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Isabella Morra (Giovanni Caserta)

Isabella Morra

Isabella Morra da Favale (Valsinni) morì quasi sicuramente nel 1546, uccisa insieme con il suo precettore. Non aveva più di trcnt’anni, essendo nata intorno al 1516; suoi assassini furono i fratelli, i quali sospettavano una sua relazione sentimentale Con Don Diego Sandoval de Castro, nobiluorno spagnolo e poeta, sposato, la cui moglie risiedeva nel vicino Castello di Bollita (Nova Siri). Non è improbabile che a suscitare l’ira dei fratelli sia
stata anche la nazionalità di Don Diego, poiché i Morra erano stati sempre nemici degli Spagnoli, al punto che il capo della famiglia Morra, Giovanni Michele, era fuggito in esilio a Parigi, presso la corte di Francesco I. E’ vero, del resto, che i fratelli Morra, poco tempo dopo l’uccisione della giovane sorella, uccisero anche Don Diego Sandoval de Castro, dopo avergli teso un feroce agguato. E’, questo, uno dei tanti episodi di violenza che, nel tenebroso quanto cavalleresco Cinquecento, infestarono le terre italiane, soprattutto nella provincia meridionale. In un certo senso, è un episodio tipico.
Naturalmente, l’autorità spagnola cercò di far luce sul fatto di sangue e aprì un’inchiesta. Fu durante le indagini e le perquisizioni che, probabilmente, come arguisce Benedetto Croce, fu trovato il breve canzoniere di Isabella Morra, acquisito agli atti del processo che fu celebrato a Napoli. Da esso, però, non si poté ricavare nulla, tranne una situazione di infelice solitudine e disperazione, strettamente collegata alla particolare condizione in cui la giovane vittima conduceva la sua esistenza. Quel canzoniere, cioè, non gettava nessuna luce sui moventi del delitto consumato dai fratelli Morra; scopriva, però, un’anima particolarmente delicata e acquistava una autentica poetessa della letteratura italiana del secolo. Il caso, peraltro, si prestava e si presta ad un’attenta indagine sociologica e politica, apparendo assai strano e interessante che, nel ‘500, potesse esserci, anche nella remota Basilicata, una donna che coltivasse le lettere e la poesia. D’altra parte, è anche vero che, fuori della Basilicata e del suo isolamcnto, è del tutto impossibile capire il carattere affatto personale e soggettivo della poesia di Isabella Morra. La distanza geografica che, per dir così, separava la giovane dalle numerose poetesse e dai numerosi poeti del secolo, è anche la ragione della diversità della sua lirica rispetto a quella del tempo.
Il cinquecento fu il secolo del petrarchismo; ma questo, portato tra i monti di Valsinni, a ridosso del Pollino, riecheggiava in modo del tutto nuovo, assumendo il tono e il timbro dell’ambiente circostante, semideserto e selvaggio. Il canto di Isabella Morra, perciò, è soprattutto il canto della solitudine e della emarginazione.
Sin d’allora, cioè, sembra quasi segnato il carattere della gente di Lucania, e quindi della sua cultura.
Non è difficile, leggendo la poesia di Isabella Morra, correre con la mente al poeta solitario per eccellenza. Si intende di Giacomo Leopardi. E non perché, come è ovvio, si presuma di fare un confronto fra i due poeti sul piano degli esiti poetici, ché sarebbe assurdo, ma solo perché ambedue portano i segni di una particolare condizione esistenziale. Ambedue, infatti, chiusi nel loro palazzo nobiliare, guardano svolgersi la vita e sono fuori del commercio umano; ambedue sono poeti senz’amore, che l’amore non hanno mai conosciuto, pur avendolo sempre sospirato e sognato. Perciò, non tanto la delusione è in loro, ma piuttosto un sentimento di ansia, un’aspirazione ed un sospiro. Il loro interlocutore è di preferenza la natura con i suoi monti, il mare, le valli, i fiumi, gli alberi, la luna e gli animali.
Come Leopardi, Isabella Morra sogna un’impossibile evasione.
Il suo pensiero corre a Parigi, o verso un eventuale matrimonio che la porterà lontana; e quando ciò le appare impossibile, pensa alla gloria imperitura dell’arte, o alla liberazione in Dio.
A differenza degli altri canzonieri del Cinquecento, quello di Isabella Morra non contiene la storia di un amore contrastato; non c’è, in altri termini, la figura di una persona amata, intorno a cui ruoti la vita del poeta. C’è, al contrario, la poetessa che s’aggira quasi forsennata tra i boschi, dirupi e le grotte circostanti, cantando la sua disperazione:

Ecco ch’un’altra volta, o valle inferna,
o fiume alpestre, o ruinati sassi,
o spirti ignudi di virtute e cassi,
udrete il pianto e la mia doglia eterna.

Protagonista, insieme alla poetessa, è dunque il paesaggio di Valsinni; e sopra ogni altra cosa domina il fiume che, scorrendo verso il mare, sembra andare verso quel mondo che alla giovane era negato. Ad esso Isabella affida i suoi messaggi:

Torbido Siri, del mio mal superbo,
or ch’io sento da presso il fine amaro,
fa’ tu noto il mio duolo al padre caro,
se mai qui'l torna il suo destino acerbo.

Il tono complessivo, del breve quanto intenso canzoniere, è quello di una lirica struggente, a cui non é concesso se non il pianto desolato, in mezzo ad un paesaggio deserto:

Contra Fortuna allor spargo querela
ed hoin odio il denigrato sito,
come sola cagion del mio tormento.

La religione stessa cessa di essere il rifugio, per diventare, piuttosto, un momento di totale abbandono) o di offerta. Fra le braccia di Cristo e di Maria ricorre una donna stremata, che offre le sue pene terrene in pegno di un’altra esistenza, dove non ci sia né caldo né gelo. Si preannuncia il Tasso.
Forse quel che commuove in Isabella Morra, ha detto qualche critico, non è la poesia, ma il caso umano. In verità, non è mai possibile distinguere il caso umano da quello poetico. Quel che invece bisogna aggiungere è che, accanto al caso umano, affligge e commuove, forse ancor più, il caso sociale di una terra che, già allora, era abbandonata alla miseria e all’isolamento. Letto in questa chiave, o con questa correzione, il canzoniere di Isabella Morra assume oggi una dimensione nuova e attuale, perché la sua proposta può acquistare il valore di una riscoperta o di una amara conferma.

Giovanni Caserta (1975)


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