PARTE X
(continuazione 5)
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Casa di contadini a Montereale |
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Santa Maria |
E il ricordo dell'Angilla Vecchia non pu� essere disgiunto dal ricordo
del buon don Peppino Bellezza, il medico di campagna.
Passava davanti alla forgia di mio padre, a cui dava il suo gentile �
buon giorno Mast' Rocco �, puntuale tutte le mattine alle sei, con il
suo passo marziale, con la sua immancabile borsa-valigetta, d'inverno
coperto con il caratteristico pipistrello, con la barbetta brizzolata e
ben curata, che faceva da degna cornice al suo bel volto ed al suo
chiaro, sincero, simpatico, affettuoso sorriso.
Rispondeva calorosamente al saluto di tutti mentre andava veloce a
prendere il primo treno, che lo portava in mezzo ai suoi contadini.
Scendeva alla prima stazione, Tiera, o alla seconda, Avigliano Scalo, e,
poi, a piedi, s'inerpicava per sentieri impossibili per raggiungere
misere casupole lontane, dove malati bisognosi
e familiari in ansia l'attendevano. Questo per tutta la giornata e non
era mai stanco, vi era per tutti e per tutti aveva pronto l'aiuto della
sua arte e della sua scienza ed il conforto della sua parola buona e
cordiale. Rientrava con l'ultimo treno della sera, forse affaticato ma
sul suo volto si leggeva la gioia per il dovere compiuto, la
soddisfazione di un'altra missione portata a termine, il piacere di un
altro sacrificio superato in nome e per conto dell'umanit� sofferente.
Una intera giornata trascorsa fra i contadini, fra i poveri e derelitti,
un'intera giornata trascorsa fra proprie sofferenze e sofferenze altrui
ma per lui era sempre una giornata come le altre passate, una giornata
come tante ancora da venire, una piccola parte, insomma,
dell'appassionante e continua lotta contro le malattie fisiche e morali,
contro i disagi ambientali e climatici, contro la scarsezza dei mezzi a
disposizione e la grande povert� dei contadini, contro il pi� retrogrado
empirismo e le superstizioni.
Che cosa aveva mangiato, don Peppino? Forse, una colazione semplice in
marcia di trasferimento da un casolare all'altro, o un nuovo fritto o un
pezzo di salsiccia in mezzo ai suoi contadini.
Quanto aveva guadagnato? Forse, pochi spiccioli e, forse, niente e
soltanto il modesto stipendio, che gli passava il Comune, ma aveva
guadagnato tanto e quello che non guadagnano i medici di oggi: stima,
affetto, venerazione.
Ricordo la villa Comunale ma in verit� non avevamo nemmeno il tempo per
praticarla e ricordo anche la Caserma sempre piena di soldatini ma ci
passavo sempre alla larga perch� le armi mi hanno fatto sempre paura e,
dentro, non ci andai mai, anche se mio padre era il maniscalco di
fiducia.
Ricordo la Chiesa di Santa Maria con l'antistante piazza, ombreggiata da
due immensi e superbi olmi, e la presenza di una baracca
cantina-osteria. Ma ricordo, soprattutto, il nostro parroco: don Michele
Padula, ed �, anche questo, un caro ricordo perch� gli fui al fianco per
diversi anni, chierichetto ed amico.
Qualche anno fa, presentai questo racconto, che mi piace riportare
integralmente, dal titolo � Non tutti i Santi sono in Paradiso �: C'era
una volta... no... visse tanti anni fa... e, s�, perch� visse ed oper� a
Potenza... il semplice, buono, vecchio don Michele, il sacerdote, medico
generoso e custode geloso delle nostre anime, uomo retto perch� umano,
anima grande perch� pia e candida.
� Io, la povert�, la Chiesa � era solito dire.
Nell'Io vi era tutta la sua maestosa personalit� di uomo intelligente e
colto, di spirito eletto.
Era un semplice e viveva una vita assai semplice. La sua modestissima
casa, nuda e disadorna, era l'esatta e sincera espressione delle
possibilit� economiche del padrone e nello stesso tempo era
l'espressione della meditazione e della preghiera, in cui si rifugiava
il sacerdote.
La sua governante era la � Gallinella �, come egli la chiamava, una
buona, vecchia nana, alta meno di un metro, che appena riusciva,
servendosi di una scaletta, a fare le comuni pulizie ed a preparare un
boccone di mangiare.
Ma che cosa mangiava, don Michele? Per lo pi� un piatto di verdura, nei
giorni festivi un piatto di maccheroni, conditi con aglio e olio,
raramente un po' di carne, sempre pane e cipolla ed un buon bicchiere di
vino.
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I suoi proventi
erano assai scarsi ma non si lamentava.
� Ho il necessario � egli diceva � e ringrazio Iddio che mi d� la
possibilit� di vivere �.
