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LEGAMI - Una mamma è pur sempre una mamma

L’ultima volta che aveva tentato di togliersi la vita era stato cinque minuti fa. Per la precisione, cinque minuti e dieci secondi fa.
Ci aveva già provato in passato, diverse volte aveva provato a morire senza mai riuscirci, proprio come era successo in quella occasione.
Aveva provato a tagliarsi le vene.
Lo aveva fatto con una lametta da barba talmente vecchia che era solo riuscita a farsi male, tanto male, talmente male che, per il dolore, era stata costretta a ricorrere al pronto soccorso dove, dopo un’ora di attesa, le avevano applicato un insignificante e ridicolo cerotto.
I medici, forse per minimizzare il gesto e farla sorridere, le avevano consigliato, se proprio desiderava morire, di farsi furba e di scegliere mezzi più sicuri come impiccarsi o gettarsi da un ponte.
Una pistola, per spararsi un colpo alla tempia, poteva essere una scelta complicata e comportava troppo coraggio; meglio scegliere una corda e un lampadario o un’altezza adeguata.
Lei non aveva riso né gradito l’umorismo. S’era limitata a fare una smorfia e a guardarli.

Era un po’ di tempo che era particolarmente repressa.
In realtà, demoralizzata lo era sempre stata, sin dall’infanzia, ma mai così tanto. In questi ultimi giorni aveva superato e battuto ogni record.
Se avesse concorso a una competizione di depressione avrebbe meritata di vincere ma, siccome era sfortunata e non le andava mai bene niente, sarebbe finita sicuramente al secondo posto. Proprio per dimostrare che lei era una sfigata d’eccellenza. La migliore in circolazione. Una sorta di vincitrice della sconfitta assoluta, sempre e comunque.

Tutto era precipitato la settimana scorsa, martedì, alle dieci e quindici. Per precisione alle dieci, quindici secondi e trenta centesimi quando, sottoposta a una visita ginecologica prenotata otto mesi prima per una fastidiosa infiammazione, il suo ginecologo di fiducia, dopo averla accuratamente visitata per dodici ore e quattro minuti, per la precisione dodici ore, quattro minuti e dieci centesimi, le aveva rivelato una notizia terribile. Insopportabile per chiunque.

Lui, il suo ginecologo, era un vecchio ginecologo, uno di quei vecchi ginecologi che tremano un po’ quando visitano.
Secondo lei e il parere di molti altri, i ginecologi devono essere vecchi, se fossero giovani cererebbero imbarazzo. Per questo motivo i vecchi ginecologi sono considerati da molta gente i migliori, anche se il tremolio della mano può risultare fastidioso, oltre che eccitante.
Di questo contrattempo, però, non ama parlarne nessuno. Almeno in alcune occasioni. In questa in particolare.

Questo ginecologo, dicevo, le aveva rivelato che, secondo il suo illuminante parere, lei era nata senza utero.
Ora né io, né lei, né nessun altro, tanto meno il suo ginecologo di fiducia, per quanto vecchio e con la mano tremante, abbiamo la più pallida idea di come una cosa del genere sia mai potuta accadere o perché sia successa, guarda caso, proprio a lei.
Il fatto è che lei non è mai stata fortunata nella vita. E questo è un dato di fatto e una realtà che ha imparato a sue spese e incontestabile.

“Meglio non nascere proprio se nascere significa venire al mondo in una certa maniera, come era accaduto a lei”.
Questo era il suo pensiero più ricorrente al quale si alternava un altro. “Questa vicenda o sfortuna, quella della notizia della mancanza dell’utero, le era capitata perché aveva deciso di scappare da casa o era solo il frutto della sua disgrazia di essere in vita?”
Queste domande e mille altri pensieri più cupi le frullavano in mente da quando era uscita dallo studio medico.
Uscita dal pronto soccorso si era fermata in un bar, per bere un caffè e riflettere ma aveva ordinato un cappuccino. Il cameriere le aveva portato un amaro e lei, presa dai suoi pensieri, non le aveva detto nulla. S’era limitata a pagarlo e a bere l’acqua che le avevano servito, insieme allo zucchero di canna e all’amaro che non aveva e non avrebbe mai bevuto.
Fra tutti i suoi pensieri c’era la più grande preoccupazione che una donna come lei sentiva come una eventualità impossibile da affrontare.
Per questo aveva deciso di uccidersi e aveva tentato di farlo in quella goffa maniera. Il suo dramma vero non era non avere l’utero che tutte le donne di questo mondo hanno ma doverlo confessare come una colpa, una mancanza. La più grave colpa oltre a quella d’essere nata e la più grave mancanza, come quella di non essere capace di vivere.
Come avrebbe fatto a dare una notizia del genere ai suoi genitori e al suo ragazzo? Più che altro, come avrebbe fatto a dirlo alla mamma, visto che il padre era morto quand’era piccola e lei, un ragazzo fisso, non lo aveva mai ancora avuto?
Già, la madre. Come avrebbe potuto e dovuto raccontarlo alla madre? Come avrebbe fatto a dirlo a una mamma che aveva la voce di Gino Bramieri e due grandi occhi blu posti su due livelli diversi?
Una madre con le sue solide convinzioni religiose, una che era rimasta convinta che Kennedy fosse stato ucciso per i peccati dell’umanità?
Una madre che era stata l’autrice del Best sellers “Come cucinare un primo senza utilizzare la pasta” da cui era stato tratto il film “Rigatoni”. Un film che aveva fatto scandalo per la sue spregiudicatezza.
Infatti, già nella prima scena nel film si vedeva Gesù Cristo mentre mangiava pane e cipolle facendo la scarpetta con la mostarda. Un film esplicito ma con una sua morale. Infatti, alla fine del film la giovane protagonista, dopo una vita di digiuni e diete ferree, perdeva la sua linea, preparando e poi mangiando un enorme piatto di cotiche con la rucola.
Una madre con la sua mania dell’igiene e della salute. Tutte le mattine, appena si alzava, faceva i gargarismi con lo sciroppo del capitano e poi ruttava. Subito dopo faceva una doccia calda e una fredda per far aprire e chiudere i pori; era capace, infatti, di aprire e chiudere i pori a piacere.

Quando ripensava alla sua infanzia, a volte si stupiva di come fosse riuscita a crescere sino a diventare quella distinta figura di ragazzotta che era. Una distinta ragazzotta con tanto di seno cadente, cellulite nei posti peggiori e una congenita e sfibrante stanchezza verso tutto e tutti.
Per non parlare dei traumi psicologici che aveva dovuto subire. Innumerevoli. Da sempre. Ad esempio l’angoscia che aveva provato la prima volta che aveva fatto all’amore.
Era notte, era buio ed era in bagno.
Era sola. Anche sola.
Di qui tutti gli incubi che l’affliggevano sin dalla tenere età.
Gli incubi allucinanti come quello della scorsa notte. Aveva sognato tutte e due le sorelle Lecciso e doveva sposare Albano.
Certo poteva sempre scappare. Ma scappare dove? Con chi?
L’unica cosa buona che riusciva a trovare nella sua sciagura era la speranza di non dovere andare in menopausa.
Non aveva l’utero, dunque non poteva avere ovulazione. Ma allora perché aveva regola


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