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Ceneri di Civiltà Contadina in Basilicata
GIUSEPPE NICOLA MOLFESE

ZAPPARULO ED IL SUO LAVORO

Tutta la fascia sulla riva dell'Agri è sede di rigogliosi «giardini». Nella accezione locale intendesi per «giardino» un pezzo di terra di varia estensione coltivata ad ortaggi, frumento, vigneto, oliveto, generalmente irriguo. Il contadino che coltiva prevalentemente il giardino è detto: «zapparulo».
Il giardino occupa in modo diuturno e molto oneroso sia il contadino che la sua cavalcatura. Al mattino prima dell'alba il contadino deve alzarsi per dar da mangiare alla cavalcatura, «vettura» (mulo, asino, cavallo), e per preparare quanto deve portare in campagna. In ogni stagione ha sempre da fare.
Lo «zapparulo», è il caso accennarlo, coltiva anche il grano per il sostentamento suo e della famiglia, la biada, l'orzo ed altri prodotti usati come mangime per gli animali.
Nel mese di novembre carica la «vettura» di sementi, carica altresì l'aratro e si avvia in campagna, effettuando a volte perfino tre o quattro ore di cammino per raggiungere il luogo del lavoro.
Terminata la semina, il terreno viene livellato con l'erpice e vengono convogliate le acque secondo le pendenze del terreno, in modo da evitare allagamenti ai fondi sottostanti, creando dei «lavinari».
Le donne intanto provvedono alla raccolta delle olive. Lavoro ingrato dal momento che, fra l'altro, il gelo del mattino rattrappisce le mani. Il disagio e la fatica vengono vinti dall'allegria, in vista di un nuovo raccolto. Si canta mentre si lavora, forse anche per alleviare la fatica.
Nella vigna si tolgono le canne usate come sostentamento delle viti e si, esegue la potatura.
Alcuni contadini sono soliti seminare, nei terreni aridi e tra i filari delle viti, cereali, allo scopo di favorire la vegetazione in primavera.
In questo periodo inizia lo «scasso», cioè la preparazione del terreno per la piantagione delle viti. Lo «scasso» consiste nel rimuovere e discontinuare per un metro ed oltre di profondità il terreno per tutta la estensione e con il solo uso della zappa.
Si approfitta delle giornate piovose, ma con luna favorevole, per svinare, cioè togliere il vino dalle botti e travasarlo, liberandolo dalle fecce e mettendolo in altri recipienti, in attesa di imbottigliarlo a fermentazione completa, in marzo o nei mesi successivi.
Il contadino man mano che avanza la stagione provvede intanto a togliere dal giardino le erbe nocive e parassite e prepara le «marrelle», il terreno per i trapianti e le semine degli ortaggi, primi fra tutti l'aglio e la cipolla.
A gennaio, se il tempo lo permette, inizia la potatura delle viti e la sarchiatura, raccoglie al centro del filare le erbe nocive e parassite, prepara i pali, provvede a rifare i fili di ferro che serviranno a sostegno della vite, sparge il nitrato sui seminati.
Nei mesi successivi, con la buona stagione, continuerà la potatura delle viti, provvederà alla piantagione delle stesse nello «scasso» preparato ed agli innesti in genere.
Con l'inizio della primavera si effettua la piantagione degli ortaggi (pomodori, lattuga, cavolfiori), si piega e si lega la vite con fili di salice, si inizia il trattamento con zolfo ramato per prevenire le malattie.
Nel «giardino» (con un po' di ritardo nelle masserie) si inizia il taglio del foraggio. Il contadino saggio sa che deve porre particolare attenzione nella alimentazione degli animali in questo periodo, dal momento che questi risentono del passaggio dall'alimentazione secca a quella verde. Questo brusco cambiamento di alimentazione può provocare negli animali la «timpanite» (1) idropisia ventosa la cui cura si fa, o almeno si faceva, con il « trequarti» (2) se non si riusciva a trovare rimedio con strofinazioni di paglia.
La coltura a cui lo «zapparulo» dedica una particolare importanza è l'ulivo. In Lucania vi sono piante secolari sparse in modo irrazionale in diverse parti della regione che danno un buon prodotto, apprezzato specie dagli intenditori. La pianta, in genere, viene potata ogni due anni, ed una volta i potatori venivano da Latronico, dove erano veramente esperti in questa attività.
I diversi «professori» che si sono succeduti nelle «cattedre ambulanti» hanno insegnato al contadino a zappare ed a concimare l'ulivo; nessuno, salvo errore, gli ha invece insegnato come si raccoglie il prodotto. Infatti, tuttora, per far cadere il prodotto, vengono battuti i rami con lunghe canne; tale procedura, provoca spesso danni irreparabili alle piante.
In ogni giardino prima v'erano gelsi la cui coltivazione serviva ad allevare il baco da seta, ora del tutto scomparso. Anche se non allevato a scopo industriale, il baco era allevato da molte persone ad esclusivo uso domestico.
Una particolare attenzione merita la vite: una volta le varietà, prima che la fillossera (3) ne distruggesse alcune specie, erano l'aglianico, l'aleatico, lo zibibbo (4), la malvasia, l'antica, lo zagarese, il moscatello (5), l'asprinio.
La vigna viene impiantata in autunno, il modo a cassa chiusa o aperta o altri modi non vengono qui menzionati esulando dallo spirito cui è informato il presente lavoro.
Le vigne si tenevano e si tengono «maritate» con canne che vengono sostituite ogni anno verso marzo, questa operazione si dice: «ficcare la vigna». Il magliolo è formato dal tralcio di un anno che, tagliato al tempo della piantagione (a novembre), viene sotterrato e successivamente viene preso e posto a dimora scegliendone, naturalmente, i migliori.
Nell'impiantare la vigna si usava piantarvi, tra i filari, l'ulivo. Nella zona di S. Brancato a Sant'Arcangelo, zona a spiccata vocazione vitivinicola, abbonda l'ulivo mentre è rimasto qualche raro e, a volte, malcurato vigneto.
Vi è anche l'uso incredibile a dirsi di tenere nella vigna il fico, il sorbo, il pesco, il pero, il pruno, il melo, il percoco (una specie particolare del pesco), un frutto famoso in tutte le regioni per la polpa e il profumo, il persico, una specie simile al pesco ma che si spacca agevolmente.
Una volta procuravano timore e danno al raccolto e comunque alle coltivazioni la capra, il maiale, il bue e, tra gli animali selvatici, prima fra tutte la volpe, la quale, oltre a distruggere ogni specie di frutta o di piante tenere, portava scompiglio nei pollai. Sono pressocché scomparsi l'istrice, la lepre, il topo di bosco e le altre specie di topo, il tasso o melogna, il ghiro, tra gli uccelli l'aquila degli agnelli (frequente a Pollino e Raparo), il corvo nelle sue specie, gli storni, il tordo ed il merlo che prediligono entrambi gli ulivi, a volte, distruggendone il raccolto.
Tralasciamo di indicare gli altri animali nocivi, in particolare gli insetti; solo questi ultimi sono rimasti nelle nostre campagne.
Ricordo il gran numero di cardellini, oggi rari, che si vedevano in primavera nella zona del «Monte Cellese», dove spontaneamente nasceva il cardo (come è noto, il «cardillo» si nutre essenzialmente di seme di cardo).

