontavano quando ero bambino, di quando vedevo i turchi a Portasalza e correvo, serpeggiando tra i vichi e rischiando fra i fanoi, per rivederli ancora una volta prima della « Chiazza » o, almeno, prima che si ritirassero e vorrei rivederli ancora come allora perché erano la vera espressione dell'anima popolare semplice, genuina, originale, fantasiosa e rivederli, innanzitutto, sfilare per le strade della tradizione perché la sfilata dei turchi è tradizione e la tradizione fuori dal suo ambiente non ha senso.
È vero, anche, che quelli che sfilano, da qualche anno, non hanno assolutamente niente, né nella forma e né nella sostanza, dei vecchi turchi ed ecco perché la « sfilata dei turchi » andrebbe ristudiata, ricostruita e rivissuta, magari migliorata e non completamente trasformata, come ora, ma rispettando, nelle linee essenziali il passato. Ritornerebbe ad essere la manifestazione più popolare e di maggiore interesse per paesani e forestieri.
Sparati i fuochi a Piazza Sedile, sotto a « lu Muraglione », si chiudeva la serata e la gente si ritirava già con il pensiero alla grande processione dell'indomani.
Smaltita la stanchezza e la sbornia dei turchi, la gente cominciava ad affollare la via Pretoria di buon mattino, vestita a festa, per la processione di San Gerardo. Ma già le bande avevano, con i musicanti dalle uniformi più varie e bizzarre con fregi vari, spalline e pennacchi, girato in lungo e in largo le vie e le piazze della città, preceduti da un nugolo di bambini festanti.
Gli « 'ntritari » erano pronti dietro loro banchi a servire la gente e le congreghe, richiamate dalle campane delle loro chiese, si andavano radunando con i loro preti. Quando erano pronte, con la statua del loro Santo, accompagnate dalla musica, si portavano a San Gerardo per partecipare al Pontificale e, quindi, alla processione.
Dovunque vi era folla, per la strada, per i vichi, sui balconi e alle finestre. Era uno spettacolo nello spettacolo, uno spettacolo anche pittoresco e folkloristico per atteggiamenti e costumi paesani e forastieri.
Verso le undici, dopo lo sparo delle prime batterie, precedute da rulli di tamburo e frastuono di « fischietti », cominciavano a sfilare le congreghe, nelle loro divise caratteristiche e impeccabili, con il Priore in testa, che portava sulla « mozzetta » un fregio particolare e, autorevolmente, il bastone del comando e la statua del Santo.
Dopo ogni tre o quattro congreghe vi era una banda. Sfilavano, così, quelli di Sant'Antonio Abate con mozzetta celeste, di Santa Lucia con mozzetta verde, di San Giuseppe con mozzetta azzurra, di San Rocco con mozzetta rossa, di San Nicola con fascia celeste ricamata in oro a tracolla, di Santa Maria pure con fascia ricamata, di San Francesco con mozzetta di velluto nero. Davanti ad ogni statua del Santo, aggiustata con drappi di seta, portata a spalla da quattro o otto uomini, che approfittavano di ogni fermata per asciugarsi il sudore, vi erano file di ragazzi e bambini, alcuni vestiti da angeli.
Completavano la processione i vari capitoli della S.S. Trinità, di San Michele, del Seminario, della Cattedrale, poi la statua di San Gerardo, tutta in argento, preceduta dal Vescovo, ancora un'altra banda e, quindi, gran folla, che andava a mano a mano aumentando e recitava, ad alta voce rosari o cantava « Evviva San Gerardo, San Gerardo evviva, evviva San Gerardo e quel Dio che lo creò! ».
Davanti alla statua di San Gerardo era attaccato, a mò di grembiule, un drappo di seta su cui venivano spillati, ad ogni sosta, fogli di carta-moneta, come contributo spontaneo e generoso dei fedeli.
Ad ogni fermata vi era pure lo sparo di « batterie » anche questo era un contributo della cuntana o del vico e più lunga era la batteria più generoso era stato il contributo, ma la sparatoria più importante, più consistente e più lunga veniva fatta a Piazza Sedile a « lu Muraglione » e, dopo, la processione si ritirava alla Cattedrale. Mentre la statua di San Gerardo saliva le scale della Chiesa, le congreghe si disponevano a semicerchio con i loro Santi e, particolare da ricordare, con le statue inclinate in avanti, quasi un inchino, come segno di saluto ma, innanzitutto, come atto di riverenza verso il Patrono mentre la gente, in ginocchio, intonava gli ultimi canti e invocava, con la preghiera, aiuti e protezione
