PARTE X
(continuazione 1)
Luigi e Lorenzo
Ottavio erano venuti dall'America già con alta preparazione atletica e
furono di stimolo ma anche di insegnamento agli altri e, naturalmente,
erano venuti con tutta la famiglia perché il padre, don Rodrigo, che del
« Don Rodrigo manzoniano » non aveva assolutamente caratteri né
caratteristiche, aveva aperto, nei due locali, al pianterreno, dove fu
poi la sala da pranzo dell'Albergo Vittoria, un bazar, credo
all'americana, che diventò, in seguito, quando si trasferì verso la
Piazza Prefettura, il negozio di scarpe, soltanto, con qualche
accessorio (lacci, cromatine, spazzole).
Era un uomo fisicamente ben piantato, sempre bene e distintamente
vestito, completamente pelato, la testa anche per la forma sembrava una
palla di bigliardo, con l'immancabile mezzo sigaro, di poche parole,
pronunziate con tono e accento, che tradivano la parlata mista spuria
italo-americana. Era un'onesto.
Di fronte alla prima sede della ditta Ottavio vi era, come vi è ancora
oggi, tra la sede della Banca d'Italia e il vico Rocco Brienza, il
negozio di Ignomirelli. Certo sono cambiati i gestori ed anche il genere
perché anticamente vendeva soltanto stoffe per tutti gli usi, non
confezioni. Non erano stoffe di pregio e, forse, perché anche contenute
nel prezzo, il negozio era affollato da contadini dei dintorni di
Potenza ma anche di gente dei paesi vicini, taluni attratti pure dai
colori sgargianti delle stoffe. Originari padroni e gestori del negozio
erano due simpatici coniugi, venuti dalla vicina Puglia, ambedue
pletorici-obesi, di quelli che, per troppo grasso tra « panza e cosce »,
sono obbligati a camminare nacando, ma due esperti del mestiere, ci
sapevano veramente fare e la clientela era contenta ed aveva fiducia.
Erano, ambedue, analfabeti e questo va a loro merito.
La maldicenza, invece, proprio su questo unico dato negativo, ricamò
un'abbondante aneddotica, pigliando di mira il buon « don Oronzio », il
marito. Nei mesi estivi, nelle ore di gran caldo, per la stanchezza e
per respirare un po' di aria pura, don Oronzio, solitamente, si sedeva
davanti al negozio con un giornale, tenuto puntualmente sottosopra, e
non poteva essere diversamente perché non sapeva leggere e il giornale
gli serviva per coprirsi il volto e schiacciare un sonnellino e per
cacciare le mosche. Erano proprio quelli i momenti durante i quali, i
soliti sfottitori, facendo finta di passare per caso, si fermavano per
chiedergli: « Cumpà 'Ronzio, chè disce lu giornale? » E con la pazienza
di Giobbe « cumpà 'Ronzio », nel suo mai modificato dialetto pugliese,
rispondeva: « 'mbrugghie, figli' mie, 'mbrugghie ».
E, sempre i soliti giocherelloni-perditempo, aspettavano che don Oronzio
si fosse fatto qualche bicchiere di vino per chiedergli come fosse
andata la visita a Vittorio Emanuele III e alla Regina Elena a Roma. C'è
tanta gente, che nei fumi del vino, acuisce la fantasia e racconta, con
convinzione, di aver partecipato ad avvenimenti, avventure, guerre con
tanta dovizia di particolari da credere e da far credere che sia tutta
verità e che tutto sia così avvenuto.
E don Oronzio raccontava di essere stato ricevuto alla porta dal Re e
consorte, che l'avevano accompagnato, parlando magari pugliese, per
tutto il palazzo e che alla fine, stanchi del lungo giro, si erano
seduti in cucina (!), alla buona come due vecchi amici, e il Re aveva
detto alla Regina « Elena, Elena, pigghia nù bicchiere di vino a cumpà
'Ronzio ». Tanti lo sapevano a memoria ma se lo facevano raccontare lo
stesso perché, in verità, al di là del fatto, era un godimento la
maniera di raccontare di don Oronzio e il suo dialetto, reso ancora più
simpatico con qualche immancabile parola grassa.
