Dove la terra finisce
"i lucani in Cile"

 

 

PARTE II°    A IQUIQUE E PICA. LE IDEE NUOVE DEI LUCANI - Maria Schirone
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A Iquique. Dove il deserto incontra l'oceano  1° A Iquique. Dove il deserto incontra l'oceano  2° A Iquique. Dove il deserto incontra l'oceano  3°
A Iquique. Dove il deserto incontra l'oceano  4° A Pica PARTE III: Santiago

A PICA

 

In questo territorio “más árido del mundo”, dove non piove mai, dove “le pietre che durante il giorno sopportano temperature fino a 50 gradi, ricevono nello notte l’abbraccio del freddo, fino a zero gradi, e si spaccano con un mormorio minerale” (L. Sepúlveda), i lucani hanno reinventato le abilità contadine, le competenze acquisite al paese e in famiglia prima della partenza e sono diventati imprenditori della terra, vincendo sulla terra sconosciuta e ostile. Loro, i lucani duri come il caliche81, da contadini si sono spinti a cercare, più che oro o argento, terre dove far crescere ciò che avevano dovuto abbandonare.

L’agricoltura intrapresa dai lucani a Pica (nell’oasi del Tamarugól) è un’agricoltura di adattamento alle condizioni del deserto. Per la cui riuscita si è dovuto selezionare la terra, “lavarla” con acqua potabile per estrarne tutti i sali e i minerali, mescolarla con rena e guano. In questo modo, con a tenacia dell’antico bracciante, il deserto ha reso una produzione addirittura esportabile. Ciò si è reso possibile soprattutto dopo il 1920, dopo l’invenzione di un aratro particolarmente efficace nella frantumazione dei più duri strati di superficie.

 

81 Lo strato solido della pompa salitrera.

L’ortocoltura delle oasi rende soprattutto verdura (lattuga, bietole, carote) e frutta (arance, guayana, mango e ottime ‘liniette’, limoncelli verdi e molto profumati) e, benché nel Norte Grande solo il 2% dei suoli sia coltivabile, la produzione è in grado di far fronte anche ai consumi urbani di Iquique. Non solo: l’andamento stagionale permette anche l’esportazione di primizie o di prodotti dell’estate australe verso i Paesi del nostro emisfero, quando da noi è inverno.

 

E’ qui che i lucani hanno introdotto nuove colture e hanno contribuito allo sviluppo dell’oasi. Giulia Cervellino Calzaretta, oppidese nata a Pica, oggi cinquantenne, dice che prima che si insediassero i lucani, a lavorare la terra erano soprattutto peruviani che attuavano colture per il mercato interno, a breve raggio. A suo parere gli italiani hanno aperto Pica al mercato e alle comunicazioni col resto del Cile. Come esempio racconta che i suoi genitori, arrivati nel ‘22, introdussero ex novo coltivazioni di peperoni, barbabietole, spinaci, e perfino del peperoncino.

Gianni Napoli Corvalan, ventitreenne nipote di oppidesi, nativo cileno, racconta che il nonno Antonio Napoli, dopo alcuni anni di lavoro come operaio metalmeccanico e poi alle comunicazioni nelle Forze Aeree CiIene, venne a Pica dove acquistò un terreno deserto, che riuscì a rendere produttivo. Il padre di Gianni (stesso nome del nonno: Antonio Napoli) è nato a Humberstone, la ‘città fantasma’ (v’. scheda VIII) e si è sempre occupato di agricoltura, conseguendo anche la laurea di ingegnere agronomo. Con le competenze acquisite ha innovato l’agricoltura introducendo nuove tecnologie (mentre Gianni studia ingegneria civile a Valparaíso).