Sono cose del tutto scomparse e, personalmente, ne provo un profondo malessere perché non si è distrutta la manifestazione esteriore, soltanto, « la parata », si è affossata la tradizione e la tradizione è la vita di un popolo, fa la storia e la storia più bella, più sincera, più genuina di un popolo, la storia più decorosa, civile, umana, è la storia che esalta i sentimenti, la spiritualità.
Al di là della « parata », al di sopra della festa in sé, vi era la festa dell'anima popolare, dove il profano metteva maggiormente in luce la radicata, profonda religiosità del popolo, che, nel manifestare rispetto e devozione ai Santi, esprimeva, inconsciamente, quanto di buono, di elevato aveva « di dentro » e che era rispetto e devozione per sé, per le proprie povere cose, per l'umanità.
Nel forsennato fuggi-fuggi di questa vita, cosiddetta moderna e di progresso, certamente disumana perché svuotata di sentimenti, abbiamo, colposamente, affossato tutto questo, un mondo di valori e di virtù, un mondo di cultura. Abbiamo distrutto, e non ci sono scuse ma soltanto condanne, una fonte limpida ed inesauribile di esempi ed i risultati sono quelli che vediamo tutti i giorni.
La storia, quella che abbiamo raccontato, che raccontiamo, con una certa sicumera, ancora oggi, è storia di guerre, di lotte civili, di megalomeni, filibustieri, avventurieri, di violenza e, quindi, di morte e da questi esempi le conseguenze non potevano essere che guerre, distruzioni, violenze che, poi, ricadono addosso al povero popolo, a cui abbiamo strappato il bene, quel poco di bene, che chiedeva, e, meritatamente, aveva dalla vita e gli abbiamo affibbiato il male e la morte, disgregandolo, prima, incattivendolo a mano a mano. Millantando ricette di benessere per tutti, magari senza sacrifici e senza lavorare, sbruffoni e parolai hanno svuotato completamente il passato ma non sono riusciti a riempire il presente.
Con il ritiro della processione la festa, però, non era finita, nonostante l'ora tardi, perché vi era il supplemento della serata.
Appena il tempo di pigliarsi un boccone, di darsi « na sciasquara », di permettere agli spazzini di ripulire la « Strara » da quel manto di petali di fiori, fra cui spiccavano, per il colore e la quantità, « i pipli », i fiori di ginestra, e si tornava ancora per la via Pretoria e si onoravano di visite gli 'ntritari, i gelatai, quelli dello zucchero filante e i bambini, naturalmente, quelli che vendevano i palloncini. Un po' per lo stringi-stringi della folla, un po' anche pei la cattiveria e spiritosaggine di « vagliunciedd' e vagnardedde » i palloncini facevano una brutta fine, scoppiavano tutti, anche perché i bambini, per la loro statura, li portavano molto bassi.
Ed allora la festa per i genitori finiva tra incazzatura e gridi, per i bambini tra pianti, strilli, strattoni e i più ribelli, quelli che pestavano i piedi rabbiosi e si ingrugnavano in qualche angolo di muro, rimediavano pure qualche buon ceffone.
Nella serata le bande, in alta uniforme, nei palchi appositamente costruiti, con il maestro in frack o smocking, in genere, scapigliato e nervoso sul piccolo podio, eseguivano pezzi di opere classiche fino alla mezzanotte. Ho detto le bande perché non era una sola, erano più bande, si alternavano sullo stesso palco e si scambiavano anche le piazze perché si suonava a Piazza Sedile e a Piazza Prefettura.
Dalla mezzanotte alle due, e oltre, vi era la grande sparatoria dei fuochi e dei colpi scuri.
« Passare lu Sant', passare la festa! » e la gente l'indomani riprendeva di buona lena e di buon'ora il lavoro, per concedersi un'altra giornata di festa doveva aspettare il Corpus Domini.

La Processione di Santa Lucia.

Era una festa meno rumorosa, meno preparata, più festa religiosa che di popolo, ma era profondamente sentita e rispettata e la processione del Santissimo era molto affollata. I balconi e le finestre della via Pretoria erano una gala di coperte di seta, di damasco, di cotone bianco, all'imbocco dei vichi vi erano altarini con candele accese e fumi di incenso, ma la grande caratteristica di questa festa erano « i pipli », i gialli e profumati fiori di ginestra, raccolti in ceste e cestine, aggiustate con nastri e nastrini.
Erano i fiori che le fanciulle, in comitive festose, erano andate a raccogliere nei dintorni di Potenza, alla Botte o a Poggiocavallo, e, quasi una festa nella festa, erano ritornate, in processione, cantando e pavoneggiandosi, ostentando con un certo orgoglio quanto erano riuscite a raccogliere.
La processione del Corpus Domini era di una particolare solennità ed austerità, non vi erano statue di Santi, vi era solo il Santissimo portato dal Vescovo sotto il paliotto, retto ai quattro angoli dai seminaristi, ma era una festa ricca, pomposa, lunga, durante la quale non soltanto le fratellanze facevano sfoggio di camici nuovi e abiti ben curati, ma gli stessi monaci, i preti dei vari Capitoli sfoggiavano paramenti ricchi e lussuosi: tonacelle, piviali, pianete.
Era tutto un luccichio di ori e di colori.
Vi partecipavano tutte le Autorità politiche, amministrative, giudiziarie, militari e tutti in grande uniforme, ma anche tutta la gente vestiva l'abito della festa o delle grandi occasioni.
La processione si snodava sotto una pioggia di pipli, che diventava addirittura tempesta quando passava il Vescovo con il Santissimo.
D'altronde, il popolo la indicava con il nome di « festa dei pipli ».
La solennità del Corpus Domini non si esauriva tutta in quella sola giornata perché si prolungava per tutta la settimana con le processioni parrocchiali, secondo un programma che diventò consuetudine.
Vi erano anche altre feste ma erano ritenute tutte di minore importanza perché rionali e si svolgevano in maniera molto modesta, senza sfarzi religiosi e lussi di popolo.
Ricordo la festa di Santa Lucia, la Santa devotamente venerata dagli ammalati di occhi. La processione era affollata da ciechi, semiciechi, tracomatosi, da gente con cataratte non operate o inoperabili, con congiuntiviti e cherato-congiuntiviti, da miopi. Questo non soltanto perché mancavano tanti oculisti e tanti presidi oculistici ma perché la gente era anche prevenuta verso gli oculisti e considerava l'occhio come un organo intoccabile dalla mano dell'uomo e, perciò, l'affidavano alla Santa. Erano molti quelli che si ritenevano miracolati e molti gli ex-voto, che si potevano ammirare nella bella Chiesetta di Portasalza.
La vera festa con qualche divertimento si svolgeva nel Larghetto accanto alla Chiesa, perciò detto di Santa Lucia, ed erano divertimenti alla buona ma accettati e gustati dal popolo.
Fedeli alla tradizione, affezionati alla Santa ed al loro Rione, alcuni volenterosi, riunitisi in Comitato, avevano, l'anno prima del terremoto del 23 novembre del 1980, ripristinato la festa con le caratteristiche dei tempi passati.
Furono lodevoli e, mi auguro, che alla riparazione dei danni, subiti dalla Chiesa e dal Rione, possano riorganizzare la festa. Il popolo la vuole e l'apprezza.
Ricordo la festa della Madonna del Carmine, di S. Antonio, con tanto profumo di gigli, la processione della Madonna Addolorata del venerdì Santo, la processione di San Gerardo Nero o Vecchio, che era la statua di legno con la faccia scura. Si portava in giro per la città sia pei implorare la pioggia e sia per implorare il bel tempo e si portava in giro quella modesta scultura medievale e non la statua di argento perché la processione era di penitenza. Molta gente, in genere bracciali, disperata per la prolungata siccità o per il troppo maltempo, con le facce, forse, più scure di quella di San Gerardo, da volti patiti e dalle espressioni molto preoccupate, d'altronde era in gioco il loro sostentamento per tutto l'anno, seguiva il Santo a piedi nudi.
Era una processione toccante e commovente, la gente, provata duramente da in- finite ristrettezze, chiedeva protezione ed aiuto al suo Santo protettore contro la calamità naturale, con fede, devozione, umiltà ed anche umiliandosi perché la preghiera fosse più accetta.
Non vi era preparazione, la sera precedente « gìa lu campaniedde » per i vichi e le cuntane per avvisare che « crai nisciù fosse giù fuora pecché s'avìa caccià San Girard' p' pinitenza ».
Non ricordo le processioni di penitenza con la gente con corone pungenti, cilizi, flagellazioni, pare vi siano state nel lontano passato della città di Potenza, ma già quelle che ricordo io erano impressionanti, toccavano « lu cuore » e facevano commuovere « pure li priere d' la strara ».
Fra le festività religiose, senza manifestazioni di strada e divertimenti e solo con riti in Chiesa, ricordo la giornata dell'Ascensione e la ricordo per la levata di buon'ora delle ragazze che, a gruppi e in allegria, si riversavano nei campi perché appena il sole, con. i primi raggi, avesse baciato i seminati, con « l'acquaglia », che era la rugiada, si dovevano lavare la faccia. Ed aveva una spiegazione, certo, molto fantasiosa ma che, comunque, era di piena soddisfazione e, quindi, molto seguita. Nel giorno dell'Ascensione, come il Cristo ascese al Cielo, così la soiga si scartocciava dalle foglie verdi e si librava verso il Cielo con la promessa di un abbondante raccolto e con il rito « dell'acquaglia » le ragazze intendevano librare verso il Cielo la propria stella per una migliore fortuna « cu nu zite ricche e belle ».