Vendemmia e vinificazione.

«Vinnemia» o «vinnennia» (dal latino vinum vino, demere togliere). Raccolte le uve in grossi barili, «varlacchiuni», vengono trasportate nelle cantine dove vengono pigiate o a piedi o (sin dall'anteguerra) con la pigiatrice. Il mosto viene riposto nelle botti dove avviene la fermentazione.
Siccome la gradazione alcoolica ed il tannino non consentono la conservazione, è necessario, nel mese di marzo, travasare il vino oppure aggiungere, durante la vinificazione, del mosto bollito.
A volte è necessario fare il «ribollito»: viene posta a bollire una parte di mosto con vinaccia per diverse ore e dopo, quando si è ristretta, viene mescolata con il mosto che è già nelle botti. La vinaccia viene stretta e ne fuoriesce un vinello detto «acquata».
Le botti sono in genere fatte di legno di castagno così come tutti gli altri utensili della cantina: il tino, il tinello etc. Il palmento è in muratura e fatto con accorgimenti diversi. La produzione è limitata al bisogno della famiglia e non è frequente il caso di produzione a scopo commerciale; quest'ultima si verifica in particolari zone della Lucania, quali ad esempio il Vulture.

Trappeto

Un elemento essenziale è l'olio.
Le olive, una volta raccolte, vengono ammassate e lasciate stare per alcuni giorni. Si crede che facendole ammuffire, producano più olio e di qualità migliore. Le olive vengono poi portate nel frantoio dove vengono macinate da due grosse pietre e ridotte ad una pasta semiliquida.
La pasta viene posta in fiscoli e sistemati a pila sotto torchio del frantoio di legno il quale, mediante una vite, si stringe facendo ruotare una piastra intorno ad una madrevite in modo tale da spremere la pasta da dove fuoriesce l'olio vergine. Vien spremuta la pasta una seconda volta bagnando i fiscoli con l'acqua bollente che, per proprietà fisiche dell'olio, si separa dall'acqua.
Tempi addietro la sanza si raccoglieva nel trappeto e rimaneva al proprietario il quale la usava come combustibile dopo averne estratto altro olio che avrebbe usato o venduto per illuminazione.
Mi è stato raccontato che anticamente chi non aveva denaro per pagare il trappeto o non voleva lasciare per corrispettivo un certo quantitativo di olio, provvedeva a molire le olive da solo. Si mettevano le olive in un sacco e venivano pigiate con i piedi o con altri mezzi. Quando le olive erano ridotte ad una pasta semiliquida, il sacco veniva stretto tra due bastoni e poi introdotto in acqua bollente e successivamente stretto ancora tra due bastoni. L'operazione si ripeteva sino a quando si era estratto tutto l'olio.

Fore terre

Il reddito del «cafone» in misura veramente molto limitata era dato dalla vendita dei prodotti ortofrutticoli.
In paese la possibilità di vendere i prodotti era esigua in quanto l'offerta, era notevole e la richiesta scarsa dal momento che quasi tutti i cittadini, contadini e non, erano produttori di ortaggi. Ciò ha sempre determinato la necessità di vendere fuori dal paese ortaggi, frutta, etc. L'unico mezzo di trasporto era la cavalcatura (l'asino o il mulo) e con questa si andava «fore terre» (cioè oltre i confini del tenimento del paese) a vendere i prodotti in ogni stagione. Più lontano era il paese dove si andava a vendere e maggiore era il prezzo richiesto, data l'assenza di concorrenza.
Non credo che sarò in grado di descrivere il sacrificio a cui andava incontro il povero contadino per portare a casa pochi spiccioli; veramente sproporzionato era il misero guadagno rispetto alla fatica compiuta. Solo una forza di volontà sorretta da una povertà indescrivibile, la necessità ed il decoro che una miseria dignitosa può dare, faceva sopportare le fatiche che, una volta, solo gli schiavi sopportavano. La miseria è sempre schiavitù.
Il contadino, come al solito, prima dell'alba si alzava, per tutta la giornata raccoglieva in campagna il prodotto che doveva vendere fuori paese, e la sera lo portava in paese.
Conduceva nella stalla la cavalcatura per farla riposare e per governarla. Egli cenava la solita parca cena per tre quattro ore riposava, e verso le 22 caricava il mulo e si avviava verso il paese dove contava di vendere i suoi prodotti. L'ora di partenza era calcolata in modo da giungere alle prime luci del giorno nel paese prescelto.
Percorreva, a piedi, da solo o in compagnia di altri contadini, diecine e diecine di chilometri per strade impervie attraversando fiumi, torrenti vorticosi, viottoli accessibili solo a capre, affrontando intemperie, a volta l'aggressione di lupi, specialmente d'inverno, flagellati dalla pioggia e dalla neve. Con passo spedito superava tutti gli ostacoli che incontrava durante il cammino quando veniva sorpreso dalle intemperie. Doveva badare alla propria incolumità, a quella dell'animale e del carico che doveva giungere in perfette condizioni per poter essere venduto sulla piazza del paese di arrivo. La via nelle tenebre è lunga e fa paura; a volte «fa piangere come un bambino orfano, senza madre», così mi diceva un contadino mio amico.
Arrivava al mercato quasi sempre alle prime luci dell'alba con la segreta speranza di vendere tutto, subito, e di ritornare presto a casa. Non sempre questo accadeva. Allora, se non si erano fatti buoni affari in piazza, il contadino seguito dalla cavalcatura, girava il paese sperando di vendere tutta la merce.
Il ritorno era forse più doloroso dell'andata; il passare delle ore, il pensiero di dover ripercorrere la strada già percorsa, la stanchezza ed il sonno, il desiderio e la necessità di non addormentarsi creavano una fatica superiore ad ogni esperienza se non personalmente vissuta.
Non sempre il sonno si riusciva a vincere e talvolta a cavallo sul basto, scosso dal movimento della bestia, il sonno vinceva il contadino. Era frequente che questi durante il viaggio cadesse dal mulo andando a finire in burroni, torrenti, fiumi.
In un paese vicino al mio, a Senise, accadde molti anni fa un fatto pietoso ad uno che ritornava da «fore terre»; vinto dal sonno a cavallo del mulo, andò a sbattere contro un ramo reciso e appuntito dal quale fu sgozzato; mori senza soccorso lasciando una vedova con numerosa prole in tenera età.
Specie nel periodo estivo, il contadino quasi mai dormiva tranquillamente nel proprio letto. Aveva bisogno di denaro per le scadenze di agosto; gran parte del denaro guadagnato doveva servire per pagare le tasse, per pagare l'acqua di irrigazione e, se rimaneva qualcosa, serviva per comprare indumenti per la famiglia. Gente povera vendeva a gente povera e i prezzi ovviamente dovevano essere accessibili e modici.
Se si fosse dovuto tener conto del ricavo in relazione alla fatica sostenuta per produrre e vendere la merce, non sarebbe stato proprio il caso di parlare di guadagno. Ma il contadino si dedicava al lavoro e lo intendeva e lo sentiva nel suo significato biblico «tu lavorerai con il sudore della fronte...» e lo ha sempre accettato con spirito francescano.
Il lavoro del contadino evoca nella mia memoria una sublime ma deprecabile rassegnazione alla fatica e alla miseria di cui è circondata e assediata tutta una popolazione.
Ma quali sono le origini di questa miseria? È la povertà della terra, della regione, cui mai si è posto rimedio con convinzione, con razionalità, con compiutezza.
Questa miseria procura un intimo stato di ribellione quando si considera il lavoro impiegato in relazione al ricavo prodotto. Questi e gli altri motivi già detti portarono all'inizio del secolo e poi nel dopoguerra ad una emigrazione in massa. E’ con estremo dolore che dobbiamo constatare che il contadino lucano quando non è stato «carne di cannone» (6), è stato «carne di emigrazione». Come tutte le regioni povere d'Italia, la Lucania è stata destinata a dare, nel passato, sangue alla guerra e braccia all'emigrazione.
Eppure i prodotti ortofrutticoli che si vendevano erano di gran pregio come gusto, qualità, specie.
Non si producono più «le percoche» di Sant'Arcangelo famose in tutta la Lucania ed oltre la regione, come le «pere briamonte» (Briamonte a Sant'Arcangelo è un cognome molto diffuso), «pere masciatiche», l'uva di S. Brancato, alcune specie di albicocche, di ciliege, di fichi «triani» che altrove sicuramente non si trovano, i pomodori seccagni, le «scescele» (non sono riuscito a conoscere il nome in italiano). Non credo che sia il caso di enumerare le diverse specie d'ortaggi che, insieme a quanto detto sopra, hanno reso famoso il mio paese.
Questi prodotti ornavano le piazze dei paesi vicini e sollecitavano piacevolmente le papille gustative dei cittadini. Ma quanto sudore costavano all'uomo, alla donna, ai figli, il produrre e vendere quei prodotti.