Quando gli avanzava qualche soldo, proprio qualche soldo perch� allora
il benessere economico si valutava a soldi e a centesimi, ne faceva
elemosina. Aveva sempre in tasca confetti, i famosi cannellini, e le
giuggiole per i bimbi della sua chiesa.
Entrava in tutte le case, nelle pi� povere anche qualche volta in pi�,
ed era proprio in quelle case, magari con tanti bambini, dove egli si
fermava a dividere quello che la povert� poteva offrire ed a dispensare,
con la carezza e la buona parola, i beni del suo animo e del suo sapere.
Con la sua aria distratta capiva tutto e tutti e per tutto e per tutti
egli aveva pronto il conforto ed il consiglio. Egli, solo e povero, si
compiaceva dei progressi degli altri e gioiva della gioia degli altri.
I contadini occupavano un posto particolare nel suo cuore. Nei mesi,
dopo Pasqua, e fino a settembre, raggiungeva a piedi le pi� lontane
casupole per portare a quelle anime abbandonate il conforto della sua
presenza e della sua parola e la santa benedizione. Si faceva
accompagnare dai ragazzi del suo cuore, che portavano l'acquasantiera e
il paniere e, quando si rientrava, talvolta anche a sera inoltrata,
divideva e soldi e uova con tutti e ai pi� bisognosi donava sempre di
pi�.
Come l'amavano quei contadini! L'amavano perch� lo sentivano tanto
vicino, l'amavano perch� egli era un semplice come loro, gioivano quando
lo vedevano seduto alla loro cassapanca a mangiare con loro un pezzo di
focaccia calda e un Po' di formaggio pecorino. Gioivano perch� si
sentivano protetti da quell'uomo, apparentemente modesto e trasandato ma
straordinario; gioivano perch� quel vecchio sacerdote aveva portato loro
il flusso della sua grande bont� insieme alla benedizione del Signore;
gioivano perch� aveva benedetto i loro figliuoli, le loro terre, i loro
armenti.
Aspettavano in mezzo alla strada il loro � buon Pastore � e lo
accompagnavano, quasi in processione, attraverso i campi, per le �
cuntagnuole �, che si inerpicavano severe, fino alle loro casupole.
Ma che cosa diceva don Michele ai suoi fedeli per farsi tanto amare?
Parlava, veramente, poco ma parlava con il suo cuore, parlava con i suoi
gesti paterni ed affettuosi parlava con il suo spirito di amore e
riceveva amore.
Grandi e piccini accorrevano intorno a lui perch� nella sua figura, nei
suoi gesti, nella sua vita esteriore ed interiore, riconoscevano il
martire e l'asceta della fede cristiana ed egli era, indiscutibilmente
convinzione e propaganda della vera fede.
� A che serve � diceva � predicare dal pulpito la bont�, la pazienza, la
fratellanza, l'amore? Non basta predicare le virt� ma bisogna
esercitarle e per esercitarle � necessario il contatto con la gente, per
convincersi e per convincere �.
Ecco perch� camminava sempre a piedi e non correva, non andava mai di
fretta perch� aveva bisogno della gente, sentiva la necessit� di
incontrare la gente, di parlare con la gente, di rivolgere insieme la
parola al Redentore, a Maria, Madre Santissima e Consolatrice di tutte
le pene.
Camminava nel fango e nella neve, con il vento o la pioggia o il sole
sferzante dell'estate, con il suo � compagno �, un piccolo cane
bastardo, dal pelo fulvo, di quelli che, a quei tempi, si vedevano fare
acrobazie sui carretti da trasporto o fra le gambe dei muli, e camminava
sognando una societ� di credenti nei pi� alti valori della vita terrena
e nell'eternit� e santit� di quella ultraterrena.
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Piazza XVIII Agosto: era bella anche cos�. |
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� Nei momenti di
maggiore disperazione � diceva � rivolgete uno sguardo al Cristo sulla
Croce ed il vostro calvario vi sembrer� pi� leggero �.
Qui in terra nessuno ricorda don Michele... e in Paradiso?... nessuno lo
conosce! �.
Cos� concludeva il racconto, lasciando il giudizio ai lettori, e potrei
concludere, qui, anche io, questa passeggiata per Potenza � nei ricordi
e nelle immagini � anche perch� da qui sono partito per la vita. Ma a
Santa Maria non ho trascorso soltanto la mia infanzia e non ho abitato
solo all'Angilla Vecchia.
Dopo la morte di mio padre, avvenuta il 1929, riuscimmo ad avere
un'abitazione nel rione � Manicomio �, gi� abitato da impiegati dello
Stato e del Parastato, per lo pi�, comunque, gente diversa da quella con
cui avevamo avuto rapporti in precedenza.
Eravamo all'ingresso del rione e questo ci consentiva di controllare la
sfilata, in uscita al mattino, prima delle otto, in entrata dalle
quattordici alle quattordici e trenta, di tutti i nostri rionali, che si
recavano o tornavano dal lavoro. Avremmo potuto fare a meno
dell'orologio perch� la sfilata aveva un ritmo cronometrico e sempre lo
stesso e con le stesse persone.
