PARTE
VII
Le fiamme si
levavano alte nel camino della biblioteca dove don Giuseppe Glinni in
preda a rabbia e furore gettava, dopo averle strappate, le pagine dei
suoi scritti urlando parole indecifrabili che somigliavano a violenti
anatemi. In casa c’era solo Rosina e Geppina; gli altri erano in chiesa,
dove si celebrava una messa solenne in onore della Vergine che aveva
schiacciato il serpente tentatore e vinto il peccato.
-Don Giuseppe, per carità, aprite la porta. Che sono queste grida? Avete
bisogno di qualcosa?
Poiché il padrone non rispondeva, anzi continuava a gridare mentre il
bagliore delle fiamme si scorgeva attraverso l’ampio vetro che a forma
di grande mezzaluna completava in alto la porta, Rosina decise di
correre da donna Isabella, rimasta in casa per essere incinta di tre
mesi con una gravidanza che dava qualche apprensione.
-Donna Isabella, per pietà, accorrete. Don Giuseppe è come impazzito. Si è
chiuso nella biblioteca, urla come un forsennato e dà alle fiamme non so
bene se libri, carte o ciò che gli capita tra le mani. In casa non c’è
nessuno in grado di dissuaderlo, siamo solo io e Geppina, gli altri sono
in chiesa o nei campi. Solo voi potete aiutarci, solo a voi forse vostro
zio darà ascolto.
Un tumulto di pensieri occupò la mente di Isabella mentre poggiava sulle
spalle la mantella e si annodava il nastro di raso azzurro che
tratteneva il cappellino.
-Andiamo Rosina, non perdiamo del tempo che potrebbe risultare prezioso.
Stammi vicino e fammi appoggiare al tuo braccio; non sto molto bene e
tutto questo mi sconvolge. Proverò a risolvere ogni cosa, ma se sarà
necessario andrai a chiamare qualcuno in chiesa che ci aiuti.
Giunsero trafelate in casa. Nell’anticamera della biblioteca si spandeva
un bagliore rossastro e in tutte le stanze dalle alte navate a croce
echeggiavano le urla di don Giuseppe.
-Zio Giuseppe, sono Isabella. Ho bisogno di vedervi e parlarvi. Vi prego!
Aprite! Per l’affetto che tutti noi vi portiamo e in particolare in nome
degli ideali che mi avete inculcato e per i quali non potete deludermi.
Per voi e per lo zio Filippo l’arcidiacono la biblioteca era un
sacrario. Aprite per pietà nostra e per rispetto al passato.
Le urla tacquero. Alle invocazioni di Isabella intercorse una lunga pausa
di silenzio. Era in grande agitazione. Come avrebbe reagito lo zio?
Avrebbe aperto la porta o, invece, insensibile alla sua preghiera,
avrebbe continuato a fare scempio delle opere contenute nella
biblioteca? Il rumore della serratura che si apriva la distolse dai suoi
pensieri e la confortò. La scena che le apparve davanti agli occhi fu
terrificante; un calore intenso misto all’odore acre del fumo irritava
immediatamente la gola; nel camino le fiamme erano altissime, tanto che
alcune lingue di fuoco fuoriuscivano e lambivano il piano di marmo,
ormai nero. Un alto mucchio di carte e di pergamene ardeva crepitando,
mentre lo zio Giuseppe, come uno spiritato, dopo averle aperto,
continuava a strappare fogli pronunziando frasi oscure e parole
impenetrabili.
- E’ vero, è vero, miei cari signori, vogliono defraudare il Cristo della
sua regalità…vogliono spogliarlo della sua divinità…Oh! no, no, non
permetterò che ciò avvenga. Al fuoco, al fuoco i miei scritti, forza…Che
nessuno scavi nella cattedrale…non si aprano le parti murate della
cripta… non si violi il suo mistero… la chiave è nelle immagini e nei
simboli dei bassorilievi. Il fuoco purificatore distrugga il frutto del
mio lavoro…la scoperta dolorosa e incredibile. Ahimè! Quanto sudore,
quanta pena! Ascoltatemi zio Filippo, dovunque voi siate, dovunque sia
il vostro approdo dopo la morte, la ricerca non è stata vana. I
cavalieri con il mantello bianco e la croce rossa sul petto hanno tutto
difeso e nascosto.
-Zio Giuseppe, per l’amor di Dio!
-“Per l’amor di Dio” hai detto e proprio per il suo amore sto difendendo
il figlio. Che mai si sappia ciò che ho scoperto dopo notti d’insonnia e
giorni di solitudine chino sulle carte antiche, sulle carte del dolore.
Ormai l’opera è compiuta, nulla resta che comprovi, che accusi, che
alluda. Ho dato tutto alle fiamme. Lasciatemi alla mia profonda
tristezza, chiudete la cattedrale, che mai nessuno osi…
-Zio, tornate in voi, guardatemi. Non distruggete i vostri scritti. Così
facendo, togliete la possibilità di consultarli.Voi siete sempre stato
per me esempio e sostegno, non deludetemi, non fatemi soffrire,
oltretutto non sto bene. Aspetto un bambino. Avrei voluto rivelarvelo in
un colloquio di affetto, confidenziale come quelli di un tempo; ma lo
faccio ora, in un momento, che non mi pare il più opportuno, perché
spero che questa mia rivelazione vi faccia desistere da insani disegni e
vi fermi nell’opera di distruzione.
Don Giuseppe in uno slancio immediato abbracciò Isabella e la strinse al
cuore lasciandosi andare ad uno sfogo liberatore.
-Perdonami, Isabella, perdonami. Non merito la tua comprensione, la verità
è che non sono più lo stesso da quando su invito dell’arcidiacono ho
dato inizio ad una ricerca difficile, laboriosa il cui risultato mi ha
fatto paura perché avrebbe annullato secoli di storia, di fede, di
obbedienza. La mia mente, già stanca dopo mesi e mesi di intensa e
accanita ricerca, non ha retto alla scoperta emozionante, addirittura
traumatica ed ha perso il controllo che ogni saggia persona dovrebbe
avere quali che siano le evenienze. Ho sbagliato il modo e riprovevole è
stato il mio comportamento così furioso; però, la decisione di bruciare
carte tanto pericolose era indispensabile. Sii certa di ciò che ti dico…
-Ma, zio, fate che conosca la causa di tanta angoscia sì che possa
aiutarvi?