Un uomo come gli altri? Probabilmente sì, ma con particolari attitudini
al commercio ed al saper vivere e « Gliumeriedde », come veniva
comunemente appellato, costituì un motivo in più per la visita a via
Pretoria.
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Il Vico Siani con il portoncino della casa Di
Pietro.
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Il Vico Branca. |
Procedendo,
zig-zagando, la passeggiata per la « Strara » si incontrava la bottega
di barbiere di don Antonio Di Pietro e quella di modista della moglie,
donna Elvira, una coppia, che ricordo volentieri e con affetto per la
stima che ebbero di me e per l'attaccamento alla mia persona ma,
innanzitutto, per la stima, l'affetto, l'amore che nutrivano l'un
l'altro, erano, per me, un esempio, morirono a tarda età, forse,
raggiunsero la stanchezza della vita ma non quella della loro unione.
Abitavano nel vico Siani, alle spalle dei loro negozi, e la loro casa,
con quel bel portoncino ad arco, mi era familiare e non solo per le mie
visite professionali ma anche per qualche visita di breve riposo per il
piacere di scambiare poche parole con l'affabile padrona di casa e per
gustare il suo ottimo caffè, preparato con la vera, vecchia macchinetta
napoletana.
Nelle mie visite a vico Siani tante volte mi era data la gradita
occasione di incontrarmi con l'avvocato Angelo Iannelli, una bella
figura di uomo, un distinto signore, un raro esempio di nobiltà d'animo,
di coerenza, di educazione. Fu fascista e gerarca, non, certo, animoso e
facinoroso ma umano, civile, dignitoso e tanta dignità dimostrò nel
campo di concentramento di Padula e dopo la sua discriminazione.
Visse in modestia ma mantenendo intatte le sue virtù nel rispetto dei
valori umani, con la serena coscienza degli onesti.
Nel breve tratto di via Pretoria percorsa idealmente e menzionata
ricordo altri negozi, ma, d'altronde, tutta la via Pretoria era piena di
negozi, Turtur e Musolino, la salumeria Maddaloni, la gioielleria
Cusano, strutturata ed addobbata con discreta e parsimoniosa eleganza,
il negozio di scarpe Pacilio nei locali dove, in seguito, si sistemò la
Cartolibreria di Marchesiello, la Farmacia del dott. Alfredo Diamante,
la pasticceria di Eugenio Brucoli.
Alcuni sono spariti per assenza o latitanza di continuatori,
interrompendo una onorevole tradizione familiare come quella «
Marchesiello ». Era di questa famiglia il Marchesiello, eccellente
tuttofare della « Tipografia Garramone - Marchesiello » di Piazza
Sedile.
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L'avv. Angelo Iannelli. |
Autodidatta, si
era formato una buona cultura generale tale da consentirgli di
esercitare il difficile mestiere di « proto » e di interpretare
agevolmente scritti giuridici, medici, letterari e non solo nella lingua
italiana. Il figlio Gerardo, con la libreria, seppe mantenere buoni
rapporti con la cultura del tempo e con gli uomini di cultura, curò
anche l'edizione di alcuni scritti, saggi a carattere locale e di
studiosi nostri. Fummo amici ed ebbi il piacere dei suoi consigli per
quel poco che potevo scrivere e pubblicare.
Facemmo, insieme, certo, anche considerazioni politiche, non eravamo
distanti e, tantomeno, agli opposti e non gli mancava il bel garbo per
farsi ascoltare e seguire ma aveva anche il buon gusto di non parlare «
per ipse dixit » né di coartare la volontà, il sentimento, le idee
dell'interlocutore. Ecco perché non mi sembra esatto quanto affermato da
alcuni che la libreria di Gerardo Marchesiello fosse il covo
dell'antifascismo nostrano, tenendo conto anche che io ho conosciuto,
con rapporto di amicizia, la maggior parte dei frequentatori della
libreria. Meglio dire che non era il luogo del consenso al regime ma il
luogo del dissenso, non certo armato e chiassaiuolo, ma serio e civile,
non era un mistero né se ne faceva un mistero.
