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POESIE di Salvatore Fittipaldi


          
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97 Consolazione a Helvia

(variazione su: Consolazione alla madre-Seneca)


I)
Mi sono incontrato subito, con lui: prima l’ho assecondato, in un rapporto in qualche modo preliminare, astrattamente e accanitamente preparatorio a un dolore più vivo, più sostanziale
di cui, a un certo punto, ho cominciato a sentire, quasi fisicamente, dentro l’anima, la mancanza, a desiderare l’intendimento di andargli incontro di più e provare la gioia che arriva tramite l’amore del dolore: ed ho compiuto il compito, senza misura, dell’anima fedele che non sa cosa dire, cosa fare davanti ad un dolore che mostra la sua sovranità, la sovrabbondanza di tormento sulla ruota dell’insaziabile ripetizione: per questa opera d’amore ho messo in opera le sottili, e un poco patetiche, risorse della poesia: le uniche che avevo e che sempre si ostinano a parlare stretto ma che pretendono di allontanare i fumi densi e pigri dell’inutile sofferenza: ho avuto le parole dell’anima, le uniche che potevano dare l’immagine della mia presenza, la forma del mio mondo rovesciato delle mie miserie, angustie e limitazioni del corpo e della carne: e per irregolari e limitate che siano state, inquietanti anche, non lo sono state mai, comunque, a specchio di realtà nascoste, di secondi fini: mi sono state belle per conto loro, per la loro affermazione di alterità, di altro del mondo, per la loro vocazione ad esistere, a resistere nella visibilmente presenza del dolore: sono la mia presenza, la presenza del pensiero, nel senso proprio di mente e non di pensamento, solamente.



II)
Il pensiero non si chiede perchè non concede sostanza e realtà alla conversione del dolore per farlo diventare canto, tradurlo nel linguaggio che assomiglia all’esistente:
non se lo chiede, per questo resta fuori: non può entrare e uscire a suo piacere: non se lo chiede perché il dolore non si ama solo la domenica, perché il pensiero è egli stesso, spesso, anonimo, un pensiero qualunque, sebbene trasparente e unico: non aggiunge il proprio nome alla sofferenza, ma cancella, se mai, ogni altro nome, con la sua anonima presenza, con il suo insignificante sguardo, al quale il dolore si affaccia in lontananza:
povero illuso di poter essere il possibile, ogni volta, ad ogni occasione: povero sciocco che non si chiede se il dolore abbisogna d’altro, altre attenzioni, altre persone, qualcosa d’altro che l’appartenere al semplice pensiero:
i dubbi della mezzanotte sono qua, dentro il pensiero che sente di morire nella sua certezza, nella sua vuota esaltazione:
si ucciderebbe: ucciderebbe la sua pretesa di salvazione: e ucciderebbe il dolore, ignorando la sua esistenza, solamente.




III)
Misero pensiero, non si fida nemmeno di se stesso, non crede al moto del suo stesso movimento:
contempla se medesimo e si annulla davanti allo specchio della nullità: non si oltrepassa per andare più lontano: è tale l’apparenza:
dietro quell’incertezza, dietro quel sottrarsi ad ogni certezza, alla certezza del talento che gli è proprio , si cela l’esperienza infinita di ciò che non deve nemmeno essere cercato, la prova di ciò che non va provato:
ebbene sì: quando ha il piglio giusto, quello che è suo, che rasenta proprio la follia, quando non è azione, con inaspettata medianica grandezza, avvolto nella solitudine, quasi dentro la sua sordità, nella disfatta dei suoi stessi sensi, diventa creazione, il mormorio dell’anima che non può smettere di lavorare in quello stato disperato di pensiero vivo che lavora.


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