-No, no. Dimentica quanto hai visto e sentito, né ti resti la curiosità di
sapere che, in questo caso, risulterebbe inquietante anche per te e la
tua famiglia. Non parlarne neppure ad Antonio perché, essendo egli
persona di volontà tenace, temo possa decidere di penetrare il mistero
che avvolge il mio destino e quello di tanti uomini eccellenti.
-Come volete voi, non insisto. Assicuratemi, però, che non avete bisogno
di nulla così che io mi allontani tranquilla. Ho davvero bisogno di
riposo dopo lo spavento che mi ha fatto temere il peggio. Anche voi
avete necessità di rasserenarvi, vi propongo di accompagnarmi a casa in
modo che Rosina e gli altri, quando saranno tornati, possano sistemare
la biblioteca che è sottosopra e sedare le fiamme del camino. Mi farete
compagnia e parleremo come non facciamo più da tempo giacché voi eravate
sempre impegnato, lontano da noi ad inseguire le vostre utopie.
-Ti ringrazio, ma non posso. Devo sorvegliare che la biblioteca sia
riordinata secondo la mia volontà ed in più è necessario che io mi calmi
e torni alla piena padronanza delle mie facoltà.. Ti prometto che verrò
a trovarti quanto prima. Ora va’ con il mio augurio che la Vergine Maria
benedica il tuo grembo e ti dia tutta la felicità che meriti. Grazie di
essere venuta in mio soccorso.
Isabella si avviò lentamente dopo essersi accomiatata dallo zio e dopo
aver fatto alcune raccomandazioni a Rosina e Geppina perché avessero
cura di lui e in caso di urgenza la avvisassero. Ciò che aveva sentito e
visto l’aveva turbata profondamente. Cosa nascondeva di tanto terribile
lo zio Giuseppe? Si sarebbe mai riavuto dall’evento doloroso che egli
stesso aveva provocato e di cui non si era pentito poiché, a suo dire,
era inevitabile, altrimenti…? Era il caso che dicesse ad Antonio quanto
era successo senza riferirgli le vaghe parole dette confusamente dallo
zio, che facevano immaginare qualcosa di misterioso e arcano?
Finalmente, giunse nella sua casa e si sentì al sicuro. Il suo sposo le
garantiva una vita tranquilla e faceva del tutto per tenerla lontana da
qualsiasi preoccupazione, in special modo da quando aveva appreso che
aspettava un bambino. Una volta Isabella, abituata a interessarsi di
tante cose nella grande casa, gli aveva detto che, così protetta, si
sentiva lontana dalla vita e che avrebbe voluto essergli più vicina
nell’andamento degli affari e di tutto ciò che riguardava la famiglia e
la casa. Egli le aveva risposto che sarebbe venuto il tempo in cui le
avrebbe chiesto una maggiore partecipazione, ma, finché gli fosse stato
possibile, avrebbe fatto in modo che ella vivesse serena. Questo
atteggiamento di Antonio la inteneriva.
Chiamò Assunta e le chiese di portarle a letto la tisana calda che le
aveva ordinato il medico in caso di malori. In realtà, non si sentiva
affatto bene e le sue energie erano state messe a dura prova. La fedele
domestica, nel vederla così pallida, si era spaventata e non le aveva
nascosto i suoi timori.
-Non ti preoccupare, starò meglio dopo essermi riposata e riscaldata.
Brividi di freddo percorrono le mie braccia e la schiena.
-Madonna della Bruna, Madonna delle rose, aiutaci. Ma cosa è successo?
Dove siete corsa? Non sapete che nel vostro stato dovete riguardarvi? E
già da ieri avevate qualche sofferenza. Vi aiuto a mettervi a letto e
corro a prepararvi la tisana. Voglio anche mettere la scopa fuori la
porta per scacciare il malocchio. Siete bella e fortunata e perciò
attirate l’invidia. Gesù e tutti i Santi proteggano questa casa. Il
padrone è pure lontano e non torna che domani.
Isabella ebbe la forza di sorridere alle invocazioni contrastanti di
Assunta, ma non poteva nascondere a se stessa di aver paura che le sue
condizioni peggiorassero.
In realtà peggiorarono. Sopraggiunse una febbre alta che le portò un
tremore incontrollabile e un forte senso di nausea. Era necessario che
il dottore accorresse. Minguccio andò a prenderlo con il calesse mentre
Assunta l’assisteva mettendole dei fazzoletti di lino bagnati sulla
fronte in fiamme.
-Madonna del Carmine, Madonna di Viggiano assistete la mia padrona, anche
lei sta per divenire madre, proteggete il suo ventre dall’insidia di
questa febbre malefica. San Cosma e San Damiano, santi medici benedetti,
vegliate sulla mia padrona che è tanto buona e ha pietà dei poveri e dei
derelitti.
Trascorsero giorni di grande agitazione giacché stentava a riprendersi e
si temeva per la vita del bambino. Fu necessario un consulto e vennero
due medici, uno da Potenza ed uno da Napoli, quest’ultimo amico di don
Filippo, il padre di Isabella. La madre e il marito non la lasciavano un
attimo sola e si dedicarono a lei con tutto l’amore possibile. A don
Giuseppe non fu detto nulla di ciò che era successo e delle condizioni
della nipote, anche perché dal giorno del tragico episodio non fu più lo
stesso. Rimaneva chiuso nella biblioteca per ore e spesso lo si sentiva
parlare da solo di chissà quali fantasticherie. Per di più rifiutava il
cibo né servivano le preghiere e le proteste. Un giorno l’arcivescovo in
persona andò a trovarlo e rimasero chiusi per molto tempo nella
biblioteca a parlare di cose di cui nessuno mai sarebbe venuto a
conoscenza. Di una cosa furono testimoni Rosina e gli altri: quando
l’arcivescovo andò via, apparve molto sereno, come sollevato da un peso.
Ringraziò calorosamente don Giuseppe, benedì tutti e tornò in gran
fretta in cattedrale. Si seppe che il giorno successivo alla visita in
casa Glinni era partito per Roma in udienza privata dal Papa.
-Donna Isabella è fuori pericolo ed anche il bambino sta bene; è stato
davvero un miracolo dal momento che ella, non potendo assumere farmaci
nocivi per il piccolo, è stata curata soltanto con decotti e cataplasmi.