Di fronte a don Gerardo, all'ingrato odore di medicine confezionate e di
ingredienti vari per confezionare medicine, dietro un bancone di legno
solido ma stantìo, dalla mattina alla sera, vi era il dottor Alfredo
Diamante, tarchiato, bronchitico cronico asmatico, pare per i gas
respirati durante la prima guerra mondiale, con occhiali rotondi a
stanghetta, un po' vecchiotti e quasi sempre squilibrati, ritenuto pure
un discreto « rosicatore » antiregime. Un uomo alla buona e un
professionista serio ed onesto che aveva come collaboratore, almeno per
le cose più faticose e pesanti, un ornino silenzioso, buono,
servizievole, semplice e fedele: Raffaele Colangelo.
Sotto le scansie di fronte al banco erano, puntualmente, sistemati in
fila cinque sgabelli in legno a tre piedi, dove, verso una certa ora
della sera, si sedevano cinque distinti signori, assortiti, con barba e
baffi, solo baffi, senza barba né baffi, professionisti, ma quella,
certamente, era l'ora negativa per gli affari di don Alfredo. La gente,
appena li scorgeva attraverso la porta a vetri, fuggiva quasi
terrorizzata perché « quei signori » godevano fama di essere malelingue
e iettatori. In genere si trattava di malati o di familiari di malati,
in cerca di medicine o di consigli, quindi, tenendo conto anche di
quella mentalità, si può facilmente immaginare il panico. «Vox populi
vox dei»? Può essere pure, solo però se si tiene conto di quello che si
diceva in giro.
« Si haia gì 'ddà... va presto e no quanne gné sò queddi tantazioni... »
e una volta cominciata la litania si continuava « ca t' squàdrano da la
testa a li pieri
e pò té strazzano li panni da 'ncodde... ammaccari fann' a vrè ca
t'addummannene cumm' sta lu malate e pò... vai 'ncasa e lu trovi piogge
o proprio morto... » « teh! ...Rusetta, mì figlia, geze p' na pinola p'
lu male d' testa s' n' pozza turnà cu la pania 'mmane... cu li 'rrupp' a
li stintivi... li 'rrupp' ... e 'cch' hamme passa... ». E ognuno aveva
qualche cosa da raccontare, tutti avevano visto o sentito qualche cosa
e, purtroppo, quei signori erano là tutte le sere a parlare tra di loro,
certamente ignari di quello che si diceva e, se l'avessero saputo, si
sarebbero fatti delle grosse risate.
All'amarostico della farmacia si contrapponeva il dolce di Eugenio
Brucoli, rinomato pasticciere, creatore di squisite ghiottonerie, uomo
semplice, cordiale, simpatico. Ma il mio ricordo non si collega alle sue
virtù professionali, soltanto, al boom della sua attività, che coincise
con la istituizone a Potenza della Scuola Allievi Ufficiali di
Complemento di Artiglieria, ma va molto più indietro negli anni
universitari miei. Eugenio era pure all'università dei pasticcieri: da
Caflish a Napoli e lavorava nel Laboratorio della Pignasecca, un locale
sottostrada con finestrelle a livello stradale.
Per noi studenti senza soldi fu una scoperta importante. Più di qualche
mattina ci recavamo alla Pignasecca per incontrare il buon paesano e
tutto si svolgeva attraverso il finestrino « Eugè... Eugè... somm'
qui... » Eugenio alzava gli occhi verso di noi, cercava di appartarsi
dai maestri e compagni di lavoro e atteggiando le mani a megafono,
rispondeva, qualche volta anche seccato ed aveva ragione: « giarevenne
ca nunn' pozz' fa niente... m' vérene... m' vérene... ». E noi di
rimando: « Eugè... tenemme fame... ». Era la molla della commozione e
subito dopo con precisione da tiratore scelto Eugenio lanciava
attraverso il finestrino un prezioso pacchetto ed ogni volta lo
accompagnava con la solita frase: « Giarevenne... e nunn' v' fascire vrè
'cchiù... ». Ma era come raccomandare le pecore al lupo perché
puntualmente noi tornavamo. Povero Eugenio quanta pazienza che ebbe e ci
fu anche molta incoscienza da parte nostra perché gli facemmo correre
dei rischi.
