ZAPPARULO ED IL SUO LAVORO
Tutta la fascia sulla riva dell'Agri è sede di rigogliosi «giardini». Nella
accezione locale intendesi per «giardino» un pezzo di terra di varia
estensione coltivata ad ortaggi, frumento, vigneto, oliveto, generalmente
irriguo. Il contadino che coltiva prevalentemente il giardino è detto:
«zapparulo».
Il giardino occupa in modo diuturno e molto oneroso sia il contadino che la
sua cavalcatura. Al mattino prima dell'alba il contadino deve alzarsi per
dar da mangiare alla cavalcatura, «vettura» (mulo, asino, cavallo), e per
preparare quanto deve portare in campagna. In ogni stagione ha sempre da
fare.
Lo «zapparulo», è il caso accennarlo, coltiva anche il grano per il
sostentamento suo e della famiglia, la biada, l'orzo ed altri prodotti usati
come mangime per gli animali.
Nel mese di novembre carica la «vettura» di sementi, carica altresì l'aratro
e si avvia in campagna, effettuando a volte perfino tre o quattro ore di
cammino per raggiungere il luogo del lavoro.
Terminata la semina, il terreno viene livellato con l'erpice e vengono
convogliate le acque secondo le pendenze del terreno, in modo da evitare
allagamenti ai fondi sottostanti, creando dei «lavinari».
Le donne intanto provvedono alla raccolta delle olive. Lavoro ingrato dal
momento che, fra l'altro, il gelo del mattino rattrappisce le mani. Il
disagio e la fatica vengono vinti dall'allegria, in vista di un nuovo
raccolto. Si canta mentre si lavora, forse anche per alleviare la fatica.
Nella vigna si tolgono le canne usate come sostentamento delle viti e si,
esegue la potatura.
Alcuni contadini sono soliti seminare, nei terreni aridi e tra i filari
delle viti, cereali, allo scopo di favorire la vegetazione in primavera.
In questo periodo inizia lo «scasso», cioè la preparazione del terreno per
la piantagione delle viti. Lo «scasso» consiste nel rimuovere e
discontinuare per un metro ed oltre di profondità il terreno per tutta la
estensione e con il solo uso della zappa.
Si approfitta delle giornate piovose, ma con luna favorevole, per svinare,
cioè togliere il vino dalle botti e travasarlo, liberandolo dalle fecce e
mettendolo in altri recipienti, in attesa di imbottigliarlo a fermentazione
completa, in marzo o nei mesi successivi.
Il contadino man mano che avanza la stagione provvede intanto a togliere dal
giardino le erbe nocive e parassite e prepara le «marrelle», il terreno per
i trapianti e le semine degli ortaggi, primi fra tutti l'aglio e la cipolla.
A gennaio, se il tempo lo permette, inizia la potatura delle viti e la
sarchiatura, raccoglie al centro del filare le erbe nocive e parassite,
prepara i pali, provvede a rifare i fili di ferro che serviranno a sostegno
della vite, sparge il nitrato sui seminati.
Nei mesi successivi, con la buona stagione, continuerà la potatura delle
viti, provvederà alla piantagione delle stesse nello «scasso» preparato ed
agli innesti in genere.
Con l'inizio della primavera si effettua la piantagione degli ortaggi
(pomodori, lattuga, cavolfiori), si piega e si lega la vite con fili di
salice, si inizia il trattamento con zolfo ramato per prevenire le malattie.
Nel «giardino» (con un po' di ritardo nelle masserie) si inizia il taglio
del foraggio. Il contadino saggio sa che deve porre particolare attenzione
nella alimentazione degli animali in questo periodo, dal momento che questi
risentono del passaggio dall'alimentazione secca a quella verde. Questo
brusco cambiamento di alimentazione può provocare negli animali la
«timpanite» (1) idropisia ventosa la cui cura si fa, o almeno si faceva, con
il « trequarti» (2) se non si riusciva a trovare rimedio con strofinazioni
di paglia.
La coltura a cui lo «zapparulo» dedica una particolare importanza è l'ulivo.
In Lucania vi sono piante secolari sparse in modo irrazionale in diverse
parti della regione che danno un buon prodotto, apprezzato specie dagli
intenditori. La pianta, in genere, viene potata ogni due anni, ed una volta
i potatori venivano da Latronico, dove erano veramente esperti in questa
attività.
I diversi «professori» che si sono succeduti nelle «cattedre ambulanti»
hanno insegnato al contadino a zappare ed a concimare l'ulivo; nessuno,
salvo errore, gli ha invece insegnato come si raccoglie il prodotto.
Infatti, tuttora, per far cadere il prodotto, vengono battuti i rami con
lunghe canne; tale procedura, provoca spesso danni irreparabili alle piante.
In ogni giardino prima v'erano gelsi la cui coltivazione serviva ad allevare
il baco da seta, ora del tutto scomparso. Anche se non allevato a scopo
industriale, il baco era allevato da molte persone ad esclusivo uso
domestico.
Una particolare attenzione merita la vite: una volta le varietà, prima che
la fillossera (3) ne distruggesse alcune specie, erano l'aglianico,
l'aleatico, lo zibibbo (4), la malvasia, l'antica, lo zagarese, il
moscatello (5), l'asprinio.
La vigna viene impiantata in autunno, il modo a cassa chiusa o aperta o
altri modi non vengono qui menzionati esulando dallo spirito cui è informato
il presente lavoro.
Le vigne si tenevano e si tengono «maritate» con canne che vengono
sostituite ogni anno verso marzo, questa operazione si dice: «ficcare la
vigna». Il magliolo è formato dal tralcio di un anno che, tagliato al tempo
della piantagione (a novembre), viene sotterrato e successivamente viene
preso e posto a dimora scegliendone, naturalmente, i migliori.
Nell'impiantare la vigna si usava piantarvi, tra i filari, l'ulivo. Nella
zona di S. Brancato a Sant'Arcangelo, zona a spiccata vocazione
vitivinicola, abbonda l'ulivo mentre è rimasto qualche raro e, a volte,
malcurato vigneto.
Vi è anche l'uso incredibile a dirsi di tenere nella vigna il fico, il
sorbo, il pesco, il pero, il pruno, il melo, il percoco (una specie
particolare del pesco), un frutto famoso in tutte le regioni per la polpa e
il profumo, il persico, una specie simile al pesco ma che si spacca
agevolmente.
Una volta procuravano timore e danno al raccolto e comunque alle
coltivazioni la capra, il maiale, il bue e, tra gli animali selvatici, prima
fra tutte la volpe, la quale, oltre a distruggere ogni specie di frutta o di
piante tenere, portava scompiglio nei pollai. Sono pressocché scomparsi
l'istrice, la lepre, il topo di bosco e le altre specie di topo, il tasso o
melogna, il ghiro, tra gli uccelli l'aquila degli agnelli (frequente a
Pollino e Raparo), il corvo nelle sue specie, gli storni, il tordo ed il
merlo che prediligono entrambi gli ulivi, a volte, distruggendone il
raccolto.