Ora ha bisogno di quiete e tranquillità. Non deve assolutamente avere
altri traumi che potrebbero esserle fatali.
Così il medico a don Antonio, che lo aspettava fuori la porta della camera
da letto matrimoniale con ansia visibile. Erano amici fraterni ed
avevano studiato insieme a Potenza e poi a Napoli. Uno si era laureato
in Medicina e l’altro in Scienze dell’agricoltura.
-Mio caro Gioacchino non posso che ringraziarti per quanto hai fatto per
la mia sposa, per mio figlio e per me. Hai curato Isabella con perizia
che ti è stata riconosciuta anche dai luminari venuti da fuori. Ella,
però, è ancora affidata alle tue cure, non dimenticarlo.
Chiamò quindi Minguccio e gli ordinò di caricare sulla carrozza del
dottore due damigiane del migliore vino della cantina e due damigiane di
olio, quello dolce ricavato dalle olive maiatiche, il più pregiato che
avessero.
Accompagnato l’amico alla porta, corse in camera da Isabella. Aveva
bisogno di vederla e di parlarle dopo tanta pena. Ma ella dormiva. Si
soffermò a guardarla. Mai aveva provato per lei tanta tenerezza e
desiderio di stringerla a sé, mai aveva avuto la sensazione di amarla
tanto, più della sua stessa vita. Lasciò la camera silenziosamente e si
recò dalla madre di Isabella per darle la buona notizia. Questa era in
cucina indaffarata a preparare il pranzo insieme con la servitù.
-Donna Lucia, Isabella e il bambino sono salvi. Il dottore ne è certo,
anche se è ancora necessario che ella stia a riposo e si riguardi. Vi
prego di rimanere ancora da noi e continuare a prestare la vostra opera
che fin qui è risultata efficacissima. Io spesso dovrò allontanarmi a
causa degli affari che ho a lungo trascurati, e sarei tranquillo nel
sapervi vicino ad Isabella. Può cominciare a ricevere visite e questo la
renderà felice. Che vengano Marianna, la cara Rosa, che ha tanto
sofferto per la sua malattia, e gli altri parenti che si sono
interessati a lei, naturalmente un po’ alla volta. Sono tanti!
E si lasciò andare ad una sonora risata che meravigliò tutti, anche se
tutti capirono che quella risata era come un lungo sospiro di sollievo.
Antonio non riferì mai ad Isabella ciò che aveva detto ripetutamente
durante gli incubi che le procurava la febbre alta.
-…I cavalieri antichi vestiti di bianco con la croce rossa sul petto
entrano nella grande casa per rapire lo zio Giuseppe…Zio, per carità non
bruciate i testi… Le fiamme lambiscono la veste dell’arcivescovo…La
cattedrale è in pericolo, vogliono distruggere le
testimonianze…Accorrete! Accorrete! Io non ho la forza…Aiuto! Aiutatemi!
Si era chiesto se i vaneggiamenti di Isabella fossero frutto dell’ardore
febbrile o avessero un nesso con quanto era avvenuto nella biblioteca
dello zio e che a lui era stato riferito molto confusamente dagli
inservienti della grande casa. Si riprometteva di parlarne con don
Giuseppe, ma avrebbe fatto passare del tempo. Provava, però, un certo
disagio a pensare a questo perché era al corrente di strane dicerie
sulla curia arcivescovile, su alcuni notabili della città, sui
misteriosi cavalieri Templari che, per quanto fossero stati perseguitati
e uccisi in gran numero, facevano sentire ancora la loro presenza, anche
nella terra lucana. Non era escluso che nella famiglia Glinni,
proveniente dalla lontana Irlanda, da cui era stata cacciata per la sua
eroica fedeltà alla religione cattolica, si celassero dei segreti.
*
Isabella era nel giardino in compagnia di Arcangela, una nuova giovane
domestica. Il suo nome, così importante, contrastava con la sua
personcina dimessa. Era docile e attenta; e Isabella aveva cura che
fosse nutrita e ben vestita. Non le faceva mancare segni tangibili di
affetto. Era convinta che la servitù fosse la condizione più dolorosa e,
perciò, cercava di alleviarla nel miglior modo possibile. D’altronde, i
giovani “messi a padrone”, come era in uso dire, ambivano ad
allontanarsi dalla loro famiglia per sfuggire ad un destino peggiore.
Isabella godeva al tepore primaverile insieme con la figlioletta, nata
dopo un travaglio che l’aveva lasciata stremata, ma felice che fosse una
bambina sana e vigorosa. Il suo pianto, infatti, echeggiò per tutta la
casa e sollevò il povero Antonio che aveva vissuto ore di angoscia e di
preoccupazione. Isabella aveva voluto chiamarla Marianna, perché era un
nome ricorrente nella famiglia e le piaceva molto. Arcangela spingeva
con accortezza la piccola sull’altalena, che era il suo gioco preferito;
il movimento dell’aria le faceva chiudere gli occhi, le scompigliava i
capelli ed ella si divertiva, gridando di gioia.
Erano passati quasi quattro anni dai brutti giorni della sua malattia e
dalla lenta consunzione cui si lasciò andare lo zio Giuseppe, dopo
l’episodio violento in biblioteca che la faceva ancora rabbrividire.