Chiesa di Santa Lucia

Era un rito propiziatorio, un rito di speranza, un rito che non costava niente nè impegnava niente nè approdava a niente, ma era l'espressione genuina di una cultura della natura, a cui la gente donava rispetto e lavoro e, in cambio, chiedeva i mezzi per una buona vita vegetativa ma anche per una migliore vita di relazione e spirituale. Era un rito, che, nell'esteriorità, poteva sembrare pagano, perché « l'acquaglia » rendesse più rosea, più fresca la faccia e più bella ma, a mio avviso, esaltava gli ideali di fede perché, in fondo, nella venerazione delle cose del Creato vi era la profonda venerazione del Creatore.
La Festa dell'Ascensione la ricordo anche perché al mattino si beveva il bicchiere di latte fresco, a mezzogiorno si mangiavano i tagliolini cotti nel latte e zucchero e aromatizzati con un pizzico di cannella ma si mangiavano pure « li cav'zuni », i ravioli, « chieni chieni di ricotta ». Era una devozione, che coincideva, però, con il ritorno degli armenti dalla « marina » ai freschi pascoli delle nostre montagne e, quindi, potrebbe essere ritenuta anche un saluto augurale alla pastorizia ed alla sua industria, che fu, certamente, importante nella economia della nostra terra.
E « gn'era na vota pure la Festa di San Rocco », forse c'è ancora ma quella festa non c'è più.
Si è perduta ogni traccia di quella che fu la festa più bella e più brillante del popolo potentino, del popolo contadino, del popolo artigiano, del popolo lavoratore in genere e non soltanto perché chiudeva il ciclo delle feste annuali, perché capitava alla metà di agosto e per Potenza, si sa, agosto è « capo d'inverno », ma perché era profondamente sentita la venerazione e la devozione per il Santo.
Tanto è vero che molti potentini, in tempi remoti e non troppo remoti, molti ancora oggi, si recavano e si recano a piedi a venerare San Rocco della vicina Tolve.
Ma da quando demolita la vecchia cappella, forse rozza e insufficiente, con la costruzione di quella che il terremoto dell'80 ha colpito duramente e che, con piacere, rivediamo restaurata, e che è una chiesa graziosa e decente, con il sorgere del borgo, reso bello e pittoresco da quel maestoso e gigantesco olmo, che animalesca furia devastatrice, ha sradicato e distrutto, tutte le attenzioni erano per il San Rocco « nostro ».
Nel pomeriggio della vigilia, con un itinerario breve e seguita da un gruppo di non molti, ma affezionati fedeli, la statua veniva trasferita dal borgo alla Chiesa Cattedrale, dove pernottava per le grandi manifestazioni religiose e civili del .giorno sedici.
Si diceva che per il pernottamento veniva versato al Capitolo di San Gerardo una specie di tributo, e, pare, fosse in natura, verosimilmente grano, e non era un sacrificio perché al Santo affluivano molti e generosi contributi da parte dei fedeli, molti erano anche i contributi, in denaro, dei potentini emigrati in America.

