PARTE X
(continuazione 3)
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Un Prefetto
fascista e non di carriera, che fece, indubbiamente, del bene a Potenza
perché lo sentiva come dovere ed anche come piacere e non mi si venga a
dire, con la solita frase dei tempi, che corrono, che lo fece per
demagogia. Era un fascista di fede e convinto e pagò con la sua morte in
Russia, e in combattimento, la sua fede e le sue convinzioni. Aveva
tutta l'aria di essere, in fondo, un buono e, per le sue fattezze
fisiche, era anche un bell'uomo. Chissà quante signore se lo contesero o
sognarono di contenderselo, anche perché girava voce che fosse un « don
Giovanni ». Aveva una bella moglie e, in casa, un'altra donna,
ufficialmente, la cognata e, secondo la maldicenza, la sua amante. La
stessa maldicenza montò una sparatoria in casa del Prefetto, durante la
quale, l'Avenanti, colpì, con un colpo di pistola, di striscio, la
moglie, che si era ribellata a questo menage a due. Si disse, pure, che
uno dei due chirurghi, esercenti allora in città, aveva prestato, in
tutta segretezza, la sua opera. Episodio vero o fantasioso? Non ho dati
per confermarlo e gli attori, chiamati in causa, sono tutti nel mondo
dei giusti.
Secondo il giudizio dei competenti aveva una notevole cultura
amministrativa e non gli sfuggiva niente ma aveva anche una buona
cultura generale e lo dimostrò, senza ostentazione e senza retorica, nei
suoi discorsi, durante i quali sapeva essere anche brillante.
Amante della disciplina e del dovere non amò, certamente, i cosiddetti «
ma1-iapane a tradimento » specie quando i fannulloni e i perditempo
intralciavano il normale svolgimento delle cose a detrimento della
popolazione.
Un giorno, di buon mattino, vestito alla James Bond, con la sua
automobile, una « Spider » personale, si recò in un vicino paese e si
fermò davanti al Municipio, che trovò chiuso e con la gente in attesa.
Si intrufolò nel mucchio, per quanto nessuno lo conoscesse, e, facendo
finta di aver bisogno di qualche certificato, cominciò a rivolgere
domande. « Signore mio », gli rispose una donna, « Hai voglia d'aspettà
cumm' a nui... ca l'usciere face lu scarpare e quanne pote s' vene a
affaccià... lu segretario comunale tene la migliera ca face la maestra
'ncampagna e idde guarda r' criature.. e lu Pudestà s' guarda la 'rrobba
soia! ».
Aspettò ancora un'oretta, controllando che questa fosse la verità, e,
considerato che l'attesa si faceva lunga e inutile, chiamò un uomo e gli
disse: « Per piacere, vai dall'usciere, digli che c'è il Prefetto di
Potenza, fatti dare la chiave ed io sbrigherò tutte le vostre pratiche,
perché ho l'autorità di farlo ».
Le sue parole attraversarono il paese con la velocità del suono e
comparvero, trafelati e sconvolti, l'usciere e il segretario comunale ed
il Prefetto, senza scomporsi, con calma, ma con estrema decisione, prese
due fogli di carta, si rivolse all'usciere e disse: « Firmami le tue
dimissioni perché hai molto da fare come calzolaio e non puoi,
certamente, fare l'usciere del Comune » ed al segretario disse: «
Firmami che chiedi il trasferimento di urgenza a S. Martino d'Agri
perché non puoi stare più qui, infastidito, come sei dalla moglie e dai
figli, e, dopodomani, presentati al Podestà di quel Comune ».
Non si lasciò commuovere da promesse e piagnistei e il seguito fu come
aveva deciso.
Abuso di autorità? Oggi sarebbero comparsi manifesti sui muri a difesa
dei « poveri lavoratori », ribellione dei Sindacati, scioperi,
interpellanze alla Camera dei Deputati, allora non avvenne niente di
tutto questo e non perché non si difendesse il diritto del lavoratore ma
perché, con il diritto del lavoratore, si difendeva il buon andamento
dei servizi pubblici e il diritto degli utenti, che, tante volte,
vediamo calpestare.
