“A Vennegne” - La Vendemmia.
Dopo un anno di fatiche per togliere l’erba dai filari della vigna, dare
lo zolfo e altri preparati chimici (solfato di rame) per contenere la
peronospera ed altre infestanti, ai primi di ottobre si iniziava la
vendemmia. La vigna, sempre sotto l’occhio vigile “du parzionale” che
divideva tutti i prodotti dell’orto ad eccezione dell’uva, era stata
seguita, specie nei mesi estivi quando da alcuni filari si raccoglieva
l’uva cardinale che allietava molto spesso la colazione di noi bambini.
Ricordo che eravamo al Monte a villeggiare e, quando arrivava Rosina con
le provviste fresche dal paese, nella “sporta” c’era immancabilmente
dell’uva cardinale, i cui grappoli erano piccoli così come gli acini, ma
di una dolcezza che difficilmente mi è stato dato di poter gustare in
seguito.
Si puliva la cantina, si preparavano i tini, la caldaia grande, dove si
poneva a bollire il mosto ed i bariloni, in dialetto “varlacchiune”,
grossi recipienti di legno nei quali si trasportava l’uva a dorso di
asino. Zio Andrea “u siggilare” era il nostro cantiniere, uomo
all’antica, grande lavoratore anche se affetto da una lussazione
congenita dell’anca, mai operata, perchè a quel tempo (fine
dell’ottocento) non si interveniva. Anche se aveva questa menomazione
era in grado di sollevare bariloni di 40/50 kg pieni d’uva.
Il giorno dell’inizio della vendemmia era solito passare presto da casa
per prendere in consegna le chiavi della cantina, che avrebbe custodito
per tutto il periodo della vendemmia che durava anche una settimana.
Si cuoceva il mosto, in modo che, aggiungendolo alla massa di uva
pigiata, ne aumentava il grado zuccherino e quindi di conseguenza la
gradazione alcolica.
“U revellute”, il mosto cotto, era tenuto sul fuoco una giornata
per farlo ridurre e si era soliti porre a cuocere in esso le melecotogne,
che poi zio Andrea avrebbe dato in omaggio a mio padre “u sopatrune”.
A pranzo la cameriera era solita portare in cantina il cibo, che veniva
consumato sia dal cantiniere che da coloro che con gli asini
trasportavano l’uva; alla sera, alla fine della giornata, si preparava
loro la cena, che generalmente era piuttosto anticipata, dal momento che
la cantina era sprovvista di luce elettrica, per cui annottando
bisognava sospendere tutte le operazioni.
Quando arrivavano i bariloni pieni d’uva, si faceva defluire in un
recipiente il liquido che si raccoglieva nel loro fondo, generato
spontaneamente dallo sfregamento dei chicchi maturi; questa era “la
lacrima”, usata come un vino crudo, che per la esigua quantità e la
prelibatezza era offerto raramente e solo nelle grandi occasioni.
Le botti, nelle quali porre il nuovo mosto, erano state preparate in
tempo, pulite, lavate con acqua e sterilizzate con i vapori di zolfo.
Erano botti di alcuni quintali e nelle stagioni di maggiore produzione
se ne riempivano tre o quattro, in quanto la vigna alla Fontana
d’Acciaio non era molto grande. Ricordo il profumo di mosto che si
avvertiva già da lontano quando si iniziava la discesa che portava alla
nostra cantina. Uno degli inconvenienti della cantina era quello che
trovandosi al centro del paese e circondata da un alto muro era il posto
ideale per espletare i bisogni corporali, dal momento che negli anni
cinquanta molte abitazioni non avevano i bagni in casa. Qualche giorno
prima l’inizio della vendemmia, bisognava pulire la strada, dove era
ubicato l’ingresso, da tutti gli escrementi già presenti e vietare che
qualche sprovveduto potesse continuare ad usare la strada come gabinetto
di casa.
Era una cantina secolare, nella quale è stata posta una lapide del 1630,
che un nostro antenato Diego Molfese pose a ricordo. Profonda oltre 40
metri, in mattoni a volta, alta nove metri, era un gioiello
architettonico per la fattura e per come era stata costruita. Per
edificare l’edificio scolastico negli anni 60 ci fu espropriata e ora
resta solo nei miei ricordi, in quelli di mia mamma e dei miei fratelli.
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