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Isabella Morra


           
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Rime XII

Signor, che insino a qui, tua gran mercede,
con questa vista mia caduca e frale
spregiar m’hai fatto ogni beltà mortale,
fammi di tanto ben per grazia erede
che sempre ami te sol con pura fede
e spregiar per innanzi ogni altro oggetto,
con sì verace affetto,
ch’ognun m’additi per tua fida amante
in questo mondo errante,
ch’altro non è, senza il tu’ amor celeste,
ch’un procelloso mar pien di tempeste.
Signor, che di tua man fattura sei,
ov’ogni ingegno s’affatica in vano,
ritrarre in versi il tuo bel volto umano,
or sol per disfogare i desir miei,
ed altri no, ma a me sola vorrei,
ed iscolpirmi il tuo celeste velo,
qual fu quando dal Cielo
scendesti ad abitar la bassa terra
ed a tor l’uom di guerra.
Questa grazia, Signor, mi sia concessa
ch’io mostri col mio stil te e me stessa.
Signor, nel piano spazio di tua fronte
la bellezza del Ciel tutta scolpita
si scorge, e con giustizia insieme unita
de l’alta tua pietade il vivo fonte,
e le pie voglie a perdonarci pronte.
Ombre dei lumi venerandi e sacri,
di Dio bei simulacri,
ciglia, del cor fenestre, onde si mostra
l’alma salute nostra:
occhi che date al sol la vera luce,
che per voi soli a noi chiara riluce!
Signor, cogli occhi tuoi pien di salute
consoli i buoni cd ammonisci i rei
a darsi in colpa di lor falli rei;
in lor s’impara che cosa è virtute.
O mia e tutte l’altre lingue mute,
perché non dite ancor de’ suoi capelli,
tanto del sol più belli
quanto è più bello e chiaro egli del Sole?
O chiome uniche e sole,
che, vibrando dal capo insino al collo,
di nuova luce se ne adorna Apollo!
Signor, da questa tua divina bocca
di perle e di rubini, escon di fore
dolci parole c’ogni afflitto core
sgombran di duolo e sol piacer vi fiocca
e di letizia eterna ogniun trabocca.
Guance di fior celesti adorne, e piane
a le speranze umane;
corpo in cui si rinchiuse il Cielo e Dio,
a te consacro il mio:
la mente mia qual fu la tua statura
con gli occhi interni già scorge e misura.
Signor, le mani tue non dirò belle
per non scemar col nome lor beltade;
mani, che molto innanzi ad ogni etade
ci fabricar la luna, il sol, le stelle:
se queste chiare son, quai sarann elle?
Felice terra, in cui le sacre piante
stampar tant’orme sante!
A la vaghezza del tuo bianco piede
il Ciel s’inchina e cede.
Felice lei, che con l’aurate chiome
le cinse e si scarcò de l’aspre some!
Canzon, quanto sei folle,
poi che nel mar de la beltà di Dio
con sì caldo desio
credesti entrare! Or c’hai ‘l cammin smarrito
réstati fuor, ché non ne vedi ‘l lito.


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