La pasticceria era una malattia di famiglia, perché fu pasticciere anche
il fratello Enrico, più anziano di lui, ed altrettanto bravo, un uomo
dolce pure nel parlare, nei modi di trattare la gente, con i suoi
lavoranti, ebbe il negozio verso la fine della via Pretoria, dopo la
Piazza Prefettura, meno fortunato di Eugenio e sfortunato pure con la
famiglia, di cui non vi è più traccia.
E sulla via Pretoria, dopo il vico Caserma Lucania, affacciavano, così
come affacciano oggi, i balconi di casa Colombo, con ingresso da quel
grande portone proprio all'inizio del vico. Dire casa Colombo per
qualcuno vorrebbe significare soltanto la casa di Emilio Colombo,
potentino, laureato in giurisprudenza, cattolico convinto e praticante,
ministro più volte e di dicasteri importanti, una volta Presidente del
Consiglio, statista stimato, apprezzato all'Estero, dove ha ricevuto
alti riconoscimenti, a testimonianza delle sue spiccate qualità
politiche, delle sue doti umane, della sua onestà, della sua coerenza.
In un mondo politico sommerso dalla melma, fra uomini politici che
passano, vergognosamente, fra reati di ogni genere e indizi di reati,
Emilio Colombo è rimasto sempre fuori, conservando la sua personalità e
immagine pure, cristalline, trasparenti e questo, detto con molta
sincerità, come potentino e lucano, mi rende orgoglioso di essere suo
concittadino e conterraneo. Ho qualche anno più di lui e lo ricordo come
tanti e fra tanti, senza esplosioni o cose eccezionali, compito e
composto, pieno di senso del dovere, responsabile, serio nella vita e
negli studi, con le premesse, cioè, di fare bene ed ha fatto sicuramente
bene e del bene. Ha scelto una via ed una vita anche pericolose e piene
di incertezze ma il tempo ha dimostrato, agli amici ed agli avversari
onesti e in buona fede, che ha avuto abbastanza qualità per superare
dignitosamente gli ostacoli.
Per me, però, casa Colombo significa anche casa della Famiglia Colombo,
di Pasquale, che fu mio compagno in prima ginnasiale, di qualche
sorella, compagna di qualcuna delle mie sorelle, una famiglia,
accostumata, seria, piena di amore di Dio.
Ricordo lo zio don Peppino Tordela che, con la sua barba nera e il
bastone, mi faceva quasi paura quando l'incontravo, bambino, nel vico,
specie se non passavano altre persone e tante volte alzavo gli occhi
verso l'alto come se volessi cercare un distintivo particolare perché,
in una stanza di quella casa Colombo, insegnava ai ragazzi-bene di
Potenza la maestra Tordela e, talvolta, mi veniva in mente di salire per
vedere come era questa maestra particolare di una scolaresca
particolare. Mi dissero che era una maestra buona e brava, che amava
l'insegnamento e i bambini, l'accomunai alla mia buona e brava maestra
Vincenzina Sarli, che tanto ci amava e tante cose ci insegnava, e le
volli bene, senza conoscerla.
Emilio Colombo, ragazzo, giovane, trascina al ricordo di don Vincenzo
d'Elia, Arciprete della Chiesa della Santissima Trinità, che gli fu
maestro di religione, di vita e di costume.
Lo faccio riportando quanto scrissi nel n. 25 di Tribuna di Basilicata,
del 16 novembre del 1982, in occasione della presentazione del libro «
Segno di tempi nuovi » del sacerdote don Mimì Sabia: « I miei rapporti
con don Vincenzo d'Elia non furono fortuiti né occasionali. Per un certo
periodo, non lungo, fu mio insegnante di religione alla seconda classe
liceale. Furono, però, quei rapporti che si potevano instaurare tra
alunno e insegnante in un'ora di lezione settimanale e, per giunta, in
un'ora di stanchezza, di noia, di sonnolenza, dalle 13,30 alle 14,30.
Non furono, certo, rapporti adatti a conoscere l'Uomo, il Sacerdote, il
Maestro, anzi, e direi quasi certamente, contribuirono a creare una
conoscenza distorta e non veritiera anche perché l'Uomo era austero nel
portamento e negli atti, aveva un'oratoria piatta, scarna, una dizione
monotonamente cadenzata, conciliante la distrazione più che l'attenzione
e, poi, la distanza cattedra-banco, la nostra impreparazione al
colloquio.
Furono tutti dati negativi che portarono alla rottura e perdemmo il
Maestro. Fu per Lui una decisione, certamente sofferta e per noi,
indubbiamente, una colpa anche se frutto più di leggerezza che di
sostanza. Non ebbi più occasione di incontri con don Vincenzo perché
abitavo fuori dalla città e per i 'miei bisogni spirituali e religiosi
frequentavo la Chiesa di Santa Maria, sia perché sopraffatto da pesanti
preoccupazioni sia di famiglia che di studio, ma, sinceramente, non
cercai nemmeno di procurarmeli, anche se, nel mio intimo, ero rimasto
nella convinzione di aver confuso l'esterno con l'interno di quell'Uomo,
la forma con la sostanza, l'apparenza con la spiritualità. Sono
cresciuto e con gli anni ho cercato di rivedere le mie convinzioni per
formulare giudizi sul sacerdote, certamente, meritevole, e non per mera
curiosità o per atto di contrizione ma mi sono mancate le fonti di
ricerca.
Mi è venuto incontro, inconsapevolmente, don Mimì Sabia, a cui va la mia
gratitudine e la gratitudine di quanti, come me, avevano a cuore di
definire con la propria coscienza la figura e l'opera di don Vincenzo
d'Elia.
Il libro « Segno di tempi nuovi », Edizioni Paoline, in veste
tipografica semplice e decorosa, scritto con l'arte del narratore più
scaltrito e smaliziato nella pura lingua italiana, di cui si va perdendo
persino il ricordo, in forma scorrevole e comprensibile, in scioltezza
di periodare e precisione di termini e di aggettivazione, curato secondo
i crismi del sapere scrivere persino nella punteggiatura, colma vuoti ed
illumina la figura.
Non è un libro di storia, arido per narrazione di fatti, di avvenimenti
ed incolonnamento di date, eppure, per ricchezza di documentazioni, con
la semplicità, la chiarezza e la trasparenza di un discorso fatto tra
amici, fa storia e non è soltanto storia di un Uomo, che fece storia a
sé, ma partecipò alla storia del suo tempo con le parole, gli scritti e
le opere e, non in una visione statica, ma dinamica.
Ed, a mio modesto avviso, qui è la maggiore pregevolezza del libro per
la capacità dello scrittore, che, mantenendo costante nella continuità
il filo conduttore, riesce a far maturare nel lettore il convincimento,
con progressione persuasiva, di un d'Elia in una maturità intellettuale,
spirituale e politica in fermenti evolutivi e tali da farne di lui un
precursore ed anticipatore di « tempi nuovi ».
Perciò, è assolutamente erroneo ritenere il libro un semplice ed
affettuoso omaggio di un discepolo e seguace al Maestro e, peggio, un
devoto riconoscimento al predecessore perché il libro è la grande
occasione per rimeditare non solo il suo insegnamento ma l'Uomo che si
fece promotore di quell'insegnamento in momenti in cui eventi drammatici
e incognite inquietanti lo rendono più attuale.
Un insegnamento spirituale, intellettuale, politico e civile, a cui, don
Vincenzo, dedicò vita e pensiero con rigorosa coerenza, che ne
testimonia il valore e lo esalta.
Quella coerenza morale esemplare, che lo spingeva, di continuo, a
cercare una difesa dei principi nel confronto con la mutevole realtà, a
proteggere i valori perenni degli ideali nel turbinio delle vicende
contingenti, a salvare, nelle situazioni sempre nuove che la storia
presenta, le ragioni e i diritti della coscienza.