 

NOTE

1) Fermentazione eccessiva dovuta a doviziosa e rapida introduzione di erba fresca, che oltre a provocare notevole produzione di aria e gas, determina nello stesso tempo una transitoria paralisi abomaso intestinale.
2) Ferro che serve a pungere e vuotare le raccolte liquide o aeroformi; costituito da una cannula nella quale si adatta esattamente un punteruolo acuminato. Serve per la puntura della cavità dello stomaco dei ruminanti da cui devono essere espulsi dei gas.
3) Insetto rincote importato dall'America, parassita dannosissimo della vite.
4) Vitigno di origine araba.
5) La lacrima si ottiene dal moscatello ed è un vino molto dolce.
6) Frase attribuita dall'abate De Pradt a Napoleone: Le soldat est de la chaire à canon, «il soldato è carne da cannone»: affermazione che riecheggia quella messa in bocca a Falstaff, dallo Shakespeare, nell'Enrico IV. (I soldati sono, per Falstaff, Food for powder, «carne da polvere da sparo»).

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LA CASA E LE ABITUDINI DEL CONTADINO

Tutti i paesi della Lucania, all'inizio del secolo, erano prevalentemente agricoli e gli abitanti, nella maggior parte, erano dediti ai lavori dei campi.
La profonda crisi determinata da una politica economica errata, da una agricoltura prona (1) ed una emigrazione quasi in massa hanno fatto cambiare l'aspetto del paese.
Sarà opportuno descrivere la casa di un qualsiasi contadino così com'era una volta. Le case erano tutte simili tra loro, così gli oggetti che la arredavano; simili erano anche gli usi che si osservavano.
La casa del contadino era veramente misera sia nella costruzione che nell'arredamento; a piano terra o a più piani. Sul davanti vi era un lastrico «o strichielle» (2) anch'esso ammattonato che costituiva pertinenza della casa ed era il luogo ove la donna eseguiva, d'estate, i lavori che d'inverno, per il freddo, faceva innanzi al focolare (rinacciare, filare, ecc.).
Le costruzioni, in generale, erano fatte di pietra viva e calce o di mattoni e calce (sabbia mista a calce viva, quest'ultima prodotta con pietra vulcanica che, cotta ad altissima temperatura, aveva funzione di cemento) e non sempre erano intonacate esternamente. Internamente invece, la parte abitata dalle persone era intonacata ed una volta all'anno veniva imbiancata con calce viva dal momento che durante l'inverno si abbruniva per il fumo proveniente dal fuoco, dal forno, dalla luce ad olio in uso fino al primo ventennio del nostro secolo e tutt'ora in uso nelle campagne prive di elettrificazione.
Il pavimento era generalmente fatto di mattoni di creta « cotto », il cielo era di canne intrecciate e travi, senza soffitto, salvo che non ci fosse «u 'ntimpiato», una specie di soffitta abbaino ripostiglio.
Sino a qualche tempo fa alla periferia del paese vi era un altro tipo di costruzione, la costruzione in «ciuci», di cui ora è rimasto soltanto qualche esempio nelle campagne.
I ciuci generalmente a forma di parallelepipedo erano formati da un impasto di argilla e paglia fatti asciugare al sole; venivano usati, nei secoli passati, per costruire case di un solo ambiente.
Di case in «ciuci» è rimasto in campagna qualche relitto adibito a pagliaio, o a deposito per conservare attrezzi di lavoro, o a «catuoscio» (3), una specie di magazzino, adibito a custodire animali, attrezzi, prodotti agricoli varii.
Talvolta vi abitava il contadino, specialmente nel periodo estivo quando doveva trovarsi di buon ora sul posto di lavoro (aveva come giaciglio un sacco di paglia).
La casa solitamente era di un solo ambiente; il letto, formato da due «trastielli» su cui poggiavano le tavole, alto a volte mt. 1,50/1,60, era situato su una delle pareti dell'abitazione ed orientato in modo tale che quando la persona dormiva i piedi non fossero diretti verso la porta (ciò per una radicata superstizione).
Sotto il materasso che quasi mai era di lana, ma di stoppa o di capecchio, era sistemato il «saccone», che era riempito di brattea di grano turco.
Intorno alle restanti pareti venivano sistemati i letti dei figli più grandi, e quando la famiglia era numerosa ed in casa non c'era posto, nello stesso letto dormivano due o più figli «chi di cape e chi di piedi». I figli piccoli dormivano nel letto dei genitori.
Alla parete sovrastante il letto matrimoniale erano sospesi ad un chiodo immagini di santi o qualche fotografia di cari lontani o morti, incorniciati in modo molto semplice.
Componevano inoltre l'arredamento della casa alcuni «scanni», sedili di legno a tre piedi, una «buffetta», piccolo tavolo il cui etimo è di chiara origine francese, due casse contenenti il corredo della sposa e la «naca» (4) sospesa alle travi. La naca era una culla costituita da un vello di montone ai cui quattro lembi, corrispondenti alle quattro zampe, venivano legati spaghi raccolti in un unico nodo e sospesi alla trave disposta in prossimità del letto affinché di notte, quando il bimbo piangeva, la mamma potesse dondolarlo imprimendo un leggero movimento.
La naca ha subito successivamente delle modifiche ed è stata fatta di vimini o, più frequentemente, di canne intrecciate.
Mi è stato raccontato che all'inizio del secolo nella casa del contadino vi era generalmente una sola sedia impagliata; la si teneva appesa ad un chiodo e veniva usata soltanto in casi eccezionali per far sedere un ospite di riguardo, il medico, il prete, l'ufficiale esattoriale, la levatrice.
Agli angoli della casa, detti «ncogne» (5), venivano riposti gli attrezzi leggeri di lavoro: zappe, zappelli, rallato ed altri attrezzi forniti di «stile» (6).
L'unica fonte di luce era, quasi sempre, la porta che si componeva di tre parti: una parte, generalmente fissa, chiudeva metà dell'uscio, e nella parte inferiore di essa vi era un foro circolare che serviva per fare entrare i gatti. L'altra metà era divisa in due parti: una superiore e una inferiore; quella inferiore veniva chiusa con un paletto di legno posto ad incastro, mentre quella superiore veniva chiusa da una serratura detta «mascatora» azionata da chiave piuttosto grande e che rappresentava un gioiello di fattura dei fabbri di una volta.
In genere la porta veniva lasciata di giorno chiusa senza chiave, ma soltanto con la «natecchila» o «matecchila» (7).
D'inverno, quando il vento spirava in senso contrario, usciva dal camino fumo accecante che riempiva la casa, per cui era necessario tenere aperta la porta.
Il camino era indispensabile in ogni casa; il fuoco vivo dava luce, calore e vita.
Al fuoco d'inverno vi era costantemente una «pignata» di creta dove cuocevano fagioli, lenticchie, ceci, legumi in genere, essendo questi il cibo costante e prevalente del contadino.