Tralasciamo di indicare gli altri animali nocivi, in particolare gli
insetti; solo questi ultimi sono rimasti nelle nostre campagne.
Ricordo il gran numero di cardellini, oggi rari, che si vedevano in
primavera nella zona del «Monte Cellese», dove spontaneamente nasceva il
cardo (come è noto, il «cardillo» si nutre essenzialmente di seme di cardo).
Vendemmia e vinificazione.
«Vinnemia» o «vinnennia» (dal latino vinum vino, demere togliere). Raccolte
le uve in grossi barili, «varlacchiuni», vengono trasportate nelle cantine
dove vengono pigiate o a piedi o (sin dall'anteguerra) con la pigiatrice. Il
mosto viene riposto nelle botti dove avviene la fermentazione.
Siccome la gradazione alcoolica ed il tannino non consentono la
conservazione, è necessario, nel mese di marzo, travasare il vino oppure
aggiungere, durante la vinificazione, del mosto bollito.
A volte è necessario fare il «ribollito»: viene posta a bollire una parte di
mosto con vinaccia per diverse ore e dopo, quando si è ristretta, viene
mescolata con il mosto che è già nelle botti. La vinaccia viene stretta e ne
fuoriesce un vinello detto «acquata».
Le botti sono in genere fatte di legno di castagno così come tutti gli altri
utensili della cantina: il tino, il tinello etc. Il palmento è in muratura e
fatto con accorgimenti diversi. La produzione è limitata al bisogno della
famiglia e non è frequente il caso di produzione a scopo commerciale;
quest'ultima si verifica in particolari zone della Lucania, quali ad esempio
il Vulture.
Trappeto
Un elemento essenziale è l'olio.
Le olive, una volta raccolte, vengono ammassate e lasciate stare per alcuni
giorni. Si crede che facendole ammuffire, producano più olio e di qualità
migliore. Le olive vengono poi portate nel frantoio dove vengono macinate da
due grosse pietre e ridotte ad una pasta semiliquida.
La pasta viene posta in fiscoli e sistemati a pila sotto torchio del
frantoio di legno il quale, mediante una vite, si stringe facendo ruotare
una piastra intorno ad una madrevite in modo tale da spremere la pasta da
dove fuoriesce l'olio vergine. Vien spremuta la pasta una seconda volta
bagnando i fiscoli con l'acqua bollente che, per proprietà fisiche
dell'olio, si separa dall'acqua.
Tempi addietro la sanza si raccoglieva nel trappeto e rimaneva al
proprietario il quale la usava come combustibile dopo averne estratto altro
olio che avrebbe usato o venduto per illuminazione.
Mi è stato raccontato che anticamente chi non aveva denaro per pagare il
trappeto o non voleva lasciare per corrispettivo un certo quantitativo di
olio, provvedeva a molire le olive da solo. Si mettevano le olive in un
sacco e venivano pigiate con i piedi o con altri mezzi. Quando le olive
erano ridotte ad una pasta semiliquida, il sacco veniva stretto tra due
bastoni e poi introdotto in acqua bollente e successivamente stretto ancora
tra due bastoni. L'operazione si ripeteva sino a quando si era estratto
tutto l'olio.
Fore terre
Il reddito del «cafone» in misura veramente molto limitata era dato dalla
vendita dei prodotti ortofrutticoli.
In paese la possibilità di vendere i prodotti era esigua in quanto
l'offerta, era notevole e la richiesta scarsa dal momento che quasi tutti i
cittadini, contadini e non, erano produttori di ortaggi. Ciò ha sempre
determinato la necessità di vendere fuori dal paese ortaggi, frutta, etc.
L'unico mezzo di trasporto era la cavalcatura (l'asino o il mulo) e con
questa si andava «fore terre» (cioè oltre i confini del tenimento del paese)
a vendere i prodotti in ogni stagione. Più lontano era il paese dove si
andava a vendere e maggiore era il prezzo richiesto, data l'assenza di
concorrenza.
Non credo che sarò in grado di descrivere il sacrificio a cui andava
incontro il povero contadino per portare a casa pochi spiccioli; veramente
sproporzionato era il misero guadagno rispetto alla fatica compiuta. Solo
una forza di volontà sorretta da una povertà indescrivibile, la necessità ed
il decoro che una miseria dignitosa può dare, faceva sopportare le fatiche
che, una volta, solo gli schiavi sopportavano. La miseria è sempre
schiavitù.
Il contadino, come al solito, prima dell'alba si alzava, per tutta la
giornata raccoglieva in campagna il prodotto che doveva vendere fuori paese,
e la sera lo portava in paese.
Conduceva nella stalla la cavalcatura per farla riposare e per governarla.
Egli cenava la solita parca cena per tre quattro ore riposava, e verso le 22
caricava il mulo e si avviava verso il paese dove contava di vendere i suoi
prodotti. L'ora di partenza era calcolata in modo da giungere alle prime
luci del giorno nel paese prescelto.
Percorreva, a piedi, da solo o in compagnia di altri contadini, diecine e
diecine di chilometri per strade impervie attraversando fiumi, torrenti
vorticosi, viottoli accessibili solo a capre, affrontando intemperie, a
volta l'aggressione di lupi, specialmente d'inverno, flagellati dalla
pioggia e dalla neve. Con passo spedito superava tutti gli ostacoli che
incontrava durante il cammino quando veniva sorpreso dalle intemperie.
Doveva badare alla propria incolumità, a quella dell'animale e del carico
che doveva giungere in perfette condizioni per poter essere venduto sulla
piazza del paese di arrivo. La via nelle tenebre è lunga e fa paura; a volte
«fa piangere come un bambino orfano, senza madre», così mi diceva un
contadino mio amico.
Arrivava al mercato quasi sempre alle prime luci dell'alba con la segreta
speranza di vendere tutto, subito, e di ritornare presto a casa. Non sempre
questo accadeva. Allora, se non si erano fatti buoni affari in piazza, il
contadino seguito dalla cavalcatura, girava il paese sperando di vendere
tutta la merce.
Il ritorno era forse più doloroso dell'andata; il passare delle ore, il
pensiero di dover ripercorrere la strada già percorsa, la stanchezza ed il
sonno, il desiderio e la necessità di non addormentarsi creavano una fatica
superiore ad ogni esperienza se non personalmente vissuta.
Non sempre il sonno si riusciva a vincere e talvolta a cavallo sul basto,
scosso dal movimento della bestia, il sonno vinceva il contadino. Era
frequente che questi durante il viaggio cadesse dal mulo andando a finire in
burroni, torrenti, fiumi.
In un paese vicino al mio, a Senise, accadde molti anni fa un fatto pietoso
ad uno che ritornava da «fore terre»; vinto dal sonno a cavallo del mulo,
andò a sbattere contro un ramo reciso e appuntito dal quale fu sgozzato;
mori senza soccorso lasciando una vedova con numerosa prole in tenera età.
Specie nel periodo estivo, il contadino quasi mai dormiva tranquillamente
nel proprio letto. Aveva bisogno di denaro per le scadenze di agosto; gran
parte del denaro guadagnato doveva servire per pagare le tasse, per pagare
l'acqua di irrigazione e, se rimaneva qualcosa, serviva per comprare
indumenti per la famiglia. Gente povera vendeva a gente povera e i prezzi
ovviamente dovevano essere accessibili e modici.
Se si fosse dovuto tener conto del ricavo in relazione alla fatica sostenuta
per produrre e vendere la merce, non sarebbe stato proprio il caso di
parlare di guadagno. Ma il contadino si dedicava al lavoro e lo intendeva e
lo sentiva nel suo significato biblico «tu lavorerai con il sudore della
fronte...» e lo ha sempre accettato con spirito francescano.
Il lavoro del contadino evoca nella mia memoria una sublime ma deprecabile
rassegnazione alla fatica e alla miseria di cui è circondata e assediata
tutta una popolazione.
Ma quali sono le origini di questa miseria? È la povertà della terra, della
regione, cui mai si è posto rimedio con convinzione, con razionalità, con
compiutezza.
Questa miseria procura un intimo stato di ribellione quando si considera il
lavoro impiegato in relazione al ricavo prodotto. Questi e gli altri motivi
già detti portarono all'inizio del secolo e poi nel dopoguerra ad una
emigrazione in massa. E’ con estremo dolore che dobbiamo constatare che il
contadino lucano quando non è stato «carne di cannone» (6), è stato «carne
di emigrazione». Come tutte le regioni povere d'Italia, la Lucania è stata
destinata a dare, nel passato, sangue alla guerra e braccia all'emigrazione.
Eppure i prodotti ortofrutticoli che si vendevano erano di gran pregio come
gusto, qualità, specie.
Non si producono più «le percoche» di Sant'Arcangelo famose in tutta la
Lucania ed oltre la regione, come le «pere briamonte» (Briamonte a
Sant'Arcangelo è un cognome molto diffuso), «pere masciatiche», l'uva di S.
Brancato, alcune specie di albicocche, di ciliege, di fichi «triani» che
altrove sicuramente non si trovano, i pomodori seccagni, le «scescele» (non
sono riuscito a conoscere il nome in italiano). Non credo che sia il caso di
enumerare le diverse specie d'ortaggi che, insieme a quanto detto sopra,
hanno reso famoso il mio paese.
Questi prodotti ornavano le piazze dei paesi vicini e sollecitavano
piacevolmente le papille gustative dei cittadini. Ma quanto sudore costavano
all'uomo, alla donna, ai figli, il produrre e vendere quei prodotti.
NOTE
1) Fermentazione eccessiva dovuta a doviziosa e rapida introduzione di erba
fresca, che oltre a provocare notevole produzione di aria e gas, determina
nello stesso tempo una transitoria paralisi abomaso intestinale.
2) Ferro che serve a pungere e vuotare le raccolte liquide o aeroformi;
costituito da una cannula nella quale si adatta esattamente un punteruolo
acuminato. Serve per la puntura della cavità dello stomaco dei ruminanti da
cui devono essere espulsi dei gas.
3) Insetto rincote importato dall'America, parassita dannosissimo della
vite.
4) Vitigno di origine araba.
5) La lacrima si ottiene dal moscatello ed è un vino molto dolce.
6) Frase attribuita dall'abate De Pradt a Napoleone: Le soldat est de la
chaire à canon, «il soldato è carne da cannone»: affermazione che riecheggia
quella messa in bocca a Falstaff, dallo Shakespeare, nell'Enrico IV. (I
soldati sono, per Falstaff, Food for powder, «carne da polvere da sparo»).
lll
LA CASA E LE ABITUDINI DEL
CONTADINO
Tutti i paesi della Lucania, all'inizio del secolo, erano prevalentemente
agricoli e gli abitanti, nella maggior parte, erano dediti ai lavori dei
campi.
La profonda crisi determinata da una politica economica errata, da una
agricoltura prona (1) ed una emigrazione quasi in massa hanno fatto cambiare
l'aspetto del paese.
Sarà opportuno descrivere la casa di un qualsiasi contadino così com'era una
volta. Le case erano tutte simili tra loro, così gli oggetti che la
arredavano; simili erano anche gli usi che si osservavano.
La casa del contadino era veramente misera sia nella costruzione che
nell'arredamento; a piano terra o a più piani. Sul davanti vi era un
lastrico «o strichielle» (2) anch'esso ammattonato che costituiva pertinenza
della casa ed era il luogo ove la donna eseguiva, d'estate, i lavori che
d'inverno, per il freddo, faceva innanzi al focolare (rinacciare, filare,
ecc.).
Le costruzioni, in generale, erano fatte di pietra viva e calce o di mattoni
e calce (sabbia mista a calce viva, quest'ultima prodotta con pietra
vulcanica che, cotta ad altissima temperatura, aveva funzione di cemento) e
non sempre erano intonacate esternamente. Internamente invece, la parte
abitata dalle persone era intonacata ed una volta all'anno veniva imbiancata
con calce viva dal momento che durante l'inverno si abbruniva per il fumo
proveniente dal fuoco, dal forno, dalla luce ad olio in uso fino al primo
ventennio del nostro secolo e tutt'ora in uso nelle campagne prive di
elettrificazione.
Il pavimento era generalmente fatto di mattoni di creta « cotto », il cielo
era di canne intrecciate e travi, senza soffitto, salvo che non ci fosse «u
'ntimpiato», una specie di soffitta abbaino ripostiglio.
Sino a qualche tempo fa alla periferia del paese vi era un altro tipo di
costruzione, la costruzione in «ciuci», di cui ora è rimasto soltanto
qualche esempio nelle campagne.
I ciuci generalmente a forma di parallelepipedo erano formati da un impasto
di argilla e paglia fatti asciugare al sole; venivano usati, nei secoli
passati, per costruire case di un solo ambiente.
Di case in «ciuci» è rimasto in campagna qualche relitto adibito a pagliaio,
o a deposito per conservare attrezzi di lavoro, o a «catuoscio» (3), una
specie di magazzino, adibito a custodire animali, attrezzi, prodotti
agricoli varii.
Talvolta vi abitava il contadino, specialmente nel periodo estivo quando
doveva trovarsi di buon ora sul posto di lavoro (aveva come giaciglio un
sacco di paglia).