Il suo totale disinteresse personale, il suo carattere non privo di
fierezza, il fine della sua stessa vita, gli consentirono di affermare
la verità senza infingimenti e senza modulazioni di toni e di frequenze
anche perché sacrosanta era la sua battaglia: la difesa dell'uomo come
persona umana, la sua dignità, la sua libertà.
E non fu solo il teorico predicatore perché alla severità del suo
insegnaménto morale egli aggiunse, come pochi, la luce dell'esempio. La
povertà in cui visse e morì è stato, sicuramente, il più bel sigillo che
ha conferito al suo messaggio morale il valore di un testamento
spirituale.
Così l'Uomo, il Sacerdote, il Maestro era e visse e, forse, non furono
in tanti a seguirlo ed a formarsi al suo insegnamento ed il merito del
libro di don Mimì Sabia potrebbe essere proprio quello di far rivivere
non solo « nella memoria e nella tradizione » « l'esperienza d'Elia »,
come la definisce Emilio Colombo nella presentazione; ma nei fatti
sempreché la nostra attuale gioventù lo leggesse e meditasse ».
E continuo nella via Pretoria ancora fra negozi, alcuni scomparsi nel
genere e nei titolari, sono scomparsi Patania, Tursi, Graziadei.
Nel bar-pasticceria Tursi comparvero i primi biliardi ma la gente non
dimostrò gratitudine al signor Tursi, girava, infatti, la voce che
vendesse solo dolci stantii e rigenerati. Era, certamente, una
cattiveria ma che, purtroppo, si tradusse in danno economico perché la
pasticceria era quasi sempre vuota.
Pur con uno sguardo fugace al vicoletto Stabile, dove vi era un
alberguccio pulito e decente, con trattoria, gestito da Donato Cillo e
moglie, oriundi pietragallesi, al vico Picernesi con l'ingresso con arco
in via Pretoria, ricordo i gioiellieri, per tradizione e per passione, i
coniugi Graziadei, garbati signori all'antica, che sapevano vendere ma
anche consigliare, buoni intenditori della psicologia e dei gusti della
clientela. Al loro posto vi è, oggi, un altro gioielliere, il signor
Angelo Tomasco, a fianco a quel grosso portone con la « Cine — Foto
Bucci » dell'amico Gerardo Pecoriello, a cui sarò sempre grato per il
contributo, in fotografie, che mi ha dato per la compilazione di questo
libro così come conservo affettuoso ricordo del cognato e fondatore
della ditta, Manlio Bucci, che non era potentino ma dai potentini seppe
meritare stima e cordialità.
Ho citato il portone perché ha visto e, credo, vede ancora oggi, raduni
di ex-combattenti, feriti e invalidi di tutte le maledette guerre che
abbiamo combattuto, ha ascoltato il tintinnio delle loro medaglie, il
fruscio delle piume di vecchi, ma sempre orgogliosi, bersaglieri, ha
imparato a memoria le loro vicende dei campi di guerra.
 |
Piazza Duca della
Verdura: sulla sinistra il Palazzo dei Giuliani con il Bar e
Pasticceria della signorina Satriani, sulla destra la casa di
donna Ada Giocoli-Montesano. |
Prima di lasciare
questo tratto di via Pretoria, nominando, però, per dovere, la latteria
di Angelina Petraglia, la salumeria Briuolo, poi, di Nino Mastrangelo,
la bigiotteria di Misuriello e la sala da barba dell'altro fratello
Misuriello, la modisteria, della bella e simpatica signora Pietrafesa,
morta giovane e nel pieno della sua attività, con la esposizione, sempre
nuova, di cappelli, scialli e foulards, da far girare la testa a signore
e signorine e frutto della fantasia, del gusto, dell'arte della modista,
mi fa obbligo citare che, da quel portoncino all'antica, ancora
esistente a fianco del negozio di Michele Scioscia, si saliva al salotto
di « donna Ada ».
Non ho ricordi personali perché non ho avuto l'onore di frequentare «
donna Ada » e il suo salotto ma d'altronde, non avevo investiture
nobiliari, politiche, di alto impiego statale o di alto magistrato per
esservi ammesso. Non lo dico, naturalmente, per amore di critica o
perché ancora mi duole di non essere stato ammesso, anzi, ringrazio
Iddio per esserne stato escluso perché io, plebeo, abituato a tutt'altro
genere di discorsi, di modo di bere e di mangiare, mi sarei trovato in
gran disagio e mi sarei vergognato di me stesso.