Nelle case i cui abitanti erano titolari di un certo censo, il focolare era fornito di «capaffuochi» (alari), di «iataturo» (un tubo metallico che serve per soffiare sul fuoco), di una serie di palette.
Nei pressi del fuoco era sospeso alle travi un lungo pezzo di legno, una verga, dove d'inverno venivano appese la salsiccia, la soppressata, il lardo, la vescica del maiale riempita di sugna e salame, «a saìma e sauzizz». Tutti questi prodotti erano «curati» in modo eccellente dal fumo proveniente dalla focagna. Su questa stessa verga sospesa, d'estate, si appendevano peperoni, «diavolicchi» (piccoli peperoni molto forti), pomodori «seccagni» molto piccoli ed altri prodotti ortofrutticoli da conservare per l'inverno e sistemati in «nserte» (8).
D'estate vi si appendevano «scarcelle» (9) di fichi o «nserte di fichi», infilati con spago o filo di ginestra o con bastoncino di canna e formanti rombi o collane; tutti prodotti policromi che formavano un simpatico ornamento al monotono ambiente della casa.
Sulla focagna c'erano sempre uno o più lumi ad olio di creta già pronti sin dal mattino con il «miccio», lo stoppino e riempite d'olio da servire, sin dal vespro, ad illuminare la casa. Sospeso alla focagna c'era sempre sistemato un arnese in ferro battuto che a volte costituiva un ornamento «la camastra» (10), formato da grossi anelli e da ganci tutti uniti tra loro per appendervi la caldaia sul fuoco in sostituzione del trepiede.
Ogni anno ad aprile il contadino provvedeva da solo alla pulizia del camino per evitare che la fuliggine si incendiasse e, facendo dilatare gli elementi che lo componevano, potesse provocare lesioni alle strutture. Puliva il camino introducendovi dall'alto un arbusto irto di spine, «la spinapolice», legata ad una «zoca», spago grosso che veniva tirato dal basso per cui le spine e i rami grattavano dalla gola del camino tutta la fuliggine.
Ogni casa era fornita di forno, ubicato internamente o appena fuori la porta, il quale veniva usato in media una volta alla settimana per provvedere a fare il pane per il normale consumo.
Ogni casa era poi fornita degli attrezzi per fare il pane: «le pale», per porre nel forno il pane da cuocere, «a fazzatora» (11), recipiente di legno che serviva per ammassare e far lievitare la farina, «u munnolo» (12), lo spazzatoio per pulire il piano focolare del forno, «u tumpagno» (13), la tavola per impastare, «a rasola», lamiera di ferro con impugnatura che ha la funzione di piccola paletta, di raschietta e di coltello per tagliare la massa, «u laganature» (14), il mattarello, «a sc canatora» formata da un pezzo di legno piano su cui venivano poste le masse di pasta cresciuta, dette «sc canate».
La donna di casa, la sera, prima di «sc canare», cioè preparare «la massa», si metteva in giro per il vicinato per trovare «u lavate», il lievito; sapeva all'incirca chi potesse averlo e certamente lo trovava, essendo questa una delle cose che non si poteva negare a nessuno, neppure ai nemici, ammesso che lo chiedessero. Avuto il lievito, che veniva conservato in un piattino, coperto da una foglia di cavolo (cappuccio), la donna iniziava ad ammassare la pasta, e, dopo lievitata, preparava le «sc-canate » (15), cioè manipolava la farina mista ad acqua sino a renderla dura e faceva grossi pezzi di massa circolare, a volte con diametro di circa 30 cm. ognuna (dipendeva dal numero dei figli), e li metteva al forno appena pronto.
Il pane è stato sempre considerato una benedizione di Dio; quando veniva impastato ed era pronto per lievitare, «per crescere», si segnava con un coltello o con la «rasola» sulla «manata» un Croce. Durante il pasto, quando un pezzo di pane cadeva per terra, si soffiava prima per togliere eventuali impurità e poi si baciava con religioso rispetto essendo grazia di Dio. Tale rito ogni genitore lo insegnava al figlio ancora in tenera età. La «manata» doveva sempre stare appoggiata sul tavolo dalla parte piana; era un atto di dispregio alla grazia di Dio capovolgerla.
Nel forno veniva cotta la «vampuglia» , costituita da un poco di massa che serviva a provare la caloria del forno e che, di solito, veniva data ai piccoli i quali stavano sempre intorno attaccati al grembiule della mamma.
Si introduceva poi nel forno il «pane di caniglia» (16) (crusca) per il cane, il «piccilatiello», pane molto morbido a forma di grande ciambella, la «strazzata», una pizza con pomodoro e peperoni o con frattaglie di maiale o con sego o con altri ingredienti, il cui sapore è unico. Veniva anche cotta la «ficazza», un pane morbido infinitamente gustoso ed a forma di ruota schiacciata, e per ultimo veniva infornato il pane.
Nel forno veniva anche cotto il «asciumiello» (17), cioè pane azzimo preparato con semi di finocchio, pepe e altre spezie, ed in particolari occasioni, se il forno manteneva ancora sufficienti calorie, il «galantuomo», il contadino benestante, il massaro faceva mettere nel forno una coscia di capra chiamata la «sfacciatora di capra» dopo averla preparata con origano, lardo, aceto e altri aromi vari.
Il forno veniva poi usato per preparare tutti i commestibili da conservare: «friselle», «bottiglie di salsa», «pane menisco» cioè il mosto più volte andato in ebollizione reso quasi a forma di marmellata che raffreddandosi si induriva.
Sovente in fondo all'unica stanza di cui era composta la casa, se non aveva il «catuoscio», trovava ricovero anche l'animale da soma, asino, mulo, o cavallo il quale era considerato l'unico mezzo di trasporto, «l'attrezzo motore» per eseguire i lavori dei campi (aratura).
Unitamente agli altri animali non mancavano mai le galline, i colombi e i porcellini d'India.
L'agricoltore più agiato, in genere, abitava in case composte da due o tre vani; a piano terra era ubicata la stalla, dove venivano custoditi gli animali da soma ed il maiale, mentre al piano superiore abitava la famiglia. Ancora nel piano superiore, sotto il tetto, vi era una specie di mansarda che veniva adibita a ripostiglio «u ntimpiate». Vi si accedeva mediante una scala a pioli. «U ntimpiate» era un accessorio che non tutti avevano, in quanto era generalmente unico il locale adibito a casa del contadino.
Se la casa del contadino era fornita di finestra, sul davanzale veniva posta una pianta detta «ricchezza» quale auspicio per fugare la temuta e vissuta povertà.
Ai due spigoli inferiori della finestra, alla distanza di circa 20/50 centimetri da ogni spigolo, vi erano due fori da cui fuoriuscivano due pali ben conficcati nel muro. Sopra questi pali veniva posto un piano formato da canne legate molto strette tra loro con fili di salice e di spago. Su detto piano, «gradizza» (18), generalmente esposto a mezzogiorno (diversamente non sarebbe stato utile allo scopo) venivano posti i prodotti della terra, ortaggi e frutta, conserve e salsa di pomodoro.