Dalla diligenza eravamo passati all'autobus ma tutti salivano in citt� a
piedi: faceva bene alla tasca ma anche alla salute.
Non c'erano automobili, era un lusso eccezionale, avevamo qualche
bicicletta ma non sentivamo la necessit� del mezzo, forse, perch�
eravamo, veramente, pi� dotati fisicamente, qualche volta facevamo
l'andata e ritorno anche tre volte nella stessa giornata.
Quando vedo, oggi, giovani gettati in automobile per tratti, magari,
anche pi� brevi mi viene quasi voglia di strapazzarli e di gettarli
sulla strada. Con noi giovani salivano in citt� anche anziani e vecchi,
salivano pi� lentamente, si aiutavano con il bastone, ma salivano.
Quando c'era la neve, e ne faceva sempre tanta, a salire per San
Giovanni e per San Gerardo era difficoltoso ma c'eravamo noi giovani
pronti a dare una mano, ed allora si usava aiutare i vecchi e gli
anziani e quanti si fossero trovati in difficolt�. Era l'educazione che
ci inculcavano in casa e a scuola ma lo sentivamo, noi stessi, come un
dovere.
Anche noi di Santa Maria avevamo un soggetto particolare. Aveva scelto
la sua dimora nel tunnel della via Appia, dove fu sistemato, poi, il �
Covo degli Arditi � con i cimeli (forse anche fasulli) della guerra e
della rivoluzione, e, qualche volta, nel pomeriggio del sabato fascista,
con la guardia armata, ma a fucili scarichi, di vecchi arditi mentre
noi, agli ordini del caposquadra Mininni, ci sprecavamo nella istruzione
premilitare, fatta di un�du�, di dietro-front, fianco destro e sinistro
e per i pi� zul� c'era � con il pilo e senza il pilo � perch� il
caposquadra aveva provveduto a far attaccare sul piede destro una specie
di striscia pelosa e il dietro-front veniva eseguito quando egli gridava
� di culo a San Francesco � perch� pi� o meno cos� � il culo � risultava
orientato verso la Chiesa di San Francesco.
Dunque, � meglio dire vi abit� un certo Donato, senza famiglia e senza
beni di fortuna ma con tanta voglia di vivere.
Si cucinava da solo e tutti i prodotti della terra, in genere, erbe e
verdure, e portava sotto il naso un salsicciotto, di che cosa fosse
riempito nessuno lo seppe, tenuto fermo da dei lacci legati in testa,
cos� come i pirati si legavano la benda di un occhio.
Il salsicciotto di Donato, per�, aveva un altro scopo ed era quello, a
suo dire, di filtrare l'aria che respirava, cattiva ed inquinata. Fu un
precursore degli ecologisti e, meno male che visse allora, di questi
tempi se ne sarebbe fatta una croce e sarebbe morto disperato.
Il Rione ebbe uno sviluppo graduale ed acquist�, a mano a mano,
importanza. La presenza del Macello Pubblico, dove sono ora le Suore
Canossiane, e poco distante una fabbrica di Ghiaccio e Gassose, di don
Peppino Gallucci, la Scuola Industriale, poi, la Scuola Elementare, la
presenza del Comando della Legione della M.V.S.N., del Museo
Provinciale, dove vi passava il suo tempo libero e i suoi giorni festivi
Concetto Valente, il Direttore. Un uomo serio e taciturno, a guardarlo
sembrava una figura stracciata dai testi di storia latina o greca,
impiegato postale come professione principale, ma uno studioso,
competente, appassionato di arte, di antichit�, di archeologia, in
genere, e della nostra terra, in particolare.
Ha lasciato scritti, a giudizio dei tecnici, di notevole importanza.
Ma il rione ebbe la sua prima grande spinta con la Clinica � Remigia
Gianturco � e, poi, con il primo e grande Ospedale.
Fu anche una spinta economica perch�, per la presenza dei familiari dei
malati, fior� anche la piccola industria del posto di ristoro.
Nel Rione crebbi con gli altri compagni della mia et�, insieme, anche
se, qualche differenza di rango e di condizione, vi era.
Crebbi con quella giovent�, volenterosa e generosa, nel rispetto, nel
dovere, nell'ansia di diventare qualcuno per essere sufficienti a se
stessi e utili agli altri, non avemmo molta fortuna, gli eventi storici
e politici furono contro di noi. Abbiamo pagato tutti, senza colpa,
qualcuno ha pagato con la vita, e questi ricordi, vorrei, fossero anche,
un augurio per pi� belle fortune dei nostri figli, della nostra gente,
della nostra terra.
E ai figli li ho dedicati, ai figli miei, ai figli tutti perch� li
leggano, meditando, e sull'esempio di quei � morti che sono vivi �
costruiscano il loro domani, in dignit� e degnit�, nella pace, nella
giustizia, nel lavoro, nell'esaltazione delle virt� morali e spirituali.
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