E' che questo sia vero è avallato da quanto scritto da Giuseppe Guido
Loschiavo, che fu Presidente della Corte di Appello a Potenza, nel suo
libro « Il mare di pietra » — Vito Bianco Editore —1960.
Scrive, infatti, a pag. 74 e 75: « ... Donna Ada è la eletta dama che in
Potenza impersona l'ospitalità il garbo la saggezza la virtù
organizzativa. Senza donna Ada la vita potentina ristagnerebbe in quel
torpore locale, per cui tutto si svolge e si sviluppa con una lentezza
esasperante, con uno stillicidio che snerva prima ancora che qualsiasi
cosa giunga a compimento ». Nessuno ha mai dubitato, e tantomeno io, che
donna Ada impersonasse l'ospitalità, il garbo, la saggezza, la virtù...
ma io dubito che il Loschiavo abbia conosciuto altre donne di Potenza
che al pari di donna Ada avessero tali virtù, ed è probabile, anche
perché non tutte le donne di Potenza, al tempo della permanenza del
Loschiavo, avevano il salotto, anzi, tante, ammantate di virtù, non
avevano « nemmeno gli occhi per piangere ».
Ed il Loschiavo aveva bisogno del salotto, gli conferiva più prestigio
e, diciamolo pure, più « fumo », gli serviva per giustificare anche « la
lordosi maiestatis » che mostrava camminando.
Non so come e che cosa facesse donna Ada per accelerare il ritmo della
vita potentina; credo che non potesse fare altro che raccomandare le
cose ai « pezzi grossi », che frequentavano il salotto ma l'affermazione
del Loschiavo « per cui tutto si svolge e si sviluppa con una lentezza
esasperante, con uno stillicidio che snerva prima ancora che qualsiasi
cosa giunga a compimento » non può essere addebitata alla città, alla
buona gente di Potenza, che di tutti i ritardi fu ed è stata sempre
vittima, bensì, proprio ai funzionari alti o bassi, che hanno affollato
gli uffici della città, i funzionari dalle « tre P », quindi o con
stimoli incerti e imprecisi, perché di prima nomina e, quindi, senza
esperienza, o senza stimoli, perché prossimi a pensione o in punizione.
Se donna Ada, servendosi del suo « saper fare e del suo fascino » riuscì
ad accelerare la soluzione di qualche problema della città, ebbene, a
lei il mio grazie e di quella gente, che si avvantaggiò, ma che non
potette esprimere la sua riconoscenza perché non conobbe la
benefattrice.
Il Loschiavo si fa perdonare tutto, anche quanto ha scritto in seguito,
perché il suo libro è biografico e del tutto personale e di parte e,
ogni interpretazione di uomini e cose resta, solo e soltanto un fatto
personale: « I uai sò d"chi s' li sente e nò d' chi passa e tene a mente
», sentenzia un vecchio detto potentino.
D'altronde, egli chiarisce « ...il suo salotto è il rifugio,
specialmente nelle lunghe serate d'inverno, quando il gelo cala sulla
città e il vento s'ingolfa nella famosa via Pretoria; è l'asilo
accogliente di tutte le personalità cittadine e di quei diseredati, che
arrivati a Potenza, si troverebbero abbandonati al destino di chiudere
la giornata al cinema oppure sotto le coltri ».