La casa solitamente era di un solo ambiente; il letto, formato da due
«trastielli» su cui poggiavano le tavole, alto a volte mt. 1,50/1,60, era
situato su una delle pareti dell'abitazione ed orientato in modo tale che
quando la persona dormiva i piedi non fossero diretti verso la porta (ciò
per una radicata superstizione).
Sotto il materasso che quasi mai era di lana, ma di stoppa o di capecchio,
era sistemato il «saccone», che era riempito di brattea di grano turco.
Intorno alle restanti pareti venivano sistemati i letti dei figli più
grandi, e quando la famiglia era numerosa ed in casa non c'era posto, nello
stesso letto dormivano due o più figli «chi di cape e chi di piedi». I figli
piccoli dormivano nel letto dei genitori.
Alla parete sovrastante il letto matrimoniale erano sospesi ad un chiodo
immagini di santi o qualche fotografia di cari lontani o morti, incorniciati
in modo molto semplice.
Componevano inoltre l'arredamento della casa alcuni «scanni», sedili di
legno a tre piedi, una «buffetta», piccolo tavolo il cui etimo è di chiara
origine francese, due casse contenenti il corredo della sposa e la «naca»
(4) sospesa alle travi. La naca era una culla costituita da un vello di
montone ai cui quattro lembi, corrispondenti alle quattro zampe, venivano
legati spaghi raccolti in un unico nodo e sospesi alla trave disposta in
prossimità del letto affinché di notte, quando il bimbo piangeva, la mamma
potesse dondolarlo imprimendo un leggero movimento.
La naca ha subito successivamente delle modifiche ed è stata fatta di vimini
o, più frequentemente, di canne intrecciate.
Mi è stato raccontato che all'inizio del secolo nella casa del contadino vi
era generalmente una sola sedia impagliata; la si teneva appesa ad un chiodo
e veniva usata soltanto in casi eccezionali per far sedere un ospite di
riguardo, il medico, il prete, l'ufficiale esattoriale, la levatrice.
Agli angoli della casa, detti «ncogne» (5), venivano riposti gli attrezzi
leggeri di lavoro: zappe, zappelli, rallato ed altri attrezzi forniti di
«stile» (6).
L'unica fonte di luce era, quasi sempre, la porta che si componeva di tre
parti: una parte, generalmente fissa, chiudeva metà dell'uscio, e nella
parte inferiore di essa vi era un foro circolare che serviva per fare
entrare i gatti. L'altra metà era divisa in due parti: una superiore e una
inferiore; quella inferiore veniva chiusa con un paletto di legno posto ad
incastro, mentre quella superiore veniva chiusa da una serratura detta
«mascatora» azionata da chiave piuttosto grande e che rappresentava un
gioiello di fattura dei fabbri di una volta.
In genere la porta veniva lasciata di giorno chiusa senza chiave, ma
soltanto con la «natecchila» o «matecchila» (7).
D'inverno, quando il vento spirava in senso contrario, usciva dal camino
fumo accecante che riempiva la casa, per cui era necessario tenere aperta la
porta.
Il camino era indispensabile in ogni casa; il fuoco vivo dava luce, calore e
vita.
Al fuoco d'inverno vi era costantemente una «pignata» di creta dove
cuocevano fagioli, lenticchie, ceci, legumi in genere, essendo questi il
cibo costante e prevalente del contadino.
Nelle case i cui abitanti erano titolari di un certo censo, il focolare era
fornito di «capaffuochi» (alari), di «iataturo» (un tubo metallico che serve
per soffiare sul fuoco), di una serie di palette.
Nei pressi del fuoco era sospeso alle travi un lungo pezzo di legno, una
verga, dove d'inverno venivano appese la salsiccia, la soppressata, il
lardo, la vescica del maiale riempita di sugna e salame, «a saìma e
sauzizz». Tutti questi prodotti erano «curati» in modo eccellente dal fumo
proveniente dalla focagna. Su questa stessa verga sospesa, d'estate, si
appendevano peperoni, «diavolicchi» (piccoli peperoni molto forti), pomodori
«seccagni» molto piccoli ed altri prodotti ortofrutticoli da conservare per
l'inverno e sistemati in «nserte» (8).
D'estate vi si appendevano «scarcelle» (9) di fichi o «nserte di fichi»,
infilati con spago o filo di ginestra o con bastoncino di canna e formanti
rombi o collane; tutti prodotti policromi che formavano un simpatico
ornamento al monotono ambiente della casa.
Sulla focagna c'erano sempre uno o più lumi ad olio di creta già pronti sin
dal mattino con il «miccio», lo stoppino e riempite d'olio da servire, sin
dal vespro, ad illuminare la casa. Sospeso alla focagna c'era sempre
sistemato un arnese in ferro battuto che a volte costituiva un ornamento «la
camastra» (10), formato da grossi anelli e da ganci tutti uniti tra loro per
appendervi la caldaia sul fuoco in sostituzione del trepiede.
Ogni anno ad aprile il contadino provvedeva da solo alla pulizia del camino
per evitare che la fuliggine si incendiasse e, facendo dilatare gli elementi
che lo componevano, potesse provocare lesioni alle strutture. Puliva il
camino introducendovi dall'alto un arbusto irto di spine, «la spinapolice»,
legata ad una «zoca», spago grosso che veniva tirato dal basso per cui le
spine e i rami grattavano dalla gola del camino tutta la fuliggine.
Ogni casa era fornita di forno, ubicato internamente o appena fuori la
porta, il quale veniva usato in media una volta alla settimana per
provvedere a fare il pane per il normale consumo.
Ogni casa era poi fornita degli attrezzi per fare il pane: «le pale», per
porre nel forno il pane da cuocere, «a fazzatora» (11), recipiente di legno
che serviva per ammassare e far lievitare la farina, «u munnolo» (12), lo
spazzatoio per pulire il piano focolare del forno, «u tumpagno» (13), la
tavola per impastare, «a rasola», lamiera di ferro con impugnatura che ha la
funzione di piccola paletta, di raschietta e di coltello per tagliare la
massa, «u laganature» (14), il mattarello, «a sc canatora» formata da un
pezzo di legno piano su cui venivano poste le masse di pasta cresciuta,
dette «sc canate».
La donna di casa, la sera, prima di «sc canare», cioè preparare «la massa»,
si metteva in giro per il vicinato per trovare «u lavate», il lievito;
sapeva all'incirca chi potesse averlo e certamente lo trovava, essendo
questa una delle cose che non si poteva negare a nessuno, neppure ai nemici,
ammesso che lo chiedessero. Avuto il lievito, che veniva conservato in un
piattino, coperto da una foglia di cavolo (cappuccio), la donna iniziava ad
ammassare la pasta, e, dopo lievitata, preparava le «sc-canate » (15), cioè
manipolava la farina mista ad acqua sino a renderla dura e faceva grossi
pezzi di massa circolare, a volte con diametro di circa 30 cm. ognuna
(dipendeva dal numero dei figli), e li metteva al forno appena pronto.
