Pasquale Totaro-Ziella

 

 

Alcuni aspetti della poesia di Pasquale Totaro-Ziella

 

Lo sforzo poeticamente costruttivo di Totaro-Ziella è indirizzato a svellere e a demistificare il tarlo della letterarietà, allorché la ricerca stilistica poggia su di una serie di combinazioni strutturali. A un pericolo del genere, sempre latente nell’atto creativo, l’autore tende a opporre, con l’insorgenza dal basso, un magma linguisticamente adducibile all’italiano, ma in segreto nutrito di dialettalismi che, secondo la sua ricerca stilistico-espressiva, soggiace direttamente al primo impulso della poesia; che in ogni caso, se da un lato si consegna all’esito linguistico nazionale (cioè a una koiné formalmente accettata), dall’altro viene immesso in una involtura di sapore idiomatico localistico, con l’assunzione di vocaboli convertiti con vigore alla filigrana dell’ordito espressivo cosiddetto “alto”. Cosicché coabitano tre livelli integrativi e interattivi, basso, medio, alto, espressioni di una mistura che sacrifica la funzione della bella pagina alla immediatezza sorgiva, così come è accolta la parola nel suo dato coscienzale. Se poi il termine dialettale non trova corrispondenza con altro in lingua, allora la co-abitazione è presto raggiunta con l’innervare strutturalmente la stessa in una circostanza collocativa che ne ritiene la rustica purezza. Perciò, difficile esito ispirativo entro cui si muove il poeta di Senise: da una parte la stretta ricognizione del territorio, al fine di rivenirvi le non poche modalità espressive; dall’altra la presa di coscienza con le trappole di una metalingua, appunto quella poeticamente prevedibile che, tutto sommato, non appare condizione primaria nel suo esercizio.

Non che Totaro-Ziella non insegua il risultato specificamente poetico ma, quasi di soppiatto, fa sì che il risultato stesso si ispessisca di un rovello quanto più scarnificato, inteso a promuovere e a pervenire alla dignità di una poesia rigeneratrice e, quindi, sommovimentata dal basso attraverso un sentimento assai largo del ludico; tratto questo che non rappresenta l’informe involucro di un astuto divertimento lessicale, ma la sofferta ricerca di un modello che rifiuti la verbosità di un linguaggio eslege per riconquistare un idioma ricondotto alla sua purezza infantile, a un ristretto paradiso di vocaboli indiziante non tanto il giuoco in se stesso quanto la sua meraviglia. Di questa caratteristica alquanto notificatrice nello stile di Totaro-Ziella, dimidiata fra l’empito rusticale versificatorio e la concisione dello epigramma, si nutre la sua produzione con una fedeltà quasi assoluta a tali ingerenze lessicali, in grado di riconvertire la scansione poetica a un’alterità che non sia di stretto rigore formale. Lo sperimentalismo di Totaro-Ziella è dunque il tentativo di ricuperare la purezza di un idioma regredito (ma non tanto) a dialetto e che, tuttavia, nella sua intricata commistione quotidiana possiede i segnali d’una comunicazione antiretorica e, perciò, riconducibile a una riconsiderata freschezza scrittoria.

Ora, da questo magma insolitamente coordinato e assemblato è intuibile il tentativo di dispiegare, con un consuntivo poetico, consonanze della civiltà contadina. In altre parole è possibile accertare, al di là della fattualità poetica, una dimensione antropologica sia del precario sia delle consuetudini alla base dell’educazione dell’artista? Rispondere a tale domanda significa predisporre la produzione di Totaro-Ziella a un’analisi che parrebbe fuorviante a prima vista ma che, in sottofondo, si rivela anticipatrice di rivelazioni nel senso perseguito. Anzitutto il giuoco come forma educativa e di socializzazione del fanciullo, riconquistato mediante il filtro affabulatorio di una poesia sospesa a metà tra illusione proiettiva e diradamento regressivo, al limite di una demarcazione che in pari tempo costruisce e decostruisce le immagini, il cui impatto s’afferma in virtù di una riproduzione iterativa e spesso omofona, quasi a scandire l’ossessività legata allo sforzo esercitato dal recupero memoriale. Tratti che appaiono essenziali nell’economia espositiva del linguaggio e nella conquista di una divisa lessicale, attinente al perimetro spaziale entro il quale s’aggregano le parole per una forma, nello stesso tempo poetica e anti-poetica, raffinata e volutamente grezza, con studiata allocazione dei vari registri e tali da codificare un tono di equilibrio fra di loro in vista di un’assunzione unitaria dell’intero intreccio proposto.

Questo, a titolo orientativo, per le sillogi d’esordio e per una in particolare, che incanalano la dizione delle stesse in una modalità da cantilena che racchiude, in filigrana, il feliceguado da una retrospettiva audizione infantile al possesso di un disegno di robusta schedatura linguistica, tale da essere viluppo sorvegliato, nelle sue maglie, fra la tonalità esplicitata dal fanciullo e la discrezionalità che intende l’adulto per rivelarla all’approdo del passato con tutte le rielaborazioni che esso suggerisce. L’acquisizione del passato si presenta, dunque, come forma memoriale ma anche come ordito espressivo antimemoriale, in una incessante espansione del presente ispiratore, ora lacerato, ora in conflitto con gli aggiustamenti stilistici per addivenire a due costanti: la memoria riassunta a presente all’interno della tessitura linguistica e il presente che s’inserisce in essa per conciliare l’attività sincronica del passato in modalità diacroniche, rivelatrici di un’attività favolistica e iperreale che presiedono a un legame istituzionalmente corretto di un modo di sentire che pertiene alla sensibilità dell’autore, il quale ricerca nelle scansioni sensitive delfanciullole ragioni sensibili dell’adulto.

Così, con un ruralismo inalveato in abile opposizione lingua /addizione vernacolare fino a una raffinata combinazione di stampo alessandrino, questo lo specifico percorso di Pasquale Totaro-Ziella. Ne attivano la sfaccettatura le raccolte Solamente questo paese (1976), Corale Accorato Corale e Autocritica di un uomo, edite nel 1981, Clena (1984), A canne a pietre a posti fatati, riproposta e ampliata nel 1990 e Spaesamento (1994). Nella prima talune sofisticate riduzioni di immagini e circostanze tendono a forme parentali con la maniera di Scotellaro; ma più che di riferimento a un modello, certamente sentito come subbuglio di coscienza, si dovrebbe parlare di affinità dinamica e concentrazione sentimentale, sorte dal comune disagio per una terra aspra e dolente, quando non disperata, eppure ricca di fermenti salvifici in direzione sociale. La socialità del senisese è dunque elaborata organicamente, e non si saprebbe penetrare nella sua prima raccolta se non si tenesse conto del continuo e vitalistico attaccamento al paese d’origine, visto alle volte in forme di malinconico e vetusto dagherrotipo e in altre di visioni dal sobbalzo fantasioso. Entrambi i connotati volgono spesso a una spietata analisi, a una rincorsa di malefiche memorie che s’attardano, nella loro cretosa custodia, a rasserrare ogni slancio, teso a superare, sia pure con i corredi poetici, le forme immobili del paesanismo. Concetto doloroso e dolorante che si ripercuote nelle liriche di tale raccolta, dove l’arcaicità del mondo contadino viene prefato con rarefatta e iconica immobilità, tanto da essere, le parole stesse, stendardi abbrunati da un lutto non solo cromatico:

 

 

 

Sud quanto sei melanconico

nelle nostre strade pietrose

polverose ammassate

dilungate dilaniate

per troppo tempo da squilli rassegnati

 

(pag. 24)

 

 

 

E di fronte alla calamità della frana che ha colpito il suo paese, l’immagine si riveste di cupa allegoria, le case diventano gli oscuri penetrali di grida soffocate per lo scempio urbano operato, cui s’aggiunge, come incretato suggello, l’impalpabile rassegnazione di una sorte forse prevista.

 

 

 

Questo piccolo paese presepe

che solamente a natale

si compone nella sua fissità

di donna dalle braccia nel grembo

ha liquefatto le case bianche

in lava di cenere di cielo

nei silenzi tristi dei vicoli

che già si fissano indifferenti

in uno sguardo immutabile

senza intesa e senza amore.

 

(pag. 39)

 

 

 

Le altre liriche, permeate di radicale attaccamento al proprio nido di case, confermano e attuano situazioni, mediate tra affetto e rancore: da un lato l’impossibilità di migliorare (o di capovolgere) le consuetudini di vita, appannate da una latonica nostalgia agreste, dall’altro la immobilità di un destino che sminuzza il quotidiano secondo cadenze, che paiono respingere la storia a vantaggio della cronaca minimale. Nondimeno queste brevi esursioni, tanto d’occhi quanto di cuore, danno alla parola inselvata nei versi la felice potatura di una fronda rinsecchita e un indiarsi felice e pacato, talché la formula stessa dell’apatico trascorrimento si consolida in quadro, dalle tinte robuste e soccorrevoli per una visione meno adombrata di dazi appenati. E se questa circolarