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Chiaro inusuale - 02

In ciascuno di noi da qualche parte, nel profondo dell’inconscio o in qualche altra parte, magari nell’anima, vive un gabbiano con l’istinto di libertà e di equilibrio.
Io, in quel periodo, mi sentivo gabbiano.
Sentirsi gabbiano era, per me, il desiderio e bisogno di ritrovare una dimensione propria e una serenità che avevo perso da qualche tempo.
Mi ero ritirato in una dimensione talmente intima che negavo ogni altra. Vivevo e, apparentemente, partecipavo a tutto quello che accadeva intorno ma lo facevo con estremo distacco.
Era l’unica dimensione che mi era possibile vivere in quel periodo, in quanto ogni altra comportava dolore, sofferenza insopportabile.
Il gabbiano era la mia dimensione ideale.
Proprio come un gabbiano cercavo di non vacillare perché, proprio come lui, vivevo una dimensione di volo e sentivo che scomporsi in volo, stallare, fosse una vergogna, un disonore, arrendersi e dichiararmi vinto.
Vivevo così perché era il mio unico modo e la mia sola maniera di vivere; più che una scelta era un’esigenza, un bisogno che, però, comportava essere e sentirsi solo, solo al mondo. Soffrivo così, dolcemente, come quando si soffre per un amore che ci ha tradito o abbandonato.
La sola emozione che sentivo e che non mi metteva ansia era quell’assenza d’emozioni, quello stato cosciente e distaccato, quell’essere lontano e distante da ogni cosa e da tutti.
Quell’esistenza distaccata anche da me stesso.
La sola cultura che contava era quella che avevo creato da solo, autonomamente e che andava oltre ogni bisogno. Il mio unico bisogno era proprio quel non avere bisogni, quel rifiutare e ignorare tutto e tutti sino a non sentire alcun bisogno. Mi comportavo come se non esistessi e, quel non esserci, era la mia unica maniera di rimanere a galla; ogni altra sarebbe stata insopportabile e insostenibile.
Non esisteva, tra l’altro, nessun uomo e nessuna donna al mondo capace di aiutarmi o insegnarmi quello che mi era necessario.
Questo pensavo, di questo ero certo.
Se avessi pensato che tale persona potesse esistere e avessi saputo dove questa viveva, sarei partito immediatamente per incontrarla.
Avevo bisogno solo di una persona capace d’aiutarmi veramente ma sapevo anche che questa persona non esisteva o, se esisteva, viveva in un posto lontano e inaccessibile per me per cui avevo semplicemente deciso di azzerare ogni cosa e, per farlo, avevo azzerato me stesso.
Quel mio essere, quel mio sentirmi comunque m’insegnò tantissime cose che poi si sono rivelate molto utili sino a oggi.
Prima di tutto che si può piantare tutto in asso, che si può smettere di fare ogni cosa, praticamente tutto. Quello stato d’immobilità sensoriale e corporale m’insegnò che si può smettere di fare tante cose se non ci va più di farle, che non esiste, inoltre, un problema così grande che non si possa sfuggire e che la libertà e la felicità non sono fuori ma dentro di noi e che, se vogliamo essere felici e liberi possiamo esserlo.
Basta volerlo e possiamo essere quello che vogliamo. Possiamo persino essere noi stessi, se lo desideriamo e lo vogliamo veramente.
Bisogna comportarsi come se ci appartenessimo e io m’appartenevo tantissimo, m’appartenevo completamente, ero parte di me.
M’appartenevo così tanto al punto da annullarmi completamente e, con me, azzerare ogni bisogno, ogni esigenza fisica e mentale.
Avevo ritrovato l’anima e me stesso proprio nel momento in cui credevo d’averla persa completamente e essermi perso. Avevo costruito una prospettiva tutta mia, l’unica possibile, l’unica che mi consentiva di ritrovarmi e trovare una dimensione ideale al mio stato fisico, psicologico e mentale. Avevo dimenticato tutte le convinzioni di cui, in verità, avevo sempre dubitato e avevo iniziato a pensare, a credere e a sapere che tutto ciò che accadeva intorno a me non era la realtà. I miei pensieri, in quel periodo, vagavano liberi come cavalli in una sterminata prateria ed erano diventati lucidi, coscienti, auto propositivi.
Ricordavo da dove ero venuto, dove stavo andando e perché avevo creato il disastro nel quale mi ero cacciato.
Quei pensieri mi prospettavano l’ipotesi di una morte orribile e mi suggerivano di continuare a ricordarlo.
Mi confortavano, inoltre, convincendomi che, ogni cosa, non è che il frutto di un valido allenamento e che lo si può apprezzare tanto più quanto più si riesce a tenere presente i fatti per quelli che sono. In uno stato così interiore, così introspettivo è possibile accettare anche la propria morte con una certa serenità. In quel travagliato e difficile periodo, cosa strana e incomprensibile a chi non ha ancora avuto il bisogno di conoscerlo, ci si ritrova in una condizione di assoluta serenità e sufficienza. È un po’ come colui che ride andando verso la propria morte, il condannato che ride mentre lo accompagnano a farsi giustiziare. Solitamente non è compreso dalle forme meno progredite di vita, che lo considerano semplicemente pazzo. Tra le altre scoperte straordinarie che quel periodo doloroso, ma anche più tranquillo, razionale e, senza dubbio, sereno che io abbia mai vissuto mi ha regalato, c’è la scoperta che imparare non significa niente altro che scoprire le cose che, in verità, già sai. Farle significa dimostrare che le sai, tutto qui. Insegnare è ricordare agli altri che sanno altrettante cose quante te. Siamo tutti quanti, nessuno escluso, allievi, praticanti e maestri. Una convinzione, che ho maturato grazie proprio a quello stato e che mi è rimasta dentro al punto da non volerla mai più dimenticare né contraddire, è che il dovere di ogni essere è quello di essere fedeli solo a se stessi. Essere fedeli a qualsiasi altra cosa, non soltanto è impossibile ma è anche inutile e ingiusta.




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