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Frammenti - 03 - Solo meno veloci e più bianche

Adoro osservare il cielo di sera, di notte e di giorno.
Lo faccio da sempre e, nonostante questo piacere sia diventato ormai un’abitudine, provo ancora la stessa emozione e dolcezza della prima volta.
Oggi in questo cielo azzurro e denso ci sono tantissime nuvole che si muovono lentamente, in contrasto con altre che sembrano ferme ma che ai miei occhi non mentono.
Sono solo meno veloci e più bianche.

Giornata speciale questa, terribile. Eppure tanto vera ed essenziale.
Ho incontrato l’unico amico che ho mai avuto e che posso ritenere tale.
Era su un freddo tavolo dell’obitorio comunale. Morto stecchito, pallido, gelido e irriconoscibile.
Sebbene l’avessi riconosciuto e sapessi di lui molto alla polizia ho detto di non conoscerlo, di non sapere chi fosse.
L’hanno ritrovato una settimana fa in un canale tra il fiume Pangaro e l’unica distilleria di rum della città, a mezzo miglio dal porto.
Aveva sei pallottole in corpo e numerose ferite d’armi da taglio sul corpo, alcune scenografiche e traumatiche alla vista ma nessun documento.
Nessuno sapeva chi fosse e saputo dire come si chiamasse; se avesse un nome, una famiglia, un lavoro o una dimora fissa.
Così l’hanno messo in un frigorifero e, la foto, sul giornale, sperando che qualcuno lo riconoscesse e potesse dare qualche informazione prima di seppellirlo come sconosciuto in un angolo del cimitero, in mezzo agli altri, da qualche parte.

Sono depresso ma favorevolmente compiaciuto d’essere riuscito a tacere. Non ho svelato quelle cose di lui che conosco e che, sicuramente, lui non avrebbe preferito far conoscere agli altri.

Era un tizio riservato, per me il più buono e il più sincero che esistesse al mondo: l’adoravo.
Parlava poco, mi guardava e sorrideva molto.

Provo a ricordarlo per quanto e come lo conoscevo, per quanto e come l’amavo.
Con lui e per lui avrei, sono stato, sarei stato e sarei capace di fare questo e molto altro.

Scrivo di lui, per lui.
Per l’amicizia, quella vera che, a tratti, vince l’ipocrisia, la cattiveria e la miseria dell’esistenza dando senso a quest’esistenza, alla coesistenza e al condividere emozioni e momenti in sincerità, al piacere e alla felicità di vivere insieme i momenti di questa vita e di questa nostra inspiegabile esistenza. Per quanto banale, strana, solitaria e triste.

Stava arrivando alla soglia della mezza età e, in quel periodo, viveva con la sua famiglia in una casa in condominio nella città di Berlonti, in via del Campo, 18.
Palazzina B, scala A, terzo piano, senza ascensore.

Lo vedevo ogni tanto, troppo poco per quanto stavamo bene insieme ma abbastanza per apprezzarne le doti e le indubbie qualità d’uomo, amico e fratello.
Ogni sera si sedeva sulla sua sedia a dondolo, accanto alla finestra del soggiorno e fumava un sigaro intero mentre sua moglie si asciugava col grembiule le mani rosse dopo aver lavato i piatti e, felice, gli raccontava le novità sui loro figli e sulla giornata appena trascorsa.
I suoi bambini conoscevano il suo sguardo e la sua dolcezza. Sicuramente avevano imparato ad amare le sue gambe, il pizzicare della sua barba incolta sulle loro guance ma non sapevano come il loro babbo si guadagnasse da vivere né perché cambiassero casa e città tanto spesso.
Del padre non conoscevano neanche il nome, lo chiamavano papà e basta.
Secondo il registro del comune di quella città era il signor Tommaso Attorre, sposato, con figli.
Un uomo comune, come tanti.