Sembrava che una rivelazione angosciosa gli avesse procurato un tormento
che non lo abbandonava. Niente e nessuno riuscì a distoglierlo dai suoi
pensieri, neppure la nascita di Marianna, la figlia di Isabella, la
nipote prediletta. Egli era andato a trovarla e le aveva portato un
ciondolo d’oro, una croce di stile bizantino tempestata di pietre
preziose, che era appartenuta ad una antenata e che era toccata a lui
nella spartizione dei gioielli di famiglia. Quella fu l’ultima uscita
del dotto Giuseppe Ottomani, l’uomo di cultura che aveva conquistato gli
intellettuali napoletani con le sue conoscenze, che aveva sacrificato la
vita privata allo studio, che, ancora giovanissimo, a poco più di
trent’anni era morto, portando con sé un segreto, la cui scoperta lo
aveva stravolto e costernato, tanto da fargli perdere il sapiente
equilibrio cui negli anni era pervenuto. Egli volle recarsi a Napoli,
quasi un pellegrinaggio spirituale nell’estremo tentativo di dissolvere
il suo affanno a contatto con persone e luoghi conosciuti e amati. Ma,
poco dopo il suo arrivo, neppure il tempo di riallacciare i rapporti,
morì in modo fulmineo. Dissero per un colpo apoplettico; ma la sua morte
lasciò molti sospetti. Qualcuno dubitò che fosse stato avvelenato. Era
il marzo del 1786. Fu pianto dai parenti, perché sarebbe loro mancata la
sua dolce presenza, e dagli amici, che conoscevano la sua ampia cultura
e ne apprezzavano il profondo valore. Fu pianto anche da quelli che non
lo avevano compreso, o perché incapaci di farlo o perché non ne
condividevano le scelte e i principi. Ad Acerenza fu celebrata una messa
di requie cantata; don Saverio pronunziò parole toccanti che, insieme
con la musica, generarono grandissima commozione nei presenti. Era
ancora giovane e tutti sapevano che si era lasciato morire, dopo aver
smarrito i legami con la sua esistenza
Per molti mesi- così si racconta- chi passava sotto la finestra di don
Giuseppe Ottomani poteva udire il crepitare delle pergamene sfogliate in
modo frenetico e una voce pronunziare parole incomprensibili. Don
Saverio diceva che erano fantasticherie; l’anima del fratello era
certamente in cielo per le sue virtù. Nella sua vita non aveva coltivato
che il sapere e gli affetti familiari.
Isabella soffrì molto. Le sembrava che si fosse spenta una luce che aveva
illuminato la sua anima e l’aveva resa feconda. L’arcivescovo partecipò
a tutti i riti funebri e fu molto vicino ai familiari non perdendo
occasione per ricordare le eccezionali doti del defunto. A chi lo
conosceva bene, però, sembrò che si fosse liberato di un cruccio, come
se la morte del dotto don Giuseppe Glinni, se da un lato lo rattristava,
dall’altro rappresentava per lui un sollievo.
Una mattina don Saverio mandò a chiamare Isabella perché aveva bisogno del
suo aiuto per sistemare la camera del caro Giuseppe. Ella indossò la
mantella e il cappellino e fu subito da lui. Era doveroso prestarsi per
la grande casa, dove aveva trascorso una parte così importante della sua
vita. Si disposero alla dolorosa occupazione non senza una profonda
mestizia. Le piccole cose che don Giuseppe custodiva denotavano l’animo
semplice di una persona che aveva scelto di dedicare la sua esistenza
alla cultura e si contentava di poco, preso com’era dai suoi impegni.
Continuavano silenziosi ad assolvere al triste compito, quando furono
sconvolti da un ritrovamento che risultò strano e incomprensibile a don
Saverio, ma che fu subito collegato da Isabella a certe frammentarie
rivelazioni che ella aveva appreso durante l’insana decisione dello zio
di bruciare i suoi scritti, cosa che aveva segnato profondamente la sua
vita. Dopo aver riordinato un armadio incassato nel muro, trovarono una
grande scatola, nascosta in un vano, a cui si accedeva attraverso una
breve parete scorrevole. Don Saverio inavvertitamente aveva mosso un
meccanismo segreto. Nella scatola, coperto da una lunga e larga
pergamena stranamente istoriata, era conservato un vestito di Cavaliere
del Tempio, completo di ogni particolare, ma senza la spada, con un
lungo scettro, ornato da una placca rotonda incisa con la croce
dell’Ordine, ed un vessillo nero e argento, arrotolato intorno ad
un’asta sottile.
Appena mossero la scatola una polverina grigia scivolò dalla pergamena e
si dissolse: purtroppo le iscrizioni e le storie raffigurate erano
andate perdute perché molto antiche o a causa dell’umidità della parete.
Don Saverio impallidì e, rivolgendosi ad Isabella, manifestò il suo
stupore.
-Un abito di Cavaliere Templare? L’ho riconosciuto perché mi è capitato di
vedere alcune illustrazioni sui libri. Come mai è qui, Isabella? A chi è
appartenuto? Credevo di conoscere la storia della mia famiglia e dei
suoi componenti, ma mi sbagliavo. Ora, però, faticosamente riaffiorano
alla mia mente strani sguardi di intesa tra lo zio Filippo e il giovane
Giuseppe. Qualcosa di misterioso avvolge il cammino della mia famiglia e
qualcosa di inquietante scoprì Giuseppe, il mattino in cui diede fuoco
alle sue carte. Isabella, tu che gli sei stata sempre molto vicina fino
a condividere gusti e scelte, sai darmi qualche indicazione su
quest’abito o altro che ci possa aiutare a scoprire questo mistero?
Isabella, anch’ella sorpresa per il ritrovamento, si guardò bene dal
rivelare a don Saverio ciò che aveva udito durante il delirio dello zio
Giuseppe, perché le sembrava di tradire il suo desiderio che il segreto
non fosse svelato, e poi, perché, non essendo in possesso di una verità
certa, non le sembrava opportuno insinuare nella mente di don Saverio
curiosità e dubbi, perplessità e timori. Anche se si sentiva
profondamente turbata, gli rispose con una calma che sorprese lei
stessa.
-Come potete pensarlo? Non so nulla, soltanto una volta zio Filippo ci
parlò dell’antico ordine del Cavalieri del Tempio. Tutto qui. Non so
altro.
-Cercherò di saperne di più. Ma a chi chiedere e come indagare? Non vorrei
fare passi falsi. Io sono del parere di non far parola con nessuno di
ciò che abbiamo trovato, specialmente ai ragazzi che, spinti dalla
curiosità, potrebbero far danni. Nascondiamo di nuovo l’abito; poi, dopo
che Rosina avrà rigovernato la camera, la chiuderò e ne custodirò la
chiave.
-Così è ben fatto. Quando verrete a benedire la mia casa per la Santa
Pasqua? Ci tengo che mi avvisiate perché voglio che si trovi anche
Antonio. Arrivederci.
