Pasquale
Totaro-Ziella
Il Parnaso lucano del Novecento, in particolare dagli anni Cinquanta ad oggi, non è molto conosciuto né studiato: anche tra gli addetti ai lavori non pochi stenterebbero a delineare una rosa allargata oltre certi nomi, da L. Sinisgalli a R. Scotellaro, da A. Rinaldi ad A. Pierro, da G. Stolfi a M. Parrella, da M. Trufelli a V. Riviello a R. Nigro. Debbo la prima conoscenza della poesia di Pasquale Totaro-Ziella a due testi dell’Editrice Forum (Forlì) benemerita nel far conoscere la nostra poesia novecentesca sub specie regionis: La poesia di Basilicata a cura di A. Lotierzo e R. Nigro (Quinta Generazione, a. VIII, nn. 75/76, settembre-ottobre 1980) e Poeti della Basilicata, a cura degli stessi autori (Forum/Quinta Generazione, 1981). Di
Totaro-Ziella, nativo di
Senise, mi colpì non tanto la disincantata reimmersione nella
vita e nella realtà del territorio ―
la sua
prima raccolta
Solamente questo
paese (1976) è anche una
sofferta testimonianza che sfiora il tradizionale e rassegnato “lamento
del Sud” ― quanto l’avvio di uno scavo su una condizione
ancestrale dove la parola, nelle sue implicazioni con il subconscio,
s’interna nel potenziale simbolico della Terra-Madre, rivelando,
come una punta di un iceberg, il destino di solitudine e di
incomunicabilità di una gente. Regressione ctonia, dunque, come rigetto di una
storia e di un presente inaccettabile,
e rifiuto
della civiltà
del consumismo
dell’automazione della tecnotronica?
O anche
rifugio, attraverso
la memoria, nel nido
della tradizione
avita e
familiare? Nel poemetto
in
ampie lasse del 1979,
A canne a pietre a posti fatati, Totaro-Ziella si pone specificatamente su
questa linea di ricerca, in una singolare frizione tra il modulo
ricorrente della memoria nostalgica
(“Come posso scordare
la mia fanciullezza”)
e un
capillare acceso ricupero
dell’infanzia come innesco
a una
quasi ossessiva
contestazione della
realtà svelatasi ai ragazzi divenuti uomini, che scoprono l’amaro di
un destino chiuso, senza speranze. Agli sviluppi
della vicenda esistenziale risponde, nel poeta di Senise, la
metamorfosi degli strumenti espressivi. Così in Autocritica di un uomo (1981) ha spicco, nella sezione eponima, la
concentrazione dell’autoanalisi in quartine di versi lunghi e
ipèrmetri, sull’ipotesi dell’anafora ricorrente (Potrei
anche), nel tentativo ―
sempre frustrato dalla
preveggenza dell’ineludibile scacco ― di chiarire l’enigma della
propria sorte, fra istinti terrestri
e attrazione celeste.
Notevole, nella febbrile invenzione
tesa
all’autosvelamento, l’ardire delle neoformazioni deverbali, come
angeliarmi, vangeliarmi,
ammattonare,
ammarmorare
(dove l’estro si fa spia di un’episteme bilicata fra spirito e
materia). Ma in
questa raccolta
già si
profila un’altra
componente “forte”
della poesia di Totaro-Ziella,
l’eros,
l’amore che
è del corpo eppur lo trascende
esaltandolo: “con te l’amore è un atto d'amore/ incendiato furibondo cocente”.
Tale amore-disamore
torna ad
orchestrarsi,
implacato, nel canto
di Corale Accorato Corale
(1981) dove, se
in qualche più turgido accumulo seriale dei due
corali
affiorano echi
dannunziani, nella
seconda sezione,
Accorato,
trova più personali accenti il senso di un amore inquieto e persino
deludente, non meno
ardente che misterioso. Su analogo versante d’ispirazione
Clena
(1984) rappresenta una svolta espressiva
nel segno
della concentrazione
violenta,
sostantivale,
dove la parola ellitticamente si aggruma e si scande sul puro
potenziale eidetico
e fono-simbolico.
Dall’intenso microcosmo del paese natale ― come ha osservato Tito Spinelli
nella premessa ― lo scavo intimistico nella
Laus sponsae si proietta in “referenziale
iterativo e parossistico”, fondendo la tensione
erotico-consolatoria in registri che hanno
la nuda
forza d’una
liturgia primitiva.
Anche il
polimorfismo
bestiario allusivo ― da
cerbiatta
a scimmia, da lucciola a
libellula
― che può richiamare quello della famosa lirica di Saba alla moglie, è
in realtà cosa affatto nuova. L’intero canto
sembra deflagrare dalle più
profonde radici della civiltà mediterranea, nutrendosi delle
linfe di una natura edenica, aurorale,
amata e
amante, di cui Clena
si fa vocalmente magica implosione e ripullulante emblema. Alberto Frattini |
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