Una mattina, alle dieci, il Prefetto aprì un rubinetto e non vi era una
goccia d'acqua. Mandò in giro per la città un agente di polizia per
constatare se la popolazione fosse stata avvisata, con regolare
manifesto, della interruzione di erogazione dell'acqua, dei motivi e del
periodo di interruzione. La norma era stata disattesa, allora, telefonò
al Comune, qualificandosi e chiedendo di parlare con l'addetto al
Servizio. L'impiegato, con saccenteria e molto sussiego, cominciò: « ...
Dovete sapere... la teoria dei vasi comunicanti... ». Ma non potette
continuare nella sua disquisizione di fisica perché il Prefetto
l'interruppe dicendogli: « Io non so niente dei vasi comunicanti... so
soltanto che non c'è acqua e che non è stato fatto avviso alla
popolazione.. venite subito in Prefettura... ». Quando fu al suo
cospetto lo trattò a « pezze da piedi » e, dirupandolo per le scale, gli
ingiunse: « Se entro dieci minuti non arriverà l'acqua finirete in
galera a completare la vostra cultura di fisica ».
Non solo l'acqua arrivò, e sotto violenta pressione, in meno di dieci
minuti ma non mancò mai più.
Si fece dei nemici? Certamente, ma non li temeva e non soltanto perché
aveva le spalle coperte dalla sua autorità. Gli mancò la soddisfazione
di vederli, dopo il 1945, a ostentare il loro «martirologio» nella lotta
ai primi posti nei partiti antifascisti.
Il comunismo dei fratelli Padovani è in tutte le cronache e le storie
della città di Potenza e non è solo verità, fatta di parole postume, ma
fu coraggiosa sostanza, che li onora. E' vero, altresì, che in ogni
festa nazionale, durante ogni visita di grandi gerarchi, venivano,
regolarmente, tenuti in camera di sicurezza. Erano persone per bene,
tenacemente fedeli al loro credo, composti, meno uno, che, spesso,
ubriaco, dava i numeri, diventando noioso ed anche molesto.
La cosa non sfuggì al Prefetto e, come al solito, risolse il problema
direttamente e responsabilmente.
Una sera, attese che il Padovani uscisse dalla cantina di « Peppe » a
San Michele, ridotto come sempre, e, prima che cominciasse a sbraitare,
magari, per via del vino, senza senso e senza costrutto, se lo prese
sottobraccio e se lo portò in Prefettura, dove aveva fatto provvedere
per farlo dormire.
L'indomani, a mente serena, si svolse il colloquio privato tra il
fascista Prefetto e il comunista povero travet e fu un colloquio molto
cordiale chiarificatore.
« Non desidero affatto — disse il Prefetto — che tu diventi fascista
perché saresti un pessimo fascista, ipocrita e insincero ed io ti
stimerei molto di meno. Non voglio importi le mie idee e la mia fede, ti
rispetto per quello che sei ma esigo da te, uomo d'onore, altrettanto
rispetto per le mie idee e la mia fede e per le idee e la fede degli
altri e tu ne sei capace. Non voglio vederti abbruttito dal vino, che ti
rende pietosamente ridicolo. Sono il Prefetto fascista ma sono,
innanzitutto, il Prefetto di Potenza e, quindi, di tutti i cittadini,
niuno escluso, desidero, allora, conoscere le tue angustie e le tue
difficoltà e sono pronto a darti, sinceramente e doverosamente, una
mano. Voglio esserti amico a patto, però, che sia un sentimento
reciproco ».
Questo raccontava,
in tutta onestà il Padovani, che aggiungeva: « Mai nessuno mi aveva
parlato così, ne fui commosso ma, nello stesso tempo, mi sentii
incoraggiato a raccontargli le mie sventure di perseguitato e di
disoccupato e che, ricorrevo al vino per dimenticare ».