Don Saverio la ringraziò e la salutò soprappensiero. La sua mente era
altrove. D’altronde, anche il commiato di Isabella fu piuttosto una fuga
poiché ella non avrebbe retto a lungo alla tensione che si era
impadronita di lei di fronte all’incalzare delle domande dello zio
canonico. Lungo la strada fu assillata da tanti interrogativi. A chi era
appartenuto quell’abito? Allo zio Filippo, sempre così vicino alla
Chiesa e all’arcivescovo, tanto da meritare la dignità
dell’arcidiaconato? O ad uno degli antenati irlandesi? O allo stesso zio
Giuseppe? Ricordava bene le sue parole” I cavalieri col mantello bianco
e la croce rossa sul petto hanno tutto difeso e nascosto…Chiudete la
cattedrale… che nessuno osi…”
Sempre si era chiesta, anche prima delle ultime vicende, chi avesse voluto
la costruzione di quel maestoso edificio in un paesino sperduto come
Acerenza, dove le case che lo circondavano erano in visibile contrasto
con la sua imponenza. Gli acheruntini, per lo più gente di campagna,
erano abituati a piccole chiesette e dapprincipio, così si tramanda, si
sentirono persi in quell’immensità, Dicevano che non sapevano più
pregare, che non trovavano più le parole per farlo poiché non vedevano
più il Signore vicino a loro, ma troppo in alto, troppo lontano. Un
brivido percorse il corpo di Isabella “Dio mio, cosa nasconde la
cattedrale di Acerenza?” E un’ ombra oscurò il senso di rifugio, che
essa aveva rappresentato per lei, ed anche il senso di orgoglio che
provava di fronte alla sua grandiosità.
Arrivata a casa fu richiamata ai suoi compiti di madre, che la distolsero
dai pensieri incresciosi che l’avevano presa. Nei giorni appresso, però,
riandando con la mente agli ultimi avvenimenti, si chiedeva se non fosse
stato il caso di confidarsi con Antonio; ma, non voleva venir meno al
patto che aveva fatto con lo zio canonico.
*
Di lì a qualche anno, un’altra notizia dolorosa colpì profondamente
Isabella: la morte dello zio Antonio, che ella aveva ammirato
tacitamente, perché aveva avuto il coraggio di difendere il suo sogno
d’amore contro tutto e tutti. Era morto a Napoli ed era stato sepolto
per sua volontà ad Acerenza nella tomba di famiglia. Lo aveva
accompagnato nell’ultimo viaggio la moglie Matilde, che fu ospite di
Isabella che la accolse volentieri un po’ perché in fondo allo zio
Antonio era rimasta legata e di più, forse, spinta dal desiderio di
conoscere da vicino la donna che aveva suscitato una così grande
passione. Di Matilde la colpirono il sorriso intelligente, la sana
curiosità e un modo di vestire piuttosto eccentrico, che era segno di
uno spirito indipendente e poco manieroso. Disse ad Isabella che avrebbe
preferito che il corpo del marito fosse seppellito a Napoli per averlo
vicino, ma aveva rispettato l’ultimo desiderio di Antonio di tornare ad
Acerenza dove - era solito dire - l’aria porta gli odori delle querce,
dei larici, dei cipressi e i canti dei boschi. Le lasciò una copia di
una pubblicazione dello zio nota ed apprezzata nell’ambiente
scientifico. Partì subito. Aveva fretta di andar via; non perdonava alla
famiglia Glinni di non averla accettata e, quindi, di aver costretto il
marito a vivere lontano, quasi in esilio, salvo rare apparizioni.
Isabella l’accompagnò alla carrozza. Accomiatandosi, le disse:
-Matilde, quando vorrai venire, la mia casa e la mia famiglia sono a tua
disposizione. Io ho voluto molto bene allo zio Antonio e ho compreso la
sua scelta; anche io sono stata vicina a vivere una unione tumultuosa,
inconciliabile con le consuetudini familiari e locali, che avrebbe
richiesto spirito di sacrificio e d’avventura. La nostra era una
passione impossibile…l’altro mi amava troppo per espormi a pericoli e
rischi di ogni genere. Venne la inevitabile rottura e tanta sofferenza
che sembrava dovesse durare per sempre. Poi, la miracolosa comparsa di
mio marito, che mi ha sottratto ad una vita di solitudine e di rimpianto
e mi ha fatto conoscere una realtà che mi appaga pienamente.
Ci fu un attimo di silenzio tra le due donne, poi, Matilde rispose:
-Ti ringrazio, Isabella, per tutto, anche per questa tua confessione che
mi fa capire che tu hai condiviso, a differenza degli altri, il nostro
amore. I tuoi occhi hanno una espressione particolare… raccontano. Non è
necessario che io venga fin qui per ritrovare il mio Antonio. Egli è con
me nel mio cuore, nei miei ricordi, nelle mie occupazioni quotidiane.
Peraltro, sarebbe rischioso per una donna sola avventurarsi per le
strade solitarie e piene di insidie che portano fin sulla rocca di
Acerenza. Voglio essere al più presto nella nostra casa, dove lascerò
tutte le sue cose al loro posto. Mi sembrerà di vederlo tornare da un
momento all’altro.
Salì sulla carrozza e s’affacciò al finestrino per un ultimo saluto. A
lungo Isabella conservò il ricordo di quella testa coperta da un basco
nero, sistemato in modo un po’ capriccioso e trattenuto da un fermaglio
di argento, lavorato con un’onice incastonata al centro.
La sera stessa della partenza di Matilde, si sentì bussare al portone in
modo piuttosto concitato. Minguccio fermò Assunta che stava andando ad
aprire, perché l’ora era tarda e preferiva farlo lui. Sulla soglia
c’erano due giovani donne, visibilmente impazienti di entrare. Chiuse il
portone e le accompagnò da Isabella, che stava ricamando in salotto alla
luce di una bella lampada con la base di avorio.
-Donna Isabella, sono Rachele Cassano di Montalbano Ionico e questa
giovane, che si accompagna con me, è una patriota napoletana. Ha bisogno
di un asilo sicuro, poiché è perseguitata dalle guardie borboniche per
aver aiutato la causa rivoluzionaria. Abbiamo un biglietto di Mario
Pagano, che ci affida alla vostra accoglienza.
Isabella provò un senso di smarrimento; poi, si riprese ed invitò le due
donne ad accomodarsi sul divano, accanto a lei.
-Vi farò preparare una bevanda calda che vi aiuti a riprendervi. Vi vedo
stremate e preoccupate. Per tranquillizzarvi vi dico che farò il
possibile per aiutarvi.
Quindi si allontanò. Avrebbe letto il biglietto di Mario da sola perché
non voleva che i suoi sentimenti fossero colti dalle due giovani. Ordinò
ad Assunta di preparare un tè alle ospiti e salì in camera sua.