Il pane è stato sempre considerato una benedizione di Dio; quando veniva
impastato ed era pronto per lievitare, «per crescere», si segnava con un
coltello o con la «rasola» sulla «manata» un Croce. Durante il pasto, quando
un pezzo di pane cadeva per terra, si soffiava prima per togliere eventuali
impurità e poi si baciava con religioso rispetto essendo grazia di Dio. Tale
rito ogni genitore lo insegnava al figlio ancora in tenera età. La «manata»
doveva sempre stare appoggiata sul tavolo dalla parte piana; era un atto di
dispregio alla grazia di Dio capovolgerla.
Nel forno veniva cotta la «vampuglia» , costituita da un poco di massa che
serviva a provare la caloria del forno e che, di solito, veniva data ai
piccoli i quali stavano sempre intorno attaccati al grembiule della mamma.
Si introduceva poi nel forno il «pane di caniglia» (16) (crusca) per il
cane, il «piccilatiello», pane molto morbido a forma di grande ciambella, la
«strazzata», una pizza con pomodoro e peperoni o con frattaglie di maiale o
con sego o con altri ingredienti, il cui sapore è unico. Veniva anche cotta
la «ficazza», un pane morbido infinitamente gustoso ed a forma di ruota
schiacciata, e per ultimo veniva infornato il pane.
Nel forno veniva anche cotto il «asciumiello» (17), cioè pane azzimo
preparato con semi di finocchio, pepe e altre spezie, ed in particolari
occasioni, se il forno manteneva ancora sufficienti calorie, il
«galantuomo», il contadino benestante, il massaro faceva mettere nel forno
una coscia di capra chiamata la «sfacciatora di capra» dopo averla preparata
con origano, lardo, aceto e altri aromi vari.
Il forno veniva poi usato per preparare tutti i commestibili da conservare:
«friselle», «bottiglie di salsa», «pane menisco» cioè il mosto più volte
andato in ebollizione reso quasi a forma di marmellata che raffreddandosi si
induriva.
Sovente in fondo all'unica stanza di cui era composta la casa, se non aveva
il «catuoscio», trovava ricovero anche l'animale da soma, asino, mulo, o
cavallo il quale era considerato l'unico mezzo di trasporto, «l'attrezzo
motore» per eseguire i lavori dei campi (aratura).
Unitamente agli altri animali non mancavano mai le galline, i colombi e i
porcellini d'India.
L'agricoltore più agiato, in genere, abitava in case composte da due o tre
vani; a piano terra era ubicata la stalla, dove venivano custoditi gli
animali da soma ed il maiale, mentre al piano superiore abitava la famiglia.
Ancora nel piano superiore, sotto il tetto, vi era una specie di mansarda
che veniva adibita a ripostiglio «u ntimpiate». Vi si accedeva mediante una
scala a pioli. «U ntimpiate» era un accessorio che non tutti avevano, in
quanto era generalmente unico il locale adibito a casa del contadino.
Se la casa del contadino era fornita di finestra, sul davanzale veniva posta
una pianta detta «ricchezza» quale auspicio per fugare la temuta e vissuta
povertà.
Ai due spigoli inferiori della finestra, alla distanza di circa 20/50
centimetri da ogni spigolo, vi erano due fori da cui fuoriuscivano due pali
ben conficcati nel muro. Sopra questi pali veniva posto un piano formato da
canne legate molto strette tra loro con fili di salice e di spago. Su detto
piano, «gradizza» (18), generalmente esposto a mezzogiorno (diversamente non
sarebbe stato utile allo scopo) venivano posti i prodotti della terra,
ortaggi e frutta, conserve e salsa di pomodoro.
Sulla «gradizza» i prodotti suddetti, posti a seccare al rovente sole
d'estate, venivano poggiati su di un «ruagne» (19), cesto contenitore molto
originale fatto di rami di ginestra legati e che ho imparato ad intrecciare
sin da ragazzo. Veniva prima preparato un piano delle dimensioni di cm. 80 x
30 circa; intorno a questo piano, sempre con rami di ginestra legati, veniva
fatto un bordo alto circa 10 centimetri. Serviva per proteggere i prodotti
esposti al sole i quali potevano essere coperti con un altro «ruagne»,
qualora avessero bisogno di ombra.
«O ruagne» sono quasi completamente scomparsi e siamo rimasti in pochi a
saperli intrecciare. Tutti i recipienti erano di legno, di creta o di
terracotta; il vetro era un lusso. Un tipico recipiente era la zucca vuotata
di semi e fatta seccare; vi si riponevano sale, spezie e sostanze non
liquide. Altro recipiente era il «puzinetto» (20), il quale serviva a tutti
gli usi e conteneva liquidi diversi.
Dalla finestra, all'altezza del verone, pendeva sempre una «rizzola»,
recipiente di creta o di terracotta molto maneggevole contenente acqua; sul
verone vi era la «grasta» (21) il vaso con le piante di «pitrisino» (22) e
di «vasilicoi» (23).
Di rilievo, nella casa tradizionale del contadino, erano i contenitori di
acqua. Infatti, sino al primo ventennio di questo secolo, il paese era del
tutto sprovvisto di acquedotto, per cui i cittadini si approvvigionavano
alle fontane, distanti 2 3 km. dal paese.
Le fontane erano e sono situate nella parte bassa di Sant'Arcangelo e
l'approvvigionamento giornaliero era effettuato con barili trasportati a
dorso di animale o sul capo delle donne povere. Queste ultime, all'alba, si
ponevano sul capo una «spara» (24), rotolo spesso di panno o di paglia su
cui poggiava il barile della capacità di 30/50 litri, e si recavano alla
fontana del «Cannone» o alla fontana di «Gavazzo» o a quella del «Molino di
basso».
Ognuna, dopo aver atteso la sua «vécita» (25), il suo turno, riempiva il
barile e ritornava in paese percorrendo una ripida salita che, anche oggi,
si sale con difficoltà a piedi; a quei tempi le donne, anche più volte al
giorno, la percorrevano con il peso del barile in testa, fermandosi, di
tanto in tanto, per riposarsi «allu spinneture» (26).
A questo punto è opportuno fare una digressione per precisare che
antichissima è l'usanza, che le donne (e solo le donne) avevano, di
trasportare sul capo cesti e barili e pesi in genere.
Attenti osservatori forestieri hanno riscontrato che alcune contadine del
mio paese hanno un portamento ritto ed altero e ciò, ritengo, sia dovuto
alla abitudine (ormai quasi scomparsa) di portare in equilibrio sulla testa
pesi di vario genere. Sulla testa erano solite portare il cesto con il
figlio ultimo nato mentre, in braccio, l'altro appena svezzato e non ancora
in grado di camminare a piedi.
Vi erano poi alcune donne capaci di portare in testa anche un quintale,
specie quando si trattava di prodotti della terra o del bucato che andavano
a lavare al fiume.
La donna, giunta in casa, riponeva il barile, «varricchio», sul «varlaro»,
quest'ultimo costruito con due piccoli tronchi di albero uniti ad una
estremità disposti a «V» capovolta, della lunghezza di circa due metri con
al centro dei due assi, due sbarre conficcate in due fori disposte
parallelamente.
L'acqua veniva attinta dal barile con la «galetta», un recipiente a forma di
tronco di cono formato da doghe di legno poste l'una vicina all'altra,
legate tra loro da una cintola di legno o di ferro, o con la «gummola»,
recipiente di terracotta tondeggiante e panciuto con due anse laterali e
terminante con un collo molto stretto; altro recipiente era la già citata
«rizzola», anch'essa di terracotta, con l'apertura molto ampia.
L'argilla con cui erano fatti, e la tecnica di costruzione di questi due
utilimi recipienti, permetteva di mantenere la temperatura interna quasi
sempre costante sia d'inverno che d'estate (27).
Nelle case non vi erano servizi igienici; in quelle dei «galantuomini» si
trovava, generalmente, una specie di sedia di legno tutta chiusa con al
centro un grosso foro, con uno sportello nella parte sottostante il sedile,
dove era sistemato un pitale di creta.
I contadini andavano a fare i propri bisogni o nella stalla cosa meno
frequente o nella «garamma», cioè alla periferia del paese nei pressi della
casa di ognuno. Gli artigiani, che generalmente non avevano stalle, andavano
sempre nella «garamma» (burrone).
Si era stabilita spontaneamente una specie di consuetudine, secondo la
quale, ad un determinato posto andavano le donne ed a una certa distanza in
modo da non vedere le donne e non essere da queste veduti si sistemavano gli
uomini. Sotto il rione palazzo vi era una località tutt'ora chiamata «u
cacaturo».
Specialmente tra gli artigiani, che avevano più o meno gli stessi orari di
apertura della bottega (es. calzolaio) o identico era l'orario di inizio del
lavoro, (es. muratore) si stabiliva un rituale incontro mattutino
«nculmirate» (cioè nella tipica posizione che assume chi fa i bisogni
all'aria aperta), dove era anche piacevole scambiarsi quattro chiacchiere
con il vicino o, lamentarsi con lo stesso, se provocava un eccessivo cattivo
odore.
In genere si sceglievano le prime ore del mattino per fare quanto era
naturale e necessario. Poteva tuttavia accadere che, durante il giorno, il
bisogno si presentasse improvviso e lì, nella stessa «garamma» si
soddisfacevano i propri bisogni. La «ghiefa» (28) o la «pietra» erano
l'attuale carta igienica.
Il luogo preferito, comunque, era la campagna, l'aperta campagna durante i
lavori.
Ogni casa era anche fornita di particolari recipienti di metallo o di creta
che venivano usati in caso di malattia o quando particolari circostanze non
consentivano l'allontanamento da casa.
Fino all'inizio del secolo il pitale veniva vuotato di sera tardi nella
strada; era anche in uso che qualche contadino spargesse della paglia sulla
strada (specialmente d'inverno nelle giornate autunnali o primaverili) dove
venivano gettate le immondizie, il pitale ed ogni rifiuto.
Il contadino che aveva sparso la paglia la raccoglieva per usarla nel suo
orto come concime, «rumato» (29) o «cruopene» (30).
Il contadino ha amato sempre la sua casa anche se un abituro, bassa,
miserrima, come abbiamo visto, senza finestre, così come ha amato sempre le
sue cose, i suoi attrezzi di lavoro. A proposito delle case si sentiva dai
vecchi una strofetta molto significativa:
«Pure si tutte 'u munne jé paradise
lu ricrij de l'ommene jé 'a suja casa».
«Anche se tutto il mondo è paradiso
il godimento dell'uomo è la sua casa».
Il contadino, la sera, doveva sempre portare qualcosa a casa; anche quando
si trovava a passare dal suo fondo senza avere con sé recipienti, legava le
due maniche della giacca e vi introduceva frutta, pomodori, ortaggi. Anche
questo comportamento sta a testimoniare il sentimento di amore e di rispetto
verso la propria casa insito nell'animo.
L'affetto, l'amore per la propria casa, per i propri cari può far capire con
quanto dolore nel passato remoto i nostri contadini sono partiti per le
Americhe ed in un passato prossimo per l'Italia e per il mondo in cerca di
lavoro.
Il focolare
Una particolare considerazione merita il focolare, il quale era ed è
tutt'oggi il centro della casa, e ciò, non soltanto come ubicazione, ma come
centro delle manifestazioni quotidiane della vita.
Infatti intorno al focolare si mangia, si concludono gli affari, si prepara
il cibo quotidiano e quanto dovrà servire per un intero anno. Al focolare si
ammazza il maiale, si fa la salsa, a Natale si fanno «o scrippelle» e «o
cauzuncielli», a Pasqua «a curnata» e «a cicirata».
Al focolare si fanno delle lunghe conversazioni con amici, si raccontano le
«palmedie», cioè i racconti, e «o cose cusell», le «cose coselle», le
leggende (ora sempre meno per l'avvento della televisione), e si parla di
tutto e di tutti mentre sul fuoco cuoce la «fella arrusciata» , una larga
fetta di pane posta sui carboni ardenti che, una volta abbrustolita, viene
condita con olio e sale oppure con olio e peperone in polvere o sulla quale
vengono spalmati i «pomodori avernili».
Il bagliore della fiamma, lo screpitio del fuoco, il vino e le castagne
consumate in compagnia di cari amici creano una atmosfera che non può
sostituirsi a qualsiasi altro posto.
La penombra che dà il bagliore della fiamma si riflette sulle casseruole di
rame, sempre ben lucide, appese alla «appennirama» e che, una volta,
costituivano una componente necessaria della dote portata dalla donna nel
matrimonio.
Nei pressi del focolare non manca mai una cassapanca dove si cura «u
piattielle».
E’ una usanza che va scomparendo quella di mettere a germogliare, due
settimane prima di Pasqua, in assoluta oscurità, alcuni semi di cereali in
un piatto su del cotone grezzo bagnato; i germogli, innaffiati diturnamente
e tenuti vicino ad una fonte di calore, si sviluppano rapidamente, e per la
mancanza della luce solare che permette la funzione clorofilliana, assumono
un colore giallo oro. «U piattielle» raggiunta l'altezza di 30 cm. e più
viene ornato con santini, fiori e nastri colorati e serve per ornamento al
S. Sepolcro nel Giovedì Santo. A Pasqua, quando il Sepolcro viene disfatto,
quello che resta del piattiello, viene sparso per i campi seminati come
augurio di buona annata.