Angela Calzaretta Frontuto (nata a Tolve nel ‘26, arrivata a Iquique con la nave “Virgilio” all’età di dieci anni) ricorda che il padre, dopo aver venduto latte a Iquique fino al ‘34, si trasferì con la famiglia a Pica dove prese a fare l’agricoltore. Divenne proprietario di 7 ettari di terra coltivati a frutta, limoni e uva da vino da salariati boliviani, mentre lui andava a distribuire frutta e vino ai minatori delle salitre re. Dopo la chiusura delle miniere egli dirottò, su camion e treni, il commercio della frutta nella II° a Regione verso Calama e Antofagasta, là dove il rame soppiantava il nitrato di

soda nell’economia nazionale (siamo nell’area di Chuquicamata, la miniera a cielo aperto più grande del mondo).

Per chi provava il ‘braccio di ferro’ con la terra desertica non era impresa da poco. Innanzitutto per il problema dell’acqua. Prima del 1989 il costo dell’acqua per l’irrigazione era molto elevato e andava ad aggiungersi ai costi ancora più alti dell’acqua potabile. Vi erano poi i fattori imponderabili: catastrofi naturali, incendi (della cui frequenza in questa regione s’è già detto), conseguenti spese impreviste. Molti agricoltori non riuscivano a ricavarne un guadagno decente e cambiavano o vi affiancavano un’altra attività.

Naturalmente anche qui si rendeva necessario che qualcuno distribuisse acqua e latte: come Antonio Da Ponte (nonno del giovane musicista Gianfranco), che prendeva l’acqua dalle navi cisterne che arrivavano a Iquique e col mulo la distribuiva di casa in casa. E nel tempo libero distillava grappa.

Numerosi i lucani che si sono attivati anche in un altro settore indispensabile per la vita nell’oasi, quello dei trasporti. La famiglia di Giulia Cervellino avviò, oltre all’agricoltura, anche un’attività di trasporto merci e passeggeri, con camion e autobus da e per Iquique.

Agricoltura e trasporti furono le attività principali anche per Domenico Vaccarella Ragone, contadino di Oppido, che ha lavorato vent’anni nell’oasi di Pica, finché la ‘peste della mosca azzurra’non rovinò tutte le colture di arance, limoni e mango dell’azienda di cui era dipendente. Racconta che già in condizioni di buon raccolto era dura tirare avanti “perché quello che mi pagavano era una miseria, non potevo ‘acatà latte per le bambine  , e quindi oltre al lavoro della terra trasportava con un camion la frutta a Iquique. Dopo la rovina della ‘mosca azzurra’ si trasferì con un figlio a Iquique, prima a imbottigliare vino, poi come gestore di un negozio di generi alimentari. Oggi vive a Santiago.

Più complessa la vicenda di un’altra famiglia di trasportatori lucani a Pica, quella di Rocco Frontuto Caputo, 53 anni, di Tolve. Suo padre era stato in Belgio nelle miniere di Charleroi (le più pericolose tra le miniere belghe). Ma il passaggio dalla vita di pastore a quella di minatore era stato troppo duro, pericoloso. Intanto a Santiago del Cile c’erano le sorelle che lo incitavano a partire. Finito il contratto minimo di cinque anni non se l’era sentita di continuare quel rischio quotidiano per quattro sudatissimi soldi. Rocco ricorda la povertà in Italia: “cipolle, pane e acqua; carne uno volta all’anno”. E i rischi in Belgio: “Quando papà era in Belgio gli erano capitare le esplosioni di grisou e una volta aveva rischiato lo schiacciamento tra i vagoncini”82. Così suo padre si imbarcò a Genova sulla “Marco Polo” per Valparaíso, via Panama, portando con sé Rocco di dodici anni (la madre li raggiunse dopo). “In trenta giorni non abbiamo visto neanche un porto “. A Santiago trovò lavoro in una tranquilla meseita di vini e liquori. Rocco invece si occupa tuttora del trasporto passeggeri in pullman, sulla linea Pica — Iquique, attraverso il deserto.  

 

82 Per i rischi nelle miniere del Belgio cfr. M. Schirone, Quelli dal volto bruno, 20 vol., I lucani in Belgio, Pianeta Libro 1998, p. 40 e ss.  

 

Una curiosità Ovunque sia stato possibile i lucani hanno introdotto la ‘maialatura’. E’ accaduto in nord Europa (Belgio) ma anche ai tropici. A Pica le temperature, che di giorno sono torride, di notte scendono al di sotto dello zero e, grazie all’ambiente perfettamente secco, è possibile dedicarsi a tutte le operazioni connesse a questo ‘rito’ da inverno lucano.  

 

HORIZONTE NARANJA

... Pica des flora en truenos verdes

y perfuma los suenos de los mangos
recién exprimidos en el torrente

de la infancia...

(Pigmaliòn, 1989)

 

 

SCHEDA VIII

 

I VILLAGGI-FANTASMA.

 

Ancora all’inizio del secolo vivevano almeno 300 mila persone disperse in più di 300 officine. Vere città o villaggi color ferro e polvere, citta-fabbriche ad architettura gerarchica. Il proprietario, quasi sempre uno yankee, nella sua grande casa al sicuro, attrezzata con campi da tennis e talvolta piscina (lusso inaudito in questa arsura), circondata dalle villette dei dirigenti. Sotto, il quartiere degli impiegati; poi la schiera di caselle degli operai, in legno, fango o lamiera. Una sorta di città-stato dove il proprietario aveva persino diritto a battere moneta: gli operai dovevano acquistare tutto all’interno con le fichas, piastre di rame, bronzo o piombo di varie dimensioni, alcune recanti il profilo della figlia del proprietario, altre con la scritta "Buono per due pani”, “Buono per un pasto”, e così via. Naturalmente inutilizzabili all’esterno del villaggio1.  

   

HUMBERSTONE

A 45 km. da lquique, la ‘città fantasma’ di Humberstone, ex insediamento minerario nella pampa, è oggi in recupero come Museo Arqueológico Industrial. Attorno a Plaza de Armas, posta al centro della città, sono ancora in piedi quasi tutti gli edifici originari.

Un cartello sbiadito ricordava ai minatori che “Un incidente può distruggere tutte le vostre speranze”. Un altro avvisava che i contratti dei lavoratori vietavano di fornire ricovero a chiunque non fosse associato con la compagnia, la quale forniva alloggio, assistenza sanitaria, vitto e generi di prima necessità, che potevano essere acquistati solo con le fichas di cui s’è detto.

Humberstone deve il nome al suo amministratore, l’inglese James (o Santiago) Humberstone, arrivato da Londra nel 1875. Costruì le ferrovie del nitrato e perfezionò il sistema ‘Shanks’ per estrarre una maggiore quantità di nitrato dal grezzo caliche delle pampas.

Le oficinas come Humberstone e Santa Laura declinarono quando i nitrati di origine minerale furono rimpiazzati dai fertilizzanti di sintesi2.

 

PICA

1300 m. sul mare nell’oasi nella Pampa del Tamarugól, di origini Inca, Pica si trovava sul percorso dalle Ande verso il mare alla ricerca del guano. Divenne famosa per i vini e la frutta che andavano a rifornire le miniere di Huantajaya. Nel XIX sec. Pica produceva grano, fichi, uva.

Quando a lquique vi fu il boom dell’esportazione dei nitrati la Water Company dì Tarapacó, per favorirne l’espansione, portò l’acqua da Pica alla costa (119 km.) con un sistema di tubazioni.

Tutta Pica è costituita da un pugno di case, alcuni negozi, una pensione, alcune piccole trattorie a gestione anche lucana.

Vi si coltiva un’ottima qualità di manghi e limoncelli (‘limette’); con questi ultimi si prepara il miglior pisco sour del Cile3.

 

1 Cfr. La Repubblica, suppl. “D”, a.4, n. 162, 1999.

2 Bernhardson W., Cile, cit., pp. 214,247 e ss.

3 idem, pp. 251.

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