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SCHEGGE DI MEMORIA

ANTONIO MOLFESE
 

“A Vennegne” - La Vendemmia.

Dopo un anno di fatiche per togliere l’erba dai filari della vigna, dare lo zolfo e altri preparati chimici (solfato di rame) per contenere la peronospera ed altre infestanti, ai primi di ottobre si iniziava la vendemmia. La vigna, sempre sotto l’occhio vigile “du parzionale” che divideva tutti i prodotti dell’orto ad eccezione dell’uva, era stata seguita, specie nei mesi estivi quando da alcuni filari si raccoglieva l’uva cardinale che allietava molto spesso la colazione di noi bambini. Ricordo che eravamo al Monte a villeggiare e, quando arrivava Rosina con le provviste fresche dal paese, nella “sporta” c’era immancabilmente dell’uva cardinale, i cui grappoli erano piccoli così come gli acini, ma di una dolcezza che difficilmente mi è stato dato di poter gustare in seguito.
Si puliva la cantina, si preparavano i tini, la caldaia grande, dove si poneva a bollire il mosto ed i bariloni, in dialetto “varlacchiune”, grossi recipienti di legno nei quali si trasportava l’uva a dorso di asino. Zio Andrea “u siggilare” era il nostro cantiniere, uomo all’antica, grande lavoratore anche se affetto da una lussazione congenita dell’anca, mai operata, perchè a quel tempo (fine dell’ottocento) non si interveniva. Anche se aveva questa menomazione era in grado di sollevare bariloni di 40/50 kg pieni d’uva.
Il giorno dell’inizio della vendemmia era solito passare presto da casa per prendere in consegna le chiavi della cantina, che avrebbe custodito per tutto il periodo della vendemmia che durava anche una settimana.
Si cuoceva il mosto, in modo che, aggiungendolo alla massa di uva pigiata, ne aumentava il grado zuccherino e quindi di conseguenza la gradazione alcolica.
“U revellute”, il mosto cotto, era tenuto sul fuoco una giornata per farlo ridurre e si era soliti porre a cuocere in esso le melecotogne, che poi zio Andrea avrebbe dato in omaggio a mio padre “u sopatrune”.
A pranzo la cameriera era solita portare in cantina il cibo, che veniva consumato sia dal cantiniere che da coloro che con gli asini trasportavano l’uva; alla sera, alla fine della giornata, si preparava loro la cena, che generalmente era piuttosto anticipata, dal momento che la cantina era sprovvista di luce elettrica, per cui annottando bisognava sospendere tutte le operazioni.
Quando arrivavano i bariloni pieni d’uva, si faceva defluire in un recipiente il liquido che si raccoglieva nel loro fondo, generato spontaneamente dallo sfregamento dei chicchi maturi; questa era “la lacrima”, usata come un vino crudo, che per la esigua quantità e la prelibatezza era offerto raramente e solo nelle grandi occasioni.
Le botti, nelle quali porre il nuovo mosto, erano state preparate in tempo, pulite, lavate con acqua e sterilizzate con i vapori di zolfo. Erano botti di alcuni quintali e nelle stagioni di maggiore produzione se ne riempivano tre o quattro, in quanto la vigna alla Fontana d’Acciaio non era molto grande. Ricordo il profumo di mosto che si avvertiva già da lontano quando si iniziava la discesa che portava alla nostra cantina. Uno degli inconvenienti della cantina era quello che trovandosi al centro del paese e circondata da un alto muro era il posto ideale per espletare i bisogni corporali, dal momento che negli anni cinquanta molte abitazioni non avevano i bagni in casa. Qualche giorno prima l’inizio della vendemmia, bisognava pulire la strada, dove era ubicato l’ingresso, da tutti gli escrementi già presenti e vietare che qualche sprovveduto potesse continuare ad usare la strada come gabinetto di casa.
Era una cantina secolare, nella quale è stata posta una lapide del 1630, che un nostro antenato Diego Molfese pose a ricordo. Profonda oltre 40 metri, in mattoni a volta, alta nove metri, era un gioiello architettonico per la fattura e per come era stata costruita. Per edificare l’edificio scolastico negli anni 60 ci fu espropriata e ora resta solo nei miei ricordi, in quelli di mia mamma e dei miei fratelli.

 

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