Davanti al focolare si manifesta il sentimento di ospitalità che si conserva
e si estrinseca con genuina semplicità, con franchezza di modi e di
sentimenti ed a volte con affetto verso persone appena conosciute.
Con molta franchezza ed ospitalità si accoglie l'amico o lo sconosciuto
viandante che non abbia dove ricoverarsi.
Il forestiero viene ristorato, trattato da ospite senza alcun corrispettivo,
dal momento che il Lucano, anche se povero, non è mai misero. Se il
forestiero ha con sé degli animali, vengono rinchiusi nella stalla dove
vengono governatí ed abbeverati come gli altri.
Questo sentimento di ospitalità è antichissimo; Eraclide in un notissimo
verso dice: «i Lucani sono ospitali e giusti» , Eliano, etc. (31).
A Natale o a Capodanno al focolare si pone un grande ceppo di legno perché
arda tutta la notte. Questo uso di antica tradizione è mantenuto in quanto è
credenza popolare che se la Madonna dovesse passare dalla casa,. potrà
asciugare i panni di Gesù Bambino.
Il padre, chiamato «tatte» (32), come si è detto, pone il ceppo sul focolare
ed i figli aggiungono piccoli pezzetti di legno i quali da un punto di vista
pratico permettono un normale inizio di combustione del ceppo e dal punto di
vista allegorico vogliono simboleggiare l'unione familiare.
Il ceppo si lascia ardere tutta la notte e deve spegnersi da sé. I resti che
avanzano si conservano gelosamente come amuleti da usare per fugare
tempeste, grandine, temporali, lampi. Per tal uso vengono anche usati i
tizzoni, pezzi di legno incombusti rimasti dalle «vestilitate».
Sono questi fuochi di gioia che vengono accesi davanti la porta di casa la
sera della vigilia di grandi feste paesane quali S. Michele Arcangelo
(Santo, protettore del paese), S. Giuseppe etc. Mentre il fuoco è acceso i
ragazzi (33) si cimentano a saltare da una parte all'altra dei fuochi, cosa
che peraltro facevano i musicanti i più giovani nel loro giro serotino per
il paese. Uno o più tizzoni vengono presi dal «titolare» del fuoco, cioè da
colui il quale ha fornito la legna da ardere, e dai vicini.
La «iacchera», o fiaccola, è propriamente il tizzone acceso. Veniva usata
per illuminare il passo al viandante di notte se era costretto ad effettuare
un percorso, in paese o fuori paese, senza luce.
La cucina
La Basilicata in generale, e Sant'Arcangelo in particolare, si inseriscono
in una consuetudine culinaria molto simile alle regioni limitrofe Puglia,
Calabria, Campania.
Il cibo che quotidianamente si consuma è quasi francescano. Gli elementi
essenziali sono tutti quelli provenienti dalla terra.
Tra le verdure e i legumi eccellono i fagioli nelle loro diverse specie:
cannellini, poverelli, tabacchini, scritti, fagiolo lunato ed altre varietà.
Impareggiabili sono i ceci cosiddetti «cottoi», nati in terreni non
innaffiati, «siccagni».
Non meno buoni sono i cavoli, le rape, i carciofi, gli asparagi selvatici, i
peperoni, buoni quanto quelli di Senise (34), i pomodori, le melenzane.
Queste ultime vengono conservate sott'olio.
Le olive, a parte l'olio che danno buono quanto quello di Aliano (35), si
usa conservarle, dopo averle trattate con la calce, in salamoia «abbonate» o
curate con il sale ed il «sereno» (esposte al freddo di una notte senza
pioggia).
Tutta la frutta è buona, dai fichi alle arance, dalle pere «briamonte» alle
pere «masciatiche»; vi sono le pesche duracine grosse, di un giallo roseo
con una punta alla base molto pronunciata dette «percoche».
Queste sono note anche nel raggio di molti chilometri.
Vi è la produzione del cedro «citrangulo» che pare abbia, specialmente per
l'asina, un potere afrodisiaco.
I pascoli, poveri ma sostanziosi, procurano una ottima produzione di carni e
di latticini.
Il capretto e l'agnello sono di un sapore particolare che soltanto nei paesi
limitrofi, simili per pascolo, si possono trovare.
Il maiale mangia soltanto ghianda o «massata» (cioè crusca di grano duro
mista a farina di granone, ceci, fave). La sua carne viene adoperata per
ottimi prosciutti, salami, soppressate, capocolli. La soppressata è
preparata con carne magra e riposta nell'intestino grasso. Vi si mette del
pepe in grani; la carne ben compressa e legata è posta sotto dei pesi per
farla stagionare.
La «Nnuglia» è la cosiddetta salsiccia «dei pezzenti»; è composta con poca
carne e tutti gli scarti utilizzabili della soppressata e della salsiccia.
Cotta con la verdura si ottiene un'ottima minestra.
La cosiddetta «luganica», così chiamata a Milano, è quella salsiccia con il
peperoncino rosso già richiamata altrove.
Non da meno sono i latticini: formaggio pecorino e caprino, caciocavalli,
scamorze, manteche, treccia, piluso, filiciata, ricuttalo e ricotta
sistemata in fuscelli di giunco a forma di tronco di cono, di diverse misure
piccole e grandi che abbiamo già esaminato.
Una volta vi era molta cacciagione: lepri, pernici, beccacce, tasso,
istrice, cinghiale, tordi e merli in quantità; questi ultimi si sparavano
alla «pagliarola» ossia al capanno.
Vi erano alcuni cacciatori che zufolavano e il loro suono era così dolce e
così eufonico che sembrava un canto.
Da ricordare sono le anguille ed altri piccoli pesci pescati nel fiume Agri
ed una specie di granchi «o gammere», che non sono mai riuscito a trovare
nei due continenti da me visitati.