Sulla «gradizza» i prodotti suddetti, posti a seccare al rovente sole d'estate, venivano poggiati su di un «ruagne» (19), cesto contenitore molto originale fatto di rami di ginestra legati e che ho imparato ad intrecciare sin da ragazzo. Veniva prima preparato un piano delle dimensioni di cm. 80 x 30 circa; intorno a questo piano, sempre con rami di ginestra legati, veniva fatto un bordo alto circa 10 centimetri. Serviva per proteggere i prodotti esposti al sole i quali potevano essere coperti con un altro «ruagne», qualora avessero bisogno di ombra.
«O ruagne» sono quasi completamente scomparsi e siamo rimasti in pochi a saperli intrecciare. Tutti i recipienti erano di legno, di creta o di terracotta; il vetro era un lusso. Un tipico recipiente era la zucca vuotata di semi e fatta seccare; vi si riponevano sale, spezie e sostanze non liquide. Altro recipiente era il «puzinetto» (20), il quale serviva a tutti gli usi e conteneva liquidi diversi.
Dalla finestra, all'altezza del verone, pendeva sempre una «rizzola», recipiente di creta o di terracotta molto maneggevole contenente acqua; sul verone vi era la «grasta» (21) il vaso con le piante di «pitrisino» (22) e di «vasilicoi» (23).
Di rilievo, nella casa tradizionale del contadino, erano i contenitori di acqua. Infatti, sino al primo ventennio di questo secolo, il paese era del tutto sprovvisto di acquedotto, per cui i cittadini si approvvigionavano alle fontane, distanti 2 3 km. dal paese.
Le fontane erano e sono situate nella parte bassa di Sant'Arcangelo e l'approvvigionamento giornaliero era effettuato con barili trasportati a dorso di animale o sul capo delle donne povere. Queste ultime, all'alba, si ponevano sul capo una «spara» (24), rotolo spesso di panno o di paglia su cui poggiava il barile della capacità di 30/50 litri, e si recavano alla fontana del «Cannone» o alla fontana di «Gavazzo» o a quella del «Molino di basso».
Ognuna, dopo aver atteso la sua «vécita» (25), il suo turno, riempiva il barile e ritornava in paese percorrendo una ripida salita che, anche oggi, si sale con difficoltà a piedi; a quei tempi le donne, anche più volte al giorno, la percorrevano con il peso del barile in testa, fermandosi, di tanto in tanto, per riposarsi «allu spinneture» (26).
A questo punto è opportuno fare una digressione per precisare che antichissima è l'usanza, che le donne (e solo le donne) avevano, di trasportare sul capo cesti e barili e pesi in genere.
Attenti osservatori forestieri hanno riscontrato che alcune contadine del mio paese hanno un portamento ritto ed altero e ciò, ritengo, sia dovuto alla abitudine (ormai quasi scomparsa) di portare in equilibrio sulla testa pesi di vario genere. Sulla testa erano solite portare il cesto con il figlio ultimo nato mentre, in braccio, l'altro appena svezzato e non ancora in grado di camminare a piedi.
Vi erano poi alcune donne capaci di portare in testa anche un quintale, specie quando si trattava di prodotti della terra o del bucato che andavano a lavare al fiume.
La donna, giunta in casa, riponeva il barile, «varricchio», sul «varlaro», quest'ultimo costruito con due piccoli tronchi di albero uniti ad una estremità disposti a «V» capovolta, della lunghezza di circa due metri con al centro dei due assi, due sbarre conficcate in due fori disposte parallelamente.
L'acqua veniva attinta dal barile con la «galetta», un recipiente a forma di tronco di cono formato da doghe di legno poste l'una vicina all'altra, legate tra loro da una cintola di legno o di ferro, o con la «gummola», recipiente di terracotta tondeggiante e panciuto con due anse laterali e terminante con un collo molto stretto; altro recipiente era la già citata «rizzola», anch'essa di terracotta, con l'apertura molto ampia.
L'argilla con cui erano fatti, e la tecnica di costruzione di questi due utilimi recipienti, permetteva di mantenere la temperatura interna quasi sempre costante sia d'inverno che d'estate (27).
Nelle case non vi erano servizi igienici; in quelle dei «galantuomini» si trovava, generalmente, una specie di sedia di legno tutta chiusa con al centro un grosso foro, con uno sportello nella parte sottostante il sedile, dove era sistemato un pitale di creta.
I contadini andavano a fare i propri bisogni o nella stalla cosa meno frequente o nella «garamma», cioè alla periferia del paese nei pressi della casa di ognuno. Gli artigiani, che generalmente non avevano stalle, andavano sempre nella «garamma» (burrone).
Si era stabilita spontaneamente una specie di consuetudine, secondo la quale, ad un determinato posto andavano le donne ed a una certa distanza in modo da non vedere le donne e non essere da queste veduti si sistemavano gli uomini. Sotto il rione palazzo vi era una località tutt'ora chiamata «u cacaturo».
Specialmente tra gli artigiani, che avevano più o meno gli stessi orari di apertura della bottega (es. calzolaio) o identico era l'orario di inizio del lavoro, (es. muratore) si stabiliva un rituale incontro mattutino «nculmirate» (cioè nella tipica posizione che assume chi fa i bisogni all'aria aperta), dove era anche piacevole scambiarsi quattro chiacchiere con il vicino o, lamentarsi con lo stesso, se provocava un eccessivo cattivo odore.
In genere si sceglievano le prime ore del mattino per fare quanto era naturale e necessario. Poteva tuttavia accadere che, durante il giorno, il bisogno si presentasse improvviso e lì, nella stessa «garamma» si soddisfacevano i propri bisogni. La «ghiefa» (28) o la «pietra» erano l'attuale carta igienica.
Il luogo preferito, comunque, era la campagna, l'aperta campagna durante i lavori.
Ogni casa era anche fornita di particolari recipienti di metallo o di creta che venivano usati in caso di malattia o quando particolari circostanze non consentivano l'allontanamento da casa.
Fino all'inizio del secolo il pitale veniva vuotato di sera tardi nella strada; era anche in uso che qualche contadino spargesse della paglia sulla strada (specialmente d'inverno nelle giornate autunnali o primaverili) dove venivano gettate le immondizie, il pitale ed ogni rifiuto.
Il contadino che aveva sparso la paglia la raccoglieva per usarla nel suo orto come concime, «rumato» (29) o «cruopene» (30).
Il contadino ha amato sempre la sua casa anche se un abituro, bassa, miserrima, come abbiamo visto, senza finestre, così come ha amato sempre le sue cose, i suoi attrezzi di lavoro. A proposito delle case si sentiva dai vecchi una strofetta molto significativa:

«Pure si tutte 'u munne jé paradise
lu ricrij de l'ommene jé 'a suja casa».

«Anche se tutto il mondo è paradiso
il godimento dell'uomo è la sua casa».

Il contadino, la sera, doveva sempre portare qualcosa a casa; anche quando si trovava a passare dal suo fondo senza avere con sé recipienti, legava le due maniche della giacca e vi introduceva frutta, pomodori, ortaggi. Anche questo comportamento sta a testimoniare il sentimento di amore e di rispetto verso la propria casa insito nell'animo.
L'affetto, l'amore per la propria casa, per i propri cari può far capire con quanto dolore nel passato remoto i nostri contadini sono partiti per le Americhe ed in un passato prossimo per l'Italia e per il mondo in cerca di lavoro.

Il focolare

Una particolare considerazione merita il focolare, il quale era ed è tutt'oggi il centro della casa, e ciò, non soltanto come ubicazione, ma come centro delle manifestazioni quotidiane della vita.
Infatti intorno al focolare si mangia, si concludono gli affari, si prepara il cibo quotidiano e quanto dovrà servire per un intero anno. Al focolare si ammazza il maiale, si fa la salsa, a Natale si fanno «o scrippelle» e «o cauzuncielli», a Pasqua «a curnata» e «a cicirata».
Al focolare si fanno delle lunghe conversazioni con amici, si raccontano le «palmedie», cioè i racconti, e «o cose cusell», le «cose coselle», le leggende (ora sempre meno per l'avvento della televisione), e si parla di tutto e di tutti mentre sul fuoco cuoce la «fella arrusciata» , una larga fetta di pane posta sui carboni ardenti che, una volta abbrustolita, viene condita con olio e sale oppure con olio e peperone in polvere o sulla quale vengono spalmati i «pomodori avernili».
Il bagliore della fiamma, lo screpitio del fuoco, il vino e le castagne consumate in compagnia di cari amici creano una atmosfera che non può sostituirsi a qualsiasi altro posto.
La penombra che dà il bagliore della fiamma si riflette sulle casseruole di rame, sempre ben lucide, appese alla «appennirama» e che, una volta, costituivano una componente necessaria della dote portata dalla donna nel matrimonio.
Nei pressi del focolare non manca mai una cassapanca dove si cura «u piattielle».
E’ una usanza che va scomparendo quella di mettere a germogliare, due settimane prima di Pasqua, in assoluta oscurità, alcuni semi di cereali in un piatto su del cotone grezzo bagnato; i germogli, innaffiati diturnamente e tenuti vicino ad una fonte di calore, si sviluppano rapidamente, e per la mancanza della luce solare che permette la funzione clorofilliana, assumono un colore giallo oro. «U piattielle» raggiunta l'altezza di 30 cm. e più viene ornato con santini, fiori e nastri colorati e serve per ornamento al S. Sepolcro nel Giovedì Santo. A Pasqua, quando il Sepolcro viene disfatto, quello che resta del piattiello, viene sparso per i campi seminati come augurio di buona annata.
Davanti al focolare si manifesta il sentimento di ospitalità che si conserva e si estrinseca con genuina semplicità, con franchezza di modi e di sentimenti ed a volte con affetto verso persone appena conosciute.
Con molta franchezza ed ospitalità si accoglie l'amico o lo sconosciuto viandante che non abbia dove ricoverarsi.
Il forestiero viene ristorato, trattato da ospite senza alcun corrispettivo, dal momento che il Lucano, anche se povero, non è mai misero. Se il forestiero ha con sé degli animali, vengono rinchiusi nella stalla dove vengono governatí ed abbeverati come gli altri.
Questo sentimento di ospitalità è antichissimo; Eraclide in un notissimo verso dice: «i Lucani sono ospitali e giusti» , Eliano, etc. (31).
A Natale o a Capodanno al focolare si pone un grande ceppo di legno perché arda tutta la notte. Questo uso di antica tradizione è mantenuto in quanto è credenza popolare che se la Madonna dovesse passare dalla casa,. potrà asciugare i panni di Gesù Bambino.
Il padre, chiamato «tatte» (32), come si è detto, pone il ceppo sul focolare ed i figli aggiungono piccoli pezzetti di legno i quali da un punto di vista pratico permettono un normale inizio di combustione del ceppo e dal punto di vista allegorico vogliono simboleggiare l'unione familiare.
Il ceppo si lascia ardere tutta la notte e deve spegnersi da sé. I resti che avanzano si conservano gelosamente come amuleti da usare per fugare tempeste, grandine, temporali, lampi. Per tal uso vengono anche usati i tizzoni, pezzi di legno incombusti rimasti dalle «vestilitate».
Sono questi fuochi di gioia che vengono accesi davanti la porta di casa la sera della vigilia di grandi feste paesane quali S. Michele Arcangelo (Santo, protettore del paese), S. Giuseppe etc. Mentre il fuoco è acceso i ragazzi (33) si cimentano a saltare da una parte all'altra dei fuochi, cosa che peraltro facevano i musicanti i più giovani nel loro giro serotino per il paese. Uno o più tizzoni vengono presi dal «titolare» del fuoco, cioè da colui il quale ha fornito la legna da ardere, e dai vicini.
La «iacchera», o fiaccola, è propriamente il tizzone acceso. Veniva usata per illuminare il passo al viandante di notte se era costretto ad effettuare un percorso, in paese o fuori paese, senza luce.

La cucina

La Basilicata in generale, e Sant'Arcangelo in particolare, si inseriscono in una consuetudine culinaria molto simile alle regioni limitrofe Puglia, Calabria, Campania.
Il cibo che quotidianamente si consuma è quasi francescano. Gli elementi essenziali sono tutti quelli provenienti dalla terra.