Largo Rosica
 

La Fontana di Larghetto Santa Lucia

Il popolo venerava San Gerardo, certamente, era il Patrono della città, ma lo venerava con quella specie di distaccata riverenza, che si aveva per le persone altolocate e la festa di San Gerardo era quasi una festa di elite ma sentiva più vicino a sé, alla sua umanità San Rocco e la festa di San Rocco era e doveva essere la vera, grande festa popolare.

Antico Borgo San Rocco

La processione del giorno 16 agosto, che partiva dalla Cattedrale e si snodava per via Pretoria, Corso Umberto, Corso Garibaldi fino al borgo, non era fastosa tanto quanto quella di San Gerardo, niente vescovo, niente Capitoli e Congreghe ed altri Santi, ma era più caratteristica e lunghissima, lo stesso, per l'affollatissima partecipazione di fedeli. La via Pretoria scoppiava, sia per la sfilata dei « cinti », stupende costruzioni di candele e raffiguranti campanili e chiese rupestri, entro cui troneggiava sempre la figura di San Rocco, erano, taluni, così pesanti che per essere trasportati richiedevano la spalla di otto persone, sia per la massa imponente dei devoti, i più a piedi scalzi, che portavano ceri sulle spalle, alcuni ceri erano grossi come tronchi d'albero e portati da due persone, lo facevano per voto, per grazia ricevuta o per implorare l'aiuto del Santo. La processione arrivava al borgo ad ora tardi perché le fermate erano tante. Si può dire che ad ogni passo vi era chi offriva denaro, che veniva spillato al grande drappo, sistemato ai piedi della statua. Si diceva sempre che San Rocco raccoglieva molti soldi e, sicuramente, più di San Gerardo. Ma la processione arrivava tardi anche perché lungo il percorso si sparavano pure molti fuochi artificiali, in particolare lunghe batterie.
La vera festa cominciava, però, dopo il rientro del Santo. Già all'imbrunire le collinette del borgo, i prati cominciavano a popolarsi.
Erano famiglie o gruppi di famiglie che si sistemavano con le vettovaglie per cenare in allegria in attesa della notturna sparatoria dei fuochi. Vi erano grandi « turtiere » di patate e carne, timballi di riso o di patate, molto bene imbottiti di formaggi e « sav'cicchie », vi erano enormi « meloni quedde 'rross' cumm' a un fuoo », con i quali si mangiava, si beveva e si lavava la faccia, vi erano cartocci di 'ntrite, nucelline americane, castagne d' lu prevere, ecc., ma, innanzitutto, vi era la fiasca sempre piena « p'abbagnarsi li cannarini assuppare ». Roba, insomma, tanta ma vi era anche il tempo per poterla consumare con calma perché i fuochi cominciavano verso la mezzanotte e duravano oltre le due ore. I fochisti, in genere, erano due e, naturalmente, vi era tra di loro una certa gara per superarsi e, quindi di essere privilegiato nella scelta per l'anno dopo.
Quello che facevano vedere questi artisti (e il termine è esatto) dei fuochi erano cose veramente eccezionali e incantevoli per fantasia e professionalità. La gente ne parlava per giorni e giorni dopo la festa e con grande entusiasmo.
« Gn'era la festa di San Rocco », ho detto, non c'è più e non ci sarà mai più perché è scomparso il borgo, sotterrato dagli scatoloni di cemento armato, è scomparso il secolare, superbo olmo ma perché è scomparso quel popolo, pieno di fede, di semplicità e di poche pretese, che viveva di grandi sacrifici per momenti di lecite distrazioni, per attimi di godimento.