I piatti caratteristici del mio paese e dintorni sono, primi fra tutti:
«maccaruni a cannicelli», cioè pasta fatta in casa arrotolata a un ferro
sottile della lunghezza di circa 20 cm. a forma di una specie di bucatino;
«ricchitele», le orecchiette; «lagana a tappa», una specie di pappardelle o
fettuccine; «rasc catielle», una specie di gnocchi fatti soltanto di farina
di grano duro incavati come una conchiglia; «scaffettune», una specie di
rígatoni molto grandi; «maccheroni alla pastora», maccheroni conditi con
ricotta, olio, sale con o senza pepe; «a nfrascatele», è una polenta fatta
con farina di granturco e formaggio pecorino; «lagane con il latte»,
fettuccine più larghe delle normali cotte nel latte e che si mangiano il
giorno dell'Ascensione; «ciambotta» fatta con uova, peperoni, melanzane e
pomodori freschi e cipolla, se preferita; «o ghiummerielle», specie di
involtini preparati con le interiora del capretto (se manca, anche di
agnello) legate con l'intestino del medesimo cotte allo spiedo o sulla
graticola o nel forno (36). Quando si arrotolano le interiora, viene messo
del «diavolicchio», peperoncino molto piccante, aglio e qualche volta
rosmarino. «Cucina maritata» viene fatta il giorno dell'Assunta; vengono
cotti grano, fave, ceci, biada, cicerchia con altri prodotti della terra e
conditi in vario modo.
«A menn da crape», prima di macellare una capra che allatta, si legano molto
strette le mammelle al fine di non fare fuoriuscire il latte dai condotti.
Dopo aver scuoiato l'animale si tagliano le due mammelle che si cucinano in
vario modo.
«Code degli agnelli», gli agnelli, dopo qualche mese dalla nascita, vengono
privati di una parte della coda per evitare che si impigli tra le spine dei
boschi. La parte tagliata viene cucinata in modo diverso; il più comune è in
umido con cipolla.
«Porchetta al forno», la porchetta intera viene tolta dal forno a metà
cottura, riempita con pasta corta già cotta e condita e rimessa al forno
fino a quando non è completamente cotta: «Strazzate p'o frittele» focaccia
con le «cicciole» sono queste varie parti del maiale avanzate dopo aver
ricavato lo strutto. Di «strazzate» vi sono una miriade di varietà.
«Pastizzo», si mangia a Pasqua e viene preparato con uova, salame, formaggio
o con ricotta e messo al forno; a Rotondella viene fatto con l'agnello. La
madre di un mio amico è impareggiabile nel prepararlo. «Curnata» una specie
di torta dolce o no, a forma di corona circolare, con sopra le uova (di
numero dispari). «Pupecielle» dolce fatto a forma di bambola o di fantoccio
che viene regalato alle bambine. Si preparano molti altri dolci, taralli,
con latte e miele, «pane minisco» ecc.
Per ultimo desidero ricordare il cibo più semplice del contadino: «l'acqua
sale» preparato con pane duro bagnato e condito con olio sale e talvolta
pomodoro.
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NOTE
1) Il contadino è solito ripetere di essere di «facce 'n terra» di faccia a
terra cioè misero, non aiutato da nessuno e costretto a lavorare una terra
infeconda ed avara. Il lavoro è bestemmia specialmente quando è «a patrune»
cioè subordinato alle dipendenze di un padrone.
2) Dal greco: ostracou terra cotta, pavimento di terra cotta.
3) Dal greco catagaioz = sotterraneo.
4) Dal greco uach = pelle lanosa, vello (OM., Od., 14, 530).
5) Dal greco gwuia angolo «ncogne» propriamente significa angolo un po'
nascosto.
6) Dal greco steileiou = manico della scure (OM., Od., 5, 236) mentre stelea
= occhio della scure (OM., Od., 21, 422).
7) Piccolo arnese di legno che si muove intorno ad un chiodo o ad un perno
di legno infisso in una parte della porta e serve a fermare anche l'altra.
Forse di derivazione greca: meta ‑ kliuv = mi inchino, mi volgo, giro.
8) Dal greco seira,az = corda, fune. seirh,hz ionico
9) Dal greco iscaz = fico secco.
10) Dal greco krhmastoz = appeso o calastou = catena.
11) Dal greco massw = impastare: per trasformazione da massatora o da
mazzatora si è passato a fazzatora.
12) Dal greco moleiu (blwokw) = vado e vengo infatti per pulire il piano del
forno con il «munnolo» si deve fare appunto questo movimento.
13) Dal greco tumpauou = tavola per impastare, ma è anche il fondo delle
botti e dei barili. Era altresì una «macchina» sulla quale si stendevano i
delinquenti per martoriarli (vocabolario Greco Italiano, Rigutini 1912,
Firenze, Barbera).
14) Dal greco lagauou pasta sottile a sfoglia.
15) Dal greco iscauaw raffreno, indurisco.
16) Così detto perché il pane fatto di crusca si dava ai cani, ai maiali
ecc.
17) Dal greco azumoz - ou non lievitato.
18) Dal greco: iraioz divenire vecchio, seccare ed izw = pongo, colloco,
stendo.
19) Dal greco ruomai = difendo, preservo, proteggo, copro.
20) Dal greco potizw = abbeverare.
21) Dal greco gastra = vaso.
22) Dal greco sun‑petra = insieme alle pietre, pianta che nasce tra le
pietre.
23) Dal greco basileuz basilikoz = re, regale, pianta regale.
24) Dal greco sparganon = fascia.
25) Dal latino vicis (genitivo manca di nominativo) = mutazione, cambio.
26) Dal latino ponere cioè collocare, porre; da ex ponere cioè porre il peso
su di un poggiolo, un parapetto.
27) L'acqua è arrivata in Sant'Arcangelo nell'anno 1926; molta povera gente
è morta proprio per l'acqua, sia perché veniva attinta da fonti inquinate
sia perché, pur di non perdere una giornata di lavoro, veniva attinta
durante la notte in luoghi insalubri, inaccessibili, sfidando l'inclemenza
del tempo. Ancora oggi in Sant'Arcangelo l'acqua non è sufficiente
nonostante la zona dove gravita Sant'Arcangelo (lago del Pertusillo)
fornisca acqua alla sempre sitibonda Puglia.
28) Zolle di terra.
29) Dal greco rumma-atos oppure luma‑lumatoz = immondizia, sporcizia; rumato
è detto anche il concime organico derivato dagli escrementi animali.
30) Dal greco koproz sterco, letame.
31) Cfr. GIUSEPPE ANTONINI, La Lucania, discorsi parte I discorso III, pagg.
30 31.
32) Dal greco atta caro padre. E’ questo, per me, il più bel nome con il
quale il figlio possa chiamare il padre. Caro padre è l'espressione migliore
e semplice dell'affetto filiale.
33) OVIDIO, Fasti, libro IV: «Moxque per ardentes stipulae crepitantis
acervos Trajicias celeri strenua membra pede».
34) Senise è un paese vicino Sant'Arcangelo, noto anche per gli ortaggi ed
in particolare per i peperoni.
35) Aliano è un paese vicino Sant'Arcangelo, sull'altra riva dell'Agri, noto
per essere stato il luogo di confino di Carlo Levi che nel suo libro «Cristo
si è fermato ad Eboli», ne ha descritto, fra l'altro, i costumi.
36) È un cibo da «cannarute» cioè da buongustaio raffinato e goloso.
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