Tra le verdure e i legumi eccellono i fagioli nelle loro diverse specie: cannellini, poverelli, tabacchini, scritti, fagiolo lunato ed altre varietà. Impareggiabili sono i ceci cosiddetti «cottoi», nati in terreni non innaffiati, «siccagni».
Non meno buoni sono i cavoli, le rape, i carciofi, gli asparagi selvatici, i peperoni, buoni quanto quelli di Senise (34), i pomodori, le melenzane. Queste ultime vengono conservate sott'olio.
Le olive, a parte l'olio che danno buono quanto quello di Aliano (35), si usa conservarle, dopo averle trattate con la calce, in salamoia «abbonate» o curate con il sale ed il «sereno» (esposte al freddo di una notte senza pioggia).
Tutta la frutta è buona, dai fichi alle arance, dalle pere «briamonte» alle pere «masciatiche»; vi sono le pesche duracine grosse, di un giallo roseo con una punta alla base molto pronunciata dette «percoche».
Queste sono note anche nel raggio di molti chilometri.
Vi è la produzione del cedro «citrangulo» che pare abbia, specialmente per l'asina, un potere afrodisiaco.
I pascoli, poveri ma sostanziosi, procurano una ottima produzione di carni e di latticini.
Il capretto e l'agnello sono di un sapore particolare che soltanto nei paesi limitrofi, simili per pascolo, si possono trovare.
Il maiale mangia soltanto ghianda o «massata» (cioè crusca di grano duro mista a farina di granone, ceci, fave). La sua carne viene adoperata per ottimi prosciutti, salami, soppressate, capocolli. La soppressata è preparata con carne magra e riposta nell'intestino grasso. Vi si mette del pepe in grani; la carne ben compressa e legata è posta sotto dei pesi per farla stagionare.
La «Nnuglia» è la cosiddetta salsiccia «dei pezzenti»; è composta con poca carne e tutti gli scarti utilizzabili della soppressata e della salsiccia. Cotta con la verdura si ottiene un'ottima minestra.
La cosiddetta «luganica», così chiamata a Milano, è quella salsiccia con il peperoncino rosso già richiamata altrove.
Non da meno sono i latticini: formaggio pecorino e caprino, caciocavalli, scamorze, manteche, treccia, piluso, filiciata, ricuttalo e ricotta sistemata in fuscelli di giunco a forma di tronco di cono, di diverse misure piccole e grandi che abbiamo già esaminato.
Una volta vi era molta cacciagione: lepri, pernici, beccacce, tasso, istrice, cinghiale, tordi e merli in quantità; questi ultimi si sparavano alla «pagliarola» ossia al capanno.
Vi erano alcuni cacciatori che zufolavano e il loro suono era così dolce e così eufonico che sembrava un canto.
Da ricordare sono le anguille ed altri piccoli pesci pescati nel fiume Agri ed una specie di granchi «o gammere», che non sono mai riuscito a trovare nei due continenti da me visitati.
I piatti caratteristici del mio paese e dintorni sono, primi fra tutti: «maccaruni a cannicelli», cioè pasta fatta in casa arrotolata a un ferro sottile della lunghezza di circa 20 cm. a forma di una specie di bucatino; «ricchitele», le orecchiette; «lagana a tappa», una specie di pappardelle o fettuccine; «rasc catielle», una specie di gnocchi fatti soltanto di farina di grano duro incavati come una conchiglia; «scaffettune», una specie di rígatoni molto grandi; «maccheroni alla pastora», maccheroni conditi con ricotta, olio, sale con o senza pepe; «a nfrascatele», è una polenta fatta con farina di granturco e formaggio pecorino; «lagane con il latte», fettuccine più larghe delle normali cotte nel latte e che si mangiano il giorno dell'Ascensione; «ciambotta» fatta con uova, peperoni, melanzane e pomodori freschi e cipolla, se preferita; «o ghiummerielle», specie di involtini preparati con le interiora del capretto (se manca, anche di agnello) legate con l'intestino del medesimo cotte allo spiedo o sulla graticola o nel forno (36). Quando si arrotolano le interiora, viene messo del «diavolicchio», peperoncino molto piccante, aglio e qualche volta rosmarino. «Cucina maritata» viene fatta il giorno dell'Assunta; vengono cotti grano, fave, ceci, biada, cicerchia con altri prodotti della terra e conditi in vario modo.
«A menn da crape», prima di macellare una capra che allatta, si legano molto strette le mammelle al fine di non fare fuoriuscire il latte dai condotti. Dopo aver scuoiato l'animale si tagliano le due mammelle che si cucinano in vario modo.
«Code degli agnelli», gli agnelli, dopo qualche mese dalla nascita, vengono privati di una parte della coda per evitare che si impigli tra le spine dei boschi. La parte tagliata viene cucinata in modo diverso; il più comune è in umido con cipolla.
«Porchetta al forno», la porchetta intera viene tolta dal forno a metà cottura, riempita con pasta corta già cotta e condita e rimessa al forno fino a quando non è completamente cotta: «Strazzate p'o frittele» focaccia con le «cicciole» sono queste varie parti del maiale avanzate dopo aver ricavato lo strutto. Di «strazzate» vi sono una miriade di varietà.
«Pastizzo», si mangia a Pasqua e viene preparato con uova, salame, formaggio o con ricotta e messo al forno; a Rotondella viene fatto con l'agnello. La madre di un mio amico è impareggiabile nel prepararlo. «Curnata» una specie di torta dolce o no, a forma di corona circolare, con sopra le uova (di numero dispari). «Pupecielle» dolce fatto a forma di bambola o di fantoccio che viene regalato alle bambine. Si preparano molti altri dolci, taralli, con latte e miele, «pane minisco» ecc.
Per ultimo desidero ricordare il cibo più semplice del contadino: «l'acqua sale» preparato con pane duro bagnato e condito con olio sale e talvolta pomodoro.
lll