Che il salotto di donna Ada « ... fosse l'asilo accogliente di tutte le
personalità cittadine... » bè, lo sapevano anche i potentini del
deprecato ventennio, già, allora, fu accogliente per i Federali, i
Prefetti, i Gerarchi e non poteva essere diversamente, tenuto conto che
donna Ada era una Giocoli, figlia di uno dei Podestà della città, moglie
del gentiluomo ing. Vittorio Montesano, cognato dell'avv. Guido
Montesano, che onorarono la sahariana e il regime con onestà di intenti
e coerenza. Si capisce che, cambiate le cose, anche il salotto di donna
Ada dovette cambiare clientela e, meno male che lo fece, fu un'opera
buona e pia perché alleviò le pene di « ... quei diseredati... », che «
... arrivati a Potenza... », in questa landa selvaggia, carica di gelo e
« ingolfata » di vento (è evidente che il Loschiavo non aveva combattuto
in Russia né aveva conosciuto i campi di concentramento della Polonia) «
... si troverebbero abbandonati al destino di chiudere la giornata al
cinema oppure sotto le coltri... ». C'era, però, anche chi non poteva
chiudere la giornata al cinema perché doveva pagare il biglietto e non
aveva soldi come chi non aveva nemmeno « le coltri ».
Ma « pure gli sfottuti 'mparavise vanno » e i potentini dovrebbero
andare tutti 'mparavise, vecchi e nuovi, morti e vivi, per la loro
ospitalità, mal ripagata, data ai forestieri, ospitalità, talvolta,
persino servile, scandalosa, suicida: i forestieri tutti eccellenze e
professori, i paesani tutti fessi! In un certo periodo si arrivò
all'assurdo: le ragazze, specialmente quelle « presuntuosamente bene »
rifiutavano persino la corte a distanza dei ragazzi potentini, per i
quali avevano sempre da criticare qualche cosa, ma erano leste a
lanciarsi fra le braccia del forestiero.
Abbiamo avuto sempre, e continua ancora oggi, il grande difetto di non
volere e di non sapere difendere le nostre cose e i nostri uomini, e ne
abbiamo avuto tanti, che per esplodere, e sono esplosi in tutti i campi,
hanno dovuto conoscere il disagio fisico e morale della emigrazione in
Italia e fuori d'Italia. Abbiamo osannato, foraggiato, cresciuto
all'ingrasso forestieri, che non hanno tralasciato occasione per dir
male di noi, della nostra città, della nostra terra.
Non è razzismo questo mio, il razzismo non è mai entrato nella nostra
costituzione, e tantomeno nella nostra coscienza, ma avremmo dovuto
imparare ad essere, almeno, un po' più furbi per difendere noi stessi,
le nostre cose, il nostro lavoro.
Quando, nel lontano 1947, mi presentai a Milano ad un concorso uno dei
titolari di cattedra, che sapeva tanta scienza ma ignorava dove fosse
Potenza, facente parte della commissione, appena si convinse che,
comunque, ero un « terrone », sbrigativamente ed anche poco civilmente,
mi disse: « Ma che cosa è venuto a fare, lei, qui... che cosa si aspetta
da noi... ».
Ma il Loschiavo, dopo una breve sviolinata alle fattezze fisiche, di
comportamento e di eleganza di donna Ada, cose a noi ben note, anche noi
abbiamo avuto occhi e cuore per ammirarla, ritorna al salotto « ...
rifugio anche per restaurare lo spirito, altrimenti intorpidito dalla
vita quotidiana in una città di provincia piccolissima ancorché
capoluogo di regione... ».
Insiste sul « salotto » in una città che non amava il salotto ma non
aveva nemmeno il tempo e la possibilità di pensare al « salotto »,
rifiutava il salotto, ritenendolo luogo di ozio, di comodità, di riposo,
il luogo « del dolce far niente », fra divani e poltrone, ma il
potentino, industre e laborioso, stette scomodo ed accettò la sua
scomodità, dignitosamente, io, gemello, non stetti comodo nemmeno
nell'utero materno, continuamente « scomodato » dalle bizze della
capricciosa sorellina. E, forse, proprio questa idiosincrasia dei
potentini per il salotto stimolò la fantasia di qualche satirico
bonaccione a mettere in giro l'allegra barzelletta o il malizioso
aneddoto sul « salotto della signora Ada ». Ma insiste ancora sulla
città, per cui viene logica la domanda se il Loschiavo venne a Potenza
per lavorare o per fare la vita galante e salottiera. Credo che nessuna
città o paese sia a misura del singolo individuo ed è logico e serio che
chi non sta bene se ne va: le recriminazioni sono inutili e le
maldicenze restano a chi le fa.
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