Non aveva finito le sue confidenze che già era comparso nella stessa
stanza, dopo una breve telefonata del Prefetto, l'ingegnere capo della
Provincia, De Mascellis, a cui disse, educatamente ma perentoriamente, «
Da domani, l'amico Padovani, comincerà a dare la pittura nelle stanze
degli uffici, più mal ridotte, vogliate dare disposizione e far svuotare
gli ambienti ».
Padovani non divenne fascista, anzi, si sentì protetto nella sua fede,
forse, continuò a parlare male del Fascismo ma quando nominava, o si
nominava, il Prefetto Avenanti si toglieva il cappello.
Anche questo fu un atto demagogico? Una violenza fascista?
Direi, proprio, di no e saremmo grandi e generosi se riconoscessimo che
fu un atto di civile convivenza, di umana comprensione e solidarietà e
non per fare giustizia di un uomo, che non ebbe bisogno della nostra
giustizia ed ancora me-, no ne ha bisogno oggi, di un uomo che non
patrocinò, soltanto, la visita a Potenza dei grandi Gerarchi del Regime
e dello stesso Mussolini ma fu utile alla città ed alla Provincia.
Fu il solo? Ma non è vero perché come lui ci furono tanti altri e tanti
nostri Federali, di cui sarebbe bene che qualcuno, in tutta buona fede e
coscienza si occupasse, certo, anche del foggiano Di Mar-zio, che fece
tanto male alla città ed alla gente, con presunzione e guasconescamente,
ma per fare dei paragoni, per fare delle distinzioni, per ricavare
esempi, strumenti di meditazione, perché si sappia e perché su quelle
conoscenze si costruisca il buon futuro.
Spacconeggiava in Piazza Prefettura, con brevi distrazioni lungo la Via
Pretoria, indifferentemente se in direzione Piazza del Sedile o
Portasalza, nelle ore di affollamento il sedicente « Cavalier » Verdone.
Nessuno seppe mai la sua vera data di nascita, né il suo vero titolo di
studio, né la verità sul suo impiego. Al periodo dei miei ricordi,
credo, fosse sulla quarantina, di cultura molto modesta ed anche di
modeste possibilità economiche né, certo, era un Adone ma faceva di
tutto, il più delle volte cadendo nel ridicolo, per dimostrare di essere
giovane, ricco e bello. Si sforzava di essere diverso, per polarizzare,
su di lui, le attenzioni, particolarmente delle donne, anche nel
vestire, provava gusto che la gente si girasse per guardarlo anche se,
alcuni, si giravano ma solo per sfotterlo.
D'estate era in « paglietta tosta », alla Nino Taranto, con bastoncino
di bambù, che, con una certa grazia, faceva volteggiare nella mano
destra e viaggiare da una mano all'altra, giacca scura, pantaloni
bianchi, scarpe a doppia tinta, grossa cravatta a farfalla e d'inverno
con cappello semirigido e a larghe tese, cappottino scuro lungo fino al
ginocchio.
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Vittorio Emanuele III e il figlio al balcone della Prefettura
(1925). |
Non so se, oggi,
sarebbe stato catalogato fra i « play-boy o i latin-lover » e non so
nemmeno che cosa facesse alle donne o con le donne, è certo che gli
inchini erano più numerosi dei suoi passi, evidentemente la sua colonna
vertebrale doveva essere integra e ben flessibile. E gli inchini si
sprecavano specialmente quando non conosceva la donna ed era una sua
tecnica per preparare l'abbordaggio, quasi, come il gatto prepara la sua
aggressione al topo. La donna oggetto di inchini era, quasi, costretta a
girarsi e rigirarsi, per paura di aver commesso una gaffe con
conseguente brutta figura e, proprio, quello era il momento del Cavalier
Verdone per compiere la sua galante aggressione e le parole erano su per
giù le stesse « signorina... come state... da quando tempo non ci
vediamo... La signorina, esterrefatta, anche perché di quei tempi essere
fermata in Piazza Prefettura o in via Pretoria da un uomo non era esente
da critiche maldicenti, balbettava « ... ma io non vi conosco... vi
siete sbagliato... e quello ritornava alla carica... oh! Dio, mi sono
sbagliato... come mai... bè, comunque, è l'occasione per presentarmi...