Da qualche tempo andava ovunque senza farsi notare e riconoscere e, da quando era in questa città, pranzava quasi sempre con un negoziante della ventiquattresima strada in una trattoria in via dei Ligustri.
A lui s’era presentato come commesso viaggiatore per una ditta di aspirapolvere.
Pasti frugali, primo con pesce; secondo ogni tanto. Caffè e qualche volta frutta. Arance se c’erano, altrimenti di stagione. Fresca, se possibile.

Uomo ricco e agiato. Dalle maniere semplici.
Questo aveva mostrato senza ipocrisia, quello che era in realtà anche se, di soldi, non ne aveva mai avuti tanti o troppi.

Aveva due fori da proiettile mai del tutto guariti, uno nel petto e l’altro nella coscia e gli mancava l’estremità del mignolo della mano sinistra.
Non mi aveva mia detto perché e in quale occasione se l’era procurati e io ero riuscito a non chiederglielo mai. Sapevo che non amava parlarne.
Era sempre molto attento a celare le sue emozioni anche se quand’era con me riuscivo non solo a sentirle ma anche a condividerle.
Soffriva di un’infiammazione agli occhi che lo costringeva a strizzare le palpebre più del normale come se il creato per lui fosse una visione troppo intensa.
So che non era solo per questo motivo.
In realtà, come me adorava e si meravigliava dell’intero creato di fronte al quale riusciva a riconoscere e ad ammettere la sua pochezza.
Quand’ero con lui tutto era speciale e diverso.
Le stanze sembravano riscaldarsi, la pioggia sembrava calare d’intensità e gli orologi sembravano rallentare.
I suoni sembravano amplificati o ovattati, a seconda della circostanza.
Si considerava di sinistra e guerrigliero di una guerra civile mai terminata anche se condivideva alcune opinioni tipiche dei razzisti come la naturale diffidenza verso gli extra comunitari e l’avversione verso i comunisti e l’anarchia ma a lui si poteva e si riusciva a perdonare tutto.
Conosceva solo in parte le mie idee ma riusciva a tollerarle e, la sua maniera d’essere, consolidava e rafforzava il nostro rapporto.
Se fosse stato una donna o io un gay me ne sarei innamorato, ne sono sicuro.
Non essendolo non potevamo non essere quelli che siamo stati, siamo e saremo per sempre: amici, fratelli e, sicuramente, molto di più.
Gli volevo bene. E lui anche, forse anche di più.
Di una sola cosa sono rimasto distaccato e distante. Non provava rammarico per le rapine e per i venti omicidi che rivendicava.
Una volta mi raccontò di questa cosa e poi la negò e mi chiese di scegliere la versione che preferivo ma di non giudicarlo e mutare il nostro rapporto.

Ho sempre pensato e temuto che fosse un killer, di quelli che uccidono sconosciuti su ordinazione e per soldi.
Forse era un ladro, un rapinatore, un bandito.
Uno di quelli che assaltano le banche e sparano al cassiere se non apre la cassaforte.
Forse era un mafioso, uno di quelli che non vedono, non parlano e non sentono.
Forse era solo e soltanto uno che aveva sbagliato e si nascondeva perché qualcuno lo cercava per fargliela pagare.
Forse l’avevano ucciso per questo o forse per altro.

Lui era com’era con me o era un’altra persona?
Per me era lui, mi bastava, non poteva essere altro.
Eppure i dubbi ogni tanto mi ponevano quesiti e desideravo sapere.
Chi era, cos’era, cosa faceva veramente?
Questa cosa non l’ho mai saputa e mai la capirò.
E mi è rimasto dentro il rimorso di non averne mai parlato a sufficienza.
Avrei voluto e vorrei oggi più che mai sapere chi era e cosa faceva e cosa avesse fatto.
Aspettavo che compisse cinquant’anni per chiederglielo.

Aveva visto passare un’altra estate in quel paese lontano da me, dal suo unico amico e, il tre settembre di quest’anno, avrebbe compiuto cinquant’anni.





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