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Di altra luce

Vincenzo Pellitta, ad un certo punto del suo percorso artistico, ha fatto la scelta meditata e coraggiosa di utilizzare il metallo come sostanza privilegiata della sua personale ricerca ed espressività artistica: non il metallo dello scultore che è massa e volume da forgiare e plasmare, a volte anche pesante e ingombrante, ma il metallo lavorato in superfici sottili, perfettamente piane e levigate, da utilizzare in modo quasi pittorico alla stregua di un foglio di carta o di una tavola, per le sue qualità specifiche e non come semplice supporto per altri materiali più tradizionali. Grazie a questo medium ha realizzato opere non-oggettive costituite sempre da due elementi fondamentali: una lastra, prevalentemente di acciaio o alluminio quasi specchiante in cui sono ritagliate figure rigorosamente geometriche, e una superficie di fondo a cui la prima si sovrappone, ma sarebbe meglio dire si intreccia intimamente, in genere monocroma o al più dipinta a due o tre colori sempre saturi e primari. Il dialogo tra le due componenti essenziali appare spontaneo anche se dagli esiti imprevisti. Le forme regolari, primarie o dai perimetri articolati, a volte ripetute identiche in modo seriale a volte di diversa morfologia e diversamente accostate e articolate, emergono dal ritaglio che le genera come presenze marcate dalle cromie accese in un gioco in cui i due livelli, sopra e sotto, si con-fondono e il vuoto colorato acquista la consistenza del pieno. La superficie del quadro restituisce l’idea che alla sua base ci sia un processo dinamico, quasi frutto di un automatismo di tipo industriale attribuibile a un vero e proprio pensiero macchinale, se non proprio a un suo inconscio, controllato accuratamente dall’essere umano che ne sceglie i modi e i ritmi stabilendone l’ordine, la fine e il confine.

Le opere recenti di Vincenzo Pellitta pur mantenendo la struttura compositiva che ho appena descritto, dimostrano, nel loro manifestarsi finale, uno scarto non irrilevante da quelle che le hanno precedute. Al fondo colorato l’artista ha preferito una sottile pellicola metallica dalle qualità materiche e visive diverse da quelle della lastra più spessa ritagliata e mantenuta sempre in sovrapposizione. La prima sensazione che si prova è quella di trovarsi di fronte a un piano disegnato da sole luci indirette e cangianti. Contemporaneamente, ma indipendentemente, dalle due superfici in opposizione si generano differenti tipi di riflessi luminosi che dialogano tra loro attraverso le varie forme geometriche incavate che, a questo punto, acquistano un’evidenza sfumata e una presenza discreta. Il colore non detta più i suoi ritmi sostanziali e la superficie metallica principale sembra perdere tutta la sua grevità al punto da apparire una fonte di luce primaria morbida ma decisa; la sua presenza diventa quasi un pretesto, un accidente corporeo, necessario per parlare di qualcosa che scavalca la materialità dell’oggetto e si colloca nel mondo delle pure sensazioni e del pensiero.
Nella realtà nulla e più concreto di una luce che cambia apparenza con il cambiare della materia che la riflette, ma è altrettanto vero che sono quasi imprevedibili e al limite della descrivibilità le mille sottili variazioni che ne risultano e la denotano e che rendono sempre mutevole e diverso il quadro, quasi specchiante, a cui appartengono. Variazioni accentuate anche dalle diverse trame figurali che l’artista utilizza nelle sue composizioni. Anche in questo caso, in un breve tempo di lavoro, si è già concretizzato un percorso con un passaggio da pattern costituiti prevalentemente da figure geometriche iterate e variamente associate a strutture apparentemente più complesse, ma in realtà risultato dell’interazioni di forme semplici, fino poi a formazioni in cui le singole figure geometriche sono libere nel piano, o meglio, così appaiono nonostante il loro posto sia sempre rigorosamente definito da traiettorie e sezioni geometriche. Si ha la netta impressione che il “campo” pittorico subisca, come entità concepita, una trasformazione fondamentale: da quella di luogo aperto a una ripetizione potenzialmente infinita delle figure che lo percorrono a quella di spazio concluso, paradossalmente affermativo proprio per la maggiore libertà compositiva che lo ha dettato. Il “fare non-oggettivo” si stacca così da certe rigidità costruttiviste per diventare la formulazione, o l’espressione, di proposizioni articolate e, a loro modo, dotate di una certa visionarietà e lirismo.
Vincenzo Pellitta con le sue opere e il suo intervento di artista ha saputo cogliere aspetti che in un freddo metallo, e nei processi meccanici della sua lavorazione, non ci si aspetterebbe mai di trovare: la capacità di far germinare rifrazioni luminosi che diventano esse stesse immagini astratte e immateriali. Un’altra luce, indiretta e diffusa, quasi allusiva, segno e sostanza di altre riflessioni, più profonde e interiori, sulla natura delle cose e delle loro apparenze.

Fabrizio Parachini ottobre 2010


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