sono il cavalier Verdone e per accompagnarvi... per offrirvi qualche
cosa... e così continuava nella sua logorrea vuota e sciocca, che il più
delle volte infastidiva e la donna faceva di tutto per allontanarlo, ma
qualche volta faceva anche centro. Parlava delle sue virtù come se
avesse inghiottito un disco e fra le sue virtù decantava la sua
grandezza di violinista. Il violino l'aveva ma come violinista era
veramente uno strazio. Una sera lo portammo con noi ad una contadinotta
festa nuziale e fu già un miracolo se riuscimmo ad uscire da quella casa
senza le ossa rotte e per la stalla mentre il Cavaliere si ostinava a
ripetere che era gente da poco e molto ignorante e che non aveva capito
niente della sua musica « classica e nobile ». Meno male che un nostro
compagno di avventura, approfittando del tafferuglio, passando per la
cucina, aveva rifilato dentro il fodero del violino un bel prosciutto,
che ci servì per lo spuntino di qualche sera ma, naturalmente, senza il
Cavaliere.
Cliente della Piazza e di qualche tratto di via Pretoria breve, anche
perché aveva la sua camera d'albergo di notte in via Cairoli, in uno di
quei finestrini a livello stradale del forno Calvi, caldo, quindi,
d'inverno, ma cliente assolutamente diverso dal Cavalier Verdone, fu il
povero « Sarachedda ». Ogni volta che l'incontravo mi faceva, ricordare
di un episodio della mia vita professionale. Dopo la visita, stavo
spiegando ad una donna di Ruoti la malattia, da cui era affetta, con
conseguente cura e la dieta da seguire allorché fui interrotto,
perentoriamente, con questa angosciata esclamazione « Travagli'...
pocch'... agg' nate a frieche... malata... muricine e pure senza
magnà... ». Ora, senza minimamente voler interferire sulla volontà e i
fini di Dio, ma Sarachedda era nato « a frieche fisicamente era
semplicemente un quadro pietoso, brutto, magro, allampanato, si potevano
contare le ossa senza fargli togliere quei quattro stracci che portava
addosso come vestiti, senza salute, tossicoloso, tutto curvo e sbilenco,
senza un soldo per povertà ereditata e per incapacità personale, fisica
e intellettiva, di poterseli procurare.
Viveva con qualche lavoro di facchinaggio leggero, perché altro non
poteva fare, con qualche atto di umana solidarietà, viveva per un grande
amore: la squadra di calcio di Potenza!
Non poteva e né doveva mancare al Campo Sportivo, dove, nervosissimo,
era sempre, in movimento, sfumacchiando sigarette, gridando, con quel
poco fiato che aveva in corpo, improperi all'arbitro, che, a suo
giudizio, sempre era ingiusto nei riguardi del Potenza, e tutti gli
arbitri erano la stessa cosa, e incitando i suoi beniamini con un grido
fatidico e rimasto « in memoria »: « Potenza all'attacco! ».
Credo che, ancora, Faluccio Sarachedda, la domenica, si giri e rigiri
nella tomba a gridare improperi agli arbitri e appassionati « Potenza
all'attacco ».
Forse, un esempio di come, il più delle volte, la felicità è fatta di
niente, per me, è il ricordo di un essere sventurato e che, anche se
attraverso la squadra di calcio, dimostrò, nei suoi limiti di capire e
di sentire sentimenti e passioni, amore ed attaccamento verso la sua
città, che, fra l'altro, non gli offriva né pane e né letto.
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2 giugno 1908, la festa dello Statuto, la sfilata
del 29° Reggimento Fanteria in Piazza Prefettura.
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Piazza
Prefettura di antica epoca: in fotografia le case di fronte al
Palazzo della Prefettura |
Più volte al
giorno e per una breve visitasi affacciava in Piazza Prefettura un
personaggio amato da uomini e donne, giovani e anziani, per la sua
venerabile età, sfottuto per la sua mania: don Arcangelo « Zaaglia ».