Il tè, bevanda poco comune nelle case di Acerenza e, in genere in Lucania
e in Italia, era invece molto in uso nella famiglia Glinni per via degli
antenati irlandesi, che ne apprezzavano il sapore e la qualità
stimolante. A intervalli regolari, veniva spedita nella grande casa una
certa quantità da un negozio di spezie di Napoli.
Napoli, 2
settembre, 1795
“Cara donna
Isabella,
pur stando lontano ho seguito le vicende della vostra famiglia il cui
ricordo è rimasto vivo nel mio cuore. So delle dolorose morti che
l’hanno colpita tra cui quella, avvenuta anni or sono, dell’amato
Giuseppe che mi ha procurato intima e profonda sofferenza. Ho saputo che
siete sposa e madre felice e questo non può che farmi piacere. Oramai la
insurrezione è vicina ed anche in Lucania c’è una fervida adesione agli
ideali rivoluzionari; il giogo non è più sopportabile. I fratelli
francesi hanno abolito i soprusi di un potere assoluto che non teneva in
alcun conto le esigenze del popolo. Rachele Cassano è una dei nostri e
la sua opera è davvero preziosa, l’altra è una giovane donna che a
Napoli si è distinta per aver aiutato coraggiosamente la nostra causa,
ma ora è in pericolo. Ho pensato a voi e al riparo sicuro e
insospettabile della vostra casa, confortato dal ricordo dei vostri
sentimenti di ripugnanza per i despoti e dal sapere che l’ottimo Antonio
Pipoli, vostro marito, spende molte energie a sostegno delle nostre
rivendicazioni e appoggia le nostre idee. Bisognerà accogliere la
giovane fino a quando, calmatesi le acque, verrà a riprenderla Rachele.
Credetemi, il ricordo dei giorni trascorsi nella grande casa Glinni
lenisce e consola il mio presente così pieno di affanni e pericoli. Le
mie opere così apertamente favorevoli al progresso democratico del
popolo contro l’oppressione e la violenza della tortura e di
qualsivoglia sistema di imposizione forzata fanno sì che io sia
sospettato di tradimento per le mie idee “ sovversive”. Abbiate cura di
voi che nei miei pensieri siete come un faro, la cui vista rincuora il
naufrago in acque tempestose. Un abbraccio fraterno al vostro consorte.
A voi i segni di una immutata ammirazione.
Mario Pagano
Un nodo le stringeva la gola e non riusciva a controllare la folla di
pensieri e di emozioni che l’aveva assalita. Mario! Le sembrava di udire
la sua voce, di rivedere le sue mani nervose accompagnare le parole.Tra
le righe si leggeva una inquietudine mal celata. La sua incantata
giovinezza, i sogni perduti, le aspirazioni mancate tornarono ad
invaderle l’animo. Per un attimo fu colta dal senso di vuoto e di
spossatezza che l’aveva presa quando aveva perso Mario, quel mattino
lontano, sulla terrazza di Acerenza che è a picco sulla valle e guarda
all’orizzonte. Era riaffiorata l’antica fascinazione, controllata, però,
dalla consapevolezza della sua condizione di donna sposata e di madre, e
dall’urgenza che necessitava di una decisione tempestiva. Si scosse
dalle sterili nostalgie. Pensò al da farsi. Non si fece domande
sull’opportunità della lotta, sulle circostanze che ne avrebbero
determinato l’esito. C’era bisogno del suo aiuto e lei lo avrebbe dato.
Tornò ad essere quella che era diventata: una donna concreta, in cui
tanti trovavano il sostegno e il giusto consiglio. La donna che era
diventata per merito di Antonio. La sua forza, la sua positività avevano
dissolto in lei la tendenza all’astrazione di quando, giovanetta, era
attirata dal mondo di zio Filippo, di zio Giuseppe e della biblioteca.
L’avevano distolta da quel mondo in cui era anche radicato il ricordo di
Mario. Sempre avrebbe conservato l’incanto del primo incontro d’amore;
ma la vita urgeva con le sue passioni, con le sue leggi ed ella aveva
deciso di affrontarla con l’aiuto di Antonio. Che splendida sorpresa
scoprire che anche lui aderiva agli ideali che animavano gli spiriti più
nobili del meridione! Perché glielo aveva taciuto? Conosceva le sue
idee, perché non l’aveva coinvolta? Temeva per lei? Questa la
spiegazione, non certo l’atteggiamento retrivo per cui Antonio riteneva
che fossero affari di uomini. Per fortuna sarebbe rincasato tra poco ed
insieme avrebbero preso la decisione più giusta. Come rifugio per
Costanza ella aveva subito pensato al segreto camminamento che
congiungeva per lungo tratto la grande casa Glinni alla cattedrale e
che, ad un certo punto, si slargava su una camera, in cui i primi
antenati avevano ricavato un comodo ricovero qualora si fosse presentata
la necessità di doversi nascondere. Intanto, bisognava dare le ultime
disposizioni per la cena e prendersi cura delle ospiti.
Queste avevano con gusto bevuto il tè ed erano rimaste in attesa, sedute
sul divano tenendosi per mano. Rachele Cassano era di una bellezza
folgorante ed aveva nello sguardo una determinatezza che affascinava;
l’altra, minuta, poco appariscente, non faceva pensare ad una attivista
della insurrezione, anzi, dava l’idea di una donna fragile, bisognosa di
assistenza, anche se i suoi occhi neri e luminosi emanavano lampi di
arditezza non comune.
-Siate le benvenute. Tra poco rincaserà mio marito e ceneremo tutti
insieme, poi, con cautela sarete accompagnate al vostro rifugio. Vi
comunico questo con la certezza che egli accoglierà la vostra richiesta
d’aiuto perché condivide le vostre scelte.
Donna Isabella, - la interruppe Rachele- vi siamo grate anche a nome dei
fratelli che lottano per liberare la nostra terra dal giogo dei despoti.