NOTE

1) Il contadino è solito ripetere di essere di «facce 'n terra» di faccia a terra cioè misero, non aiutato da nessuno e costretto a lavorare una terra infeconda ed avara. Il lavoro è bestemmia specialmente quando è «a patrune» cioè subordinato alle dipendenze di un padrone.
2) Dal greco: ostracou terra cotta, pavimento di terra cotta.
3) Dal greco catagaioz = sotterraneo.
4) Dal greco uach = pelle lanosa, vello (OM., Od., 14, 530).
5) Dal greco gwuia angolo «ncogne» propriamente significa angolo un po' nascosto.
6) Dal greco steileiou = manico della scure (OM., Od., 5, 236) mentre stelea = occhio della scure (OM., Od., 21, 422).
7) Piccolo arnese di legno che si muove intorno ad un chiodo o ad un perno di legno infisso in una parte della porta e serve a fermare anche l'altra. Forse di derivazione greca: meta ‑ kliuv = mi inchino, mi volgo, giro.
8) Dal greco seira,az = corda, fune. seirh,hz ionico
9) Dal greco iscaz = fico secco.
10) Dal greco krhmastoz = appeso o calastou = catena.
11) Dal greco massw = impastare: per trasformazione da massatora o da mazzatora si è passato a fazzatora.
12) Dal greco moleiu (blwokw) = vado e vengo infatti per pulire il piano del forno con il «munnolo» si deve fare appunto questo movimento.
13) Dal greco tumpauou = tavola per impastare, ma è anche il fondo delle botti e dei barili. Era altresì una «macchina» sulla quale si stendevano i delinquenti per martoriarli (vocabolario Greco Italiano, Rigutini 1912, Firenze, Barbera).
14) Dal greco lagauou pasta sottile a sfoglia.
15) Dal greco iscauaw raffreno, indurisco.
16) Così detto perché il pane fatto di crusca si dava ai cani, ai maiali ecc.
17) Dal greco azumoz - ou non lievitato.
18) Dal greco: iraioz divenire vecchio, seccare ed izw = pongo, colloco, stendo.
19) Dal greco ruomai = difendo, preservo, proteggo, copro.
20) Dal greco potizw = abbeverare.
21) Dal greco gastra = vaso.
22) Dal greco sun‑petra = insieme alle pietre, pianta che nasce tra le pietre.
23) Dal greco basileuz basilikoz = re, regale, pianta regale.
24) Dal greco sparganon = fascia.
25) Dal latino vicis (genitivo manca di nominativo) = mutazione, cambio.
26) Dal latino ponere cioè collocare, porre; da ex ponere cioè porre il peso su di un poggiolo, un parapetto.
27) L'acqua è arrivata in Sant'Arcangelo nell'anno 1926; molta povera gente è morta proprio per l'acqua, sia perché veniva attinta da fonti inquinate sia perché, pur di non perdere una giornata di lavoro, veniva attinta durante la notte in luoghi insalubri, inaccessibili, sfidando l'inclemenza del tempo. Ancora oggi in Sant'Arcangelo l'acqua non è sufficiente nonostante la zona dove gravita Sant'Arcangelo (lago del Pertusillo) fornisca acqua alla sempre sitibonda Puglia.
28) Zolle di terra.
29) Dal greco rumma-atos oppure luma‑lumatoz = immondizia, sporcizia; rumato è detto anche il concime organico derivato dagli escrementi animali.
30) Dal greco koproz sterco, letame.
31) Cfr. GIUSEPPE ANTONINI, La Lucania, discorsi parte I discorso III, pagg. 30 31.
32) Dal greco atta caro padre. E’ questo, per me, il più bel nome con il quale il figlio possa chiamare il padre. Caro padre è l'espressione migliore e semplice dell'affetto filiale.
33) OVIDIO, Fasti, libro IV: «Moxque per ardentes stipulae crepitantis acervos Trajicias celeri strenua membra pede».
34) Senise è un paese vicino Sant'Arcangelo, noto anche per gli ortaggi ed in particolare per i peperoni.
35) Aliano è un paese vicino Sant'Arcangelo, sull'altra riva dell'Agri, noto per essere stato il luogo di confino di Carlo Levi che nel suo libro «Cristo si è fermato ad Eboli», ne ha descritto, fra l'altro, i costumi.
36) È un cibo da «cannarute» cioè da buongustaio raffinato e goloso.


 

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