Era giovane (si fa per dire perché quello dei miei ricordi non aveva
meno di settant'anni) di farmacia e lavorava presso la Farmacia Dente,
era un uomo apparentemente normale ed anche curato nella persona e nel
vestire. Portava sempre, d'estate e d'inverno, un gilè con sei taschini
e in ognuno di questi taschini aveva un orologio: due Roskoff al primo
piano, due Omega al secondo, due Longines al terzo. Erano e dovevano
essere, guai a contraddirlo perché volavano maleparole e offese, i
migliori e i più precisi del Mondo .Arrivava in Piazza Prefettura e con
molta religiosità tirava dai taschini, uno per volta, gli orologi e li
raffrontava con l'orologio della Piazza. Ogni variazione era da
addebitare sempre all'orologio della Prefettura, che era « na friggiova
» perché i suoi erano infallibili. Chiedergli l'ora significava farlo
felice perché si dimostrava stima e fiducia nei suoi orologi.
L'origine, la provenienza, l'età degli orologi, penso, non fossero note
nemmeno al padrone, il quale, però, a richiesta, forniva una storia
lunga e confusa, in cui entrava anche la Svizzera, la Francia e le
Ferrovie dello Stato, ma che sarebbe un'impresa ricostruirla.
E ancora Michelino Pergola « Dal Mercato si dipanava la via
Portamendola, una spaccanapoli in diciottesimo che concludeva i suoi
contorcimenti presso la torre della gallina dalle uova d'oro ».
Un vicolo molto tortuoso, stretto, con qualche slargo, ogni tanto, per
respirare e per far respirare, un vicolo, però, ben noto ai Potentini di
tutte le epoche. Lascio agli storici o ai sedicenti tali di
accapigliarsi sulla esistenza o meno della porta, nei miei ricordi non
c'è mentre c'è la « torre della gallina dalle uova d'oro » e c'è anche
nelle mie immagini per la conoscenza e i commenti dei miei lettori.
Ricordo anche il rione di povere case, che confluivano al vico
Portamendola, prima della costruzione del grande palazzo dell'I.N.A.. Si
affacciava alla via del Popolo, la parallela alla via Pretoria, che
andava, come oggi, da Portasalza a sotto il Muraglione, sbucando proprio
di fronte alla scalinata che, dalla torre portava a Piazza 18 agosto
1860, che assunse particolare importanza durante il periodo fascista per
la presenza del monumento ai Caduti della Grande Guerra 1915-18 e,
perciò, fu meta di tutte le manifestazioni in onore « degli eroi della
Patria ».
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Portamendola |
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Uno slargo di
Portamendola.
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La maestra Vincenzina Sarli. |
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Il prof. Consuelo
Luccioni |
Il vico
Portamendola mi riporta a due ricordi, uno dell'infanzia e l'altro di
adulto e già medico.
L'attraversavo due volte al giorno, da bambino, per frequentare la
scuola elementare, intitolata a Rosa Maltoni, maestra e madre del Duce.
Ma il mio ricordo non è al Palazzo, alla sua storia, alle vicende legate
al bombardamento del settembre del 1943, che lo danneggiò notevolmente,
o all'ultimo terremoto, che pure si accanì contro, è un ricordo
patetico, sentimentale, affettuoso e doveroso, è il ricordo della mia
cara, mai dimenticata e indimenticabile, maestra Vincenzina Sarli. Non
perché mi presentò alla licenza elementare come « buono, bravo, accurato
nello studio, curato nei libri e nella persona, intelligente, diligente,
è il primo della classe, è l'esempio dei compagni » ma perché quello che
sono stato dopo, quello che sono ancora oggi, lo debbo tutto a lei. Ebbe
la virtù di insegnarci 'a leggere ed a scrivere, la pazienza di portarci
per mano, di capirci, di interpretare i nostri sentimenti, le nostre
tendenze, le nostre predilezioni, ebbe tanto amore nel crescerci sani
nella mente, nel cuore ed anche nel fisico.
Con la sua dolcezza infinita seppe modificare anche gli istinti cattivi
dei più riottosi e recalcitranti e riuscì, anche, a istradarli nella
vita. Grazie a lei siamo rimasti, nella vita, sempre i compagni
affettuosi e uniti come allora perché seppe inculcarci il rispetto per
noi, per gli altri, per i genitori, per il prossimo, per la nostra
terra, per la Patria. Non conservo solo le sue lettere e la sua
fotografia ma conservo, gelosamente, nel mio cuore, la sua immagine,
nelle orecchie le sue parole di maestra e di mamma, anche se mamma non
fu. Morì ultranovantenne e trascorse gli ultimi anni della sua vita a
Matera, fra i figliastri, che la venerarono, sposò, già anziana, il
vedovo Spera, pittore, uomo di notevole cultura, di grande serietà,
onestà e capacità.
Le feci visita più volte ed ogni volta mi teneva stretto fra le sue
braccia, chiamandomi ripetutamente « il mio Franceschino... ».
Un giorno le dissi che non ero più « Franceschino » ma un Francesco
fatto grande e lei mi rispose: « Certo, sei fatto grande, io sono
contenta ed orgogliosa, ma per me sei sempre il « mio Franceschino ».
Scadeva il cinquantesimo anniversario della nostra prima elementare ed
io mi vidi presentare nel mio studio i compagni di quella prima
elementare, che mi dissero « Vogliamo venire con te dalla " nostra "
maestra ». Fu una grande giornata, si ricordò di tutti e di tutte le
nostre famiglie, dei nostri compagni, che, purtroppo, non erano più in
vita, si commosse fino alle lagrime quando le consegnammo il nostro
omaggio, quasi balbettando « come siete buoni » ma buona, immensamente
buona era lei e solo lei. Ma non si commosse soltanto lei, asciugammo
qualche lagrimuccia anche noi, uomini maturi, ma uomini forgiati a
quella scuola di umanità e di grandezza di sentimenti.
Forse, qualcuno, leggendomi, potrebbe atteggiare il suo volto ad un
ironico sorriso, farfugliando che i tempi non sono più quelli. Non ho
difficoltà ad ammetterlo, ma, nello stesso tempo, ho la convinzione che
sono cambiati in peggio specie per quanto riguarda l'amore degli uomini
e fra gli uomini.
Via Roma, già Via del Popolo e nuovamente Via del Popolo, mi vide
continuamente anche da medico e per anni, perché prestavo la mia opera
presso la « Clinica Luccioni », sorta con un atto di vero coraggio, in
un periodo incerto e instabile, nel palazzo a fianco della scala
Rossano, in seguito trasferita, in un palazzo di nuova costruzione, più
grande e più funzionale, nella detestata e deprecata via Mazzini, che,
prima della Clinica, ancora oggi esistente e in piena attività, era una
via solitaria, per alberi, per qualche coppia di innamorati e per cani
randagi.
Fu, per quei tempi, non solo una novità per la città di Potenza, ma fu
una vera e propria conquista e si realizzò grazie alla volontà, la
tenacia, il sacrificio di un uomo solo: il prof. Consuelo Luccioni,
chirurgo e radiologo primario. Nel bene e nel male, superando, talvolta,
spigolature caratteriali, talvolta, incomprensioni o, semplicemente,
emotività, gli fui accanto, per lustri, con fedeltà, con affetto, con
stima profonda, con ammirazione. Ho dedicato a lui due monografie,
spontanee e sincere, che non vorrei fossero ritenute, soltanto, miei
ricordi personali o, peggio, attenzioni di circostanza, non ne ho saputo
mai fare, ma vorrei, mi si scusi la presunzione, fossero lette e
meditate anche in alte sedi, perché l'Uomo, il professionista, fu degno
della città, che lo'ospitò, e la nobilitò con la sua onestà, la sua
capacità, il suo zelante attaccamento al dovere professionale, il suo
galantuomismo. Elargì, con prodigalità e fino al sacrificio di se
stesso, i beni del suo intelletto, della sua scienza e della sua arte, e
si immolò, proprio come ogni buon soldato, sul campo di battaglia.
Dietro una lastra di marmo, nella cappella che egli volle per sé e per i
suoi, restano povere ceneri o, forse, niente per la naturale consunzione
della parte fragile e caduca dell'essere ma resta in città, in tutta la
terra di Basilicata, la fiamma, che è spirito e immagine dell'Uomo,
curiamo che non si spenga perché è un esempio per i presenti, una
speranza per il futuro.
Ma la Clinica di Via Roma non mi trascina solo al grande ricordo, anche
all'umile, all'infermiere Peppino Palmieri e, credo, di far piacere
anche allo spirito dello stesso Prof. Luccioni perché Peppino gli fu
fedelissimo, affettuoso, generoso.
Un signore distinto, intelligente, di una capacità professionale non
comune, ma, innanzitutto, fu di una sensibilità particolare verso i
sofferenti, verso gli ammalati, che curava, tecnicamente, con attenzione
e puntualità, moralmente, con il suo sorriso, la sua parola, la sua
presenza assidua e cortese. In servizio non era mai stanco, nonostante
l'anchilosi retta di un suo ginocchio, passava continuamente da una
stanza all'altra, da un letto all'altro, di giorno e, particolarmente,
di notte perché, nel sonno e inconsciamente, l'ammalato non commettesse
atti o movimenti contrari alla sua situazione.
Non aveva frequentato, certo, grandi scuole ma aveva un particolare e
innato fiuto medico, che aveva affinato guardando, chiedendo, meditando
perché aveva passione e perché sentiva, profondamente, la responsabilità
del mestiere delicato e impegnativo.
Svoltando l'angolo dell'Emporio Ricasoli, si entrava nel tratto di via
Pretoria, che portava a Portasalza e, poi, a Ciunnella, a Montereale ed
alle strade, che portavano alla periferia, che, in genere, era tutta
campagna coltivata, per lo più, a orto.
Ancora negozi, ancora gente, ancora vicoli e vicoletti, bassi, povertà,
era l'altro versante della città ma era sempre la stessa città.
Il negozio di Florio, il compare di tutti, Giugliano, poi Diana, le
scarpe di Torrio, Biagio Barra fu Stanislao, la fioraia Santarsiere,
mascheravano un po' l'ingresso al vico Sanfelice, a quello di Sant'
Rocchetiedd', di San Michele, di Giordano Bruno e, qui, mi fa obbligo
fermarmi per un personaggio tanto noto quanto caratteristico.
Nelle ore del mattino aveva il suo posto di lavoro in via Pretoria,
vicino al muro della Chiesa della S.S. Trinità, con la sua
cassetta-poggia-piedi e porta strumenti, cromatine varie, per tinta e
qualità, spazzole di varia grandezza, pezze scamosciate per il lucido
brillante e, per qualcuno, vi era anche il giornale del giorno.
Dopo-pranzo, a seconda della stagione e del periodo stagionale, cambiava
il mestiere e, in genere, il posto di lavoro non era più fisso, ma
mobile, non solo da un capo all'altro della via Pretoria, ma da un capo
all'altro della città, nelle periferie più lontane, nei vichi più
scordati.
Dal giugno al settembre era gelataio. Spingeva, a fatica, per il caldo,
il peso, la sua sgangherata, irrazionale, disarmonica, composizione
fisica, il suo bianco carrettino, con sirenoidi figure dipinte sui
fianchi, con l'ombrellino variopinto, aperto sulla bocca del contenitore
delle sue specialità, frutto della sua fantasia e delle sue provette
manipolazioni: il gelato al limone e, meglio ancora, « la fraulella »,
il gelato alla fragola. Di sera, sotto l'ombrellino, vi era anche la
luce.
Con la cassetta per lucidare le scarpe era in camice grigio scuro o
nero, con il carrettino dei gelati sfoggiava una giacchettina bianca con
un grembiulino, altrettanto bianco « che più bianco non si può ».
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