Io, però, devo raggiungere al più presto il carro con cui siamo venute e
che mi aspetta alle porte del paese per riportarmi a Montalbano. I due
conducenti sono gente fidata e…
In quel mentre, entrò Antonio, che Isabella accolse con uno sguardo nuovo,
di ammirazione e di orgoglio. Gli spiegò la presenza delle due ragazze e
gli consegnò il biglietto di Mario. Egli si rese in breve conto della
situazione e con piglio sicuro disse:
-Non c’è alcun impedimento alla nostra opera di soccorso. Io e donna
Isabella provvederemo a tutto. Non vi trattengo oltre, donna Rachele,
giacché dovete rientrare a Montalbano; salutatemi i numerosi amici che
ho nel vostro paese e credetemi un vostro convinto sostenitore. Che
Mario Pagano sappia che io e mia moglie lo ammiriamo molto e gli siamo
grati per quanto fa per la causa.
-Grazie -rispose Rachele - appena possibile verrò a riprendere Costanza.
Baciò la mano ad Isabella, strinse forte la mano ad Antonio ed abbracciò
Costanza, rassicurandola. Varcò la soglia e scomparve.
Antonio condivise la scelta del rifugio; ma disse ad Isabella che era
inevitabile che don Saverio fosse messo al corrente.
- E’ vero - rispose Isabella – non avevo pensato che lo zio Saverio ha la
chiave del retro e che, quindi è necessario coinvolgerlo. Mando subito
Minguccio a chiamarlo. Non c’è tempo da perdere. Che venga a cena da
noi.
In breve tempo, Don Saverio giunse da loro con la visibile apprensione di
chi non sa e desidera sapere. Informato del motivo dell’invito
precipitoso, rispose con pacatezza e senza fervore che dava il suo
assenso perché glielo chiedevano con tanto accoramento, per umanità
verso la giovane, per la tradizione della famiglia, secondo la quale
l’ospite era sacro. Non era, però, favorevole, non solo in obbedienza
alla Chiesa che era assolutamente contraria alle rivolte, pur promosse
per il riconoscimento dei diritti democratici, ma anche personalmente,
perché non condivideva le cospirazioni e i sotterfugi. Era, inoltre,
preoccupato che potesse essere coinvolta la Diocesi di Acerenza. Li
pregava, perciò, di mantenere un rigoroso riserbo.
-Don Saverio, non avrei voluto rendervi partecipe della nostra decisione
di soccorrere la giovane Costanza, ma abbiamo bisogno che voi ci
affidiate per un po’ la chiave della porta esterna della vostra casa,
che dà direttamente nel camminamento segreto. Vi assicuriamo la massima
cautela: dopo stasera non sentirete più parlare della cosa. Ci
assumeremo tutte le responsabilità e gli impegni che comporterà questo
nostro segreto. Sappiate, però, che la decisione è stata presa in pieno
accordo tra me ed Isabella, perché comune è il sentire. Don Saverio,
l’oppressione è tanta e pari ad essa la sofferenza. Voi parlate in nome
di una coscienza morale, io di quella civile, che mi impone di aiutare
coloro che lottano per la libertà e l’indipendenza e il riscatto della
mia terra.
-E Dio vi assista. Io raccomanderò nelle mie preghiere la vostra opera
perché abbia il favore del Cielo.
Uscirono notte tempo. Si muovevano quando le nubi coprivano la luna, sì
che il suo chiarore veniva inghiottito dalle ombre. A Costanza Isabella
fornì l’occorrente per le prime necessità. Mise tutto in una borsa di
pelle, che fu affidata a Minguccio. Finalmente arrivarono. Don Saverio
aprì ed affidò la chiave ad Antonio; subito dopo svoltò l’angolo e si
avviò verso il portone principale. L’ambiente era confortevole e
Costanza si rasserenò. Da giorni, per la prima volta, si sentiva al
sicuro.
-Signorina Costanza, sarà nostra cura farvi pervenire tutto quanto vi
necessiterà di giorno in giorno, però, non ci aspettate prima di sera.
Per prudenza.
-Don Antonio, non dimenticherò mai quanto voi e donna Isabella state
facendo per me e per la causa. Ovemai la lotta dovesse sortire esito
favorevole, il vostro appoggio sarà apprezzato e ricordato. Buon riposo.
Isabella era in ansia; ma, appena sentì rincasare Antonio, si rincuorò.
Quella notte sentì di amarlo con particolare ardore, un po’ per fugare
fantasmi del passato e specialmente perché aveva il cuore gonfio di
ammirazione e di riconoscenza.
Un mese dopo si accorse di essere di nuovo incinta. Antonio, appena
Isabella glielo comunicò, le espresse la sua gioia e le raccomandò di
riguardarsi per non rischiare la sua vita e quella del nascituro.
*
Isabella aveva due buchi nel cuore, come due grumi d’ombra che la
rendevano inquieta: il ricordo dell’abito di Cavaliere Templare trovato
nella camera dello zio Giuseppe, che faceva tutt’uno con il ricordo
della sua esplosione di violenza in quel lontano mattino, e la presenza
di Costanza, che ella riteneva sacrosanta, ma che la rendeva sospettosa
di chiunque bussava alla porta o s’intratteneva a volerle parlare.
Preferiva, perciò, starsene intere giornate in casa, dove si sentiva al
sicuro da imprevisti e sorprese.
Non riusciva a non sentire il peso dell’asilo segreto offerto a Costanza,
temeva che lo scoprissero con grave danno di tutta la famiglia. Avrebbe
voluto parlarne con qualcuno dei numerosi parenti; ma si convinse che
era meglio aspettare. Aveva fiducia che quanto prima Rachele Cassano
sarebbe venuta a riprendersi l’amica. Così la vicenda si sarebbe
conclusa. Soffriva nel pensare alla povera Costanza, chiusa nella
stanza, dove la luce e l’aria arrivavano da una stretta finestra che
dava sulle alte mura che circondavano il paese: ma non poteva far nulla
per alleviare la solitudine e i disagi della ragazza. Era molto
pericoloso, perché era sempre più occhiuta la vigilanza contro i
fermenti liberali che si facevano addirittura temerari a contatto con le
idee rivoluzionarie, che, sempre più diffusamente, dalla Francia
penetravano in Italia.
Erano passati tre mesi dall’arrivo di Costanza ad Acerenza, quando una
sera Minguccio rientrò in casa pallido e trafelato.
-Don Antonio, all’ingresso del paese ho incontrato un vecchio dalla barba
bianca che si è accostato a me e mi ha detto” Ti riconosco, sei al
servizio di don Antonio e donna Isabella Pipoli. Io sono il cocchiere
che ha accompagnato da voi la signorina Costanza insieme con la mia
padrona, donna Rachele Cassano. Di’ loro che io vengo a riprenderla, ma
che non è prudente farmi vedere in paese. Aspetterò più giù, in fondo
alla strada, dove le ombre sono fitte. Appena vi sembrerà opportuno,
raggiungetemi. Intanto, eccoti una lettera da consegnare ai tuoi
padroni”. Detto questo, si è allontanato. Sono venuto senza perder
tempo, ma senza correre per non destare sospetti.
Porse a don Antonio un rotolino di carta sigillato e si ritirò. Aveva la
gola secca. Sentiva un gran bisogno di bere dell’acqua.
Antonio lesse la missiva, quindi, rivolgendosi alla moglie, disse:
- E’ autentica, non c’è dubbio. Dobbiamo organizzare la partenza di
Costanza con tutta l’attenzione possibile. E’ necessario che tutto si
svolga a notte fonda, quando il paese dorme e nelle strade non c’è anima
viva. Minguccio, che è solito portare la cena alla nostra ospite, deve
recarsi subito ad avvertirla. Costanza ceni con calma, si prepari ed
entrambi aspettino il segnale. Mi recherò da loro in compagnia di
Ignazio ed Agostino, i miei due fattori. Tu, mia cara, non agitarti,
tutto andrà bene. Sono sollevato perché ero molto preoccupato che il
nostro segreto potesse nuocerti. Ultimamente eri sempre più rammaricata
di non poter rendere meno gravoso l’isolamento di Costanza .
Chiamò Minguccio e gli spiegò ogni cosa. Questi obbedì, ma in cuor suo
tremava all’idea che qualche improvviso impedimento ostacolasse la loro
impresa. Passò dalla cucina, prese il cestino della cena e si avviò
verso il rifugio a lui ben noto.
Isabella salì in camera e, tra le sue cose, prese una piccola medaglia su
cui era effigiata la Madonna delle Grazie; voleva che Costanza la
portasse sul cuore.
La dette ad Antonio, dicendogli:
-Vi proteggerà.
L’abbracciò e si avviò lentamente verso le scale.
Antonio la vide allontanarsi e provò una stretta al cuore. E se l’invito
nascondesse qualche insidia? Se tutto fosse un inganno? Tornò in sé e
pensò che non giovava farsi sopraffare da dubbi e incertezze che
avrebbero indebolito la sua volontà e il suo coraggio. Avrebbe
affrontato qualsiasi evenienza a tempo debito.
Quando uscirono, la luna si nascose tra le nubi. Questo fu il segnale
favorevole del cielo. L’oscurità era fitta e rimase tale fino a quando
giunsero alla carrozza. Finalmente l’incubo era finito.
Le riunioni nella grande casa erano piacevoli per tutti, la famiglia era
cresciuta e numerosi bambini correvano nella vaste stanze o si riunivano
intorno a don Saverio che raccontava loro la storia di Gesù nato in
Galilea, perché tutti diventassero più buoni. In quei momenti don
Saverio si trasformava; nei suoi occhi si leggeva una profonda
commozione nel vedere come le sue parole incantassero l’uditorio così
rumoroso fino a pochi minuti prima. Nell’osservare la scena, Isabella si
chiedeva se non fosse proprio un miracolo del Santo Bambino a tenerli
buoni, giacché insieme diventavano incontrollabili. Le sembrava che lo
zio canonico provasse un grande diletto a contatto dei nipoti, quasi
trovasse un compenso ad una vita, certamente intensa di spiritualità e
piena di opere pastorali, ma priva del conforto di una famiglia propria,
del calore e dell’affetto di una sposa, della gioia della paternità. Ma,
forse,- pensava- i sacerdoti, i migliori, nel difficile cammino della
santità, non sentono il peso di dover rinunziare ad una parte così
essenziale della loro umanità. O, invece, comunque, la loro vita è fatta
di nostalgia e sofferenza, di privazioni cocenti e di sogni proibiti, di
rancori e di pentimenti? Il loro sacrificio, allora, diventa più
encomiabile e degno di rispetto, pur se commettono errori o debolezze
poiché non è giusto aspettarsi da essi una perfezione di cui tutti noi
non siamo capaci. Spesso, invece, con facilità ed ipocrisia assolviamo
le nostre manchevolezze e pretendiamo che essi ci comprendano e gridiamo
allo scandalo se hanno momenti di smarrimento.
Una creatura speciale, che nelle riunioni colpiva per la sua pensosa
allegria, era Rosa, ormai cresciuta; ma che per Isabella rimaneva”la
piccola Rosa”. Era diventata una giovane deliziosa dai lunghi capelli
bruni, che legava in un nodo basso sulla nuca, e dalla figura esile e
ben fatta. Sensibile, come il fratello Pietro Paolo, ai sentimenti di
libertà e di fratellanza, giudicava insopportabile la condizione di
quanti subivano vessazioni e prepotenze non per colpe commesse, ma per
l’ignoranza e la miseria. Ad Isabella aveva confidato che un nobiluomo
di Oppido, Federico Nigri, la corteggiava molto visibilmente. Ella era
presa dal suo fascino. Era forte e allo stesso tempo dotato di una
gentilezza sua propria, tanto che sembrava connaturata con la sua
persona. Appena sarebbe stata sicura dei suoi sentimenti, gli avrebbe
consentito di parlare con i suoi familiari per chiedere la sua mano. Era
innamorata di lui, ma aveva deciso di farlo un po’ sospirare, prima
perché ciò era conveniente per le ragazze e, poi, perché non voleva che
la giudicasse una conquista troppo facile. Desiderava che Isabella lo
conoscesse prima degli altri.
Isabella aveva sorriso in cuor suo della strategia amorosa della cugina,
che l’aveva adottata senza malizia, quasi dettata spontaneamente dalla
sua natura femminile. Si disse felice per lei e la invitò a cena insieme
al suo Federico.
Fu un incontro gradevolissimo, durante il quale parlarono di tutto, ma
quello che colpì Isabella fu lo sguardo leale di Federico e la dolcezza
con cui guardava Rosa.
Rosa si sposò negli ultimi giorni di aprile, subito dopo la santa Pasqua,
prima che entrasse maggio, il mese dedicato alla Madonna, in cui non si
usava celebrare matrimoni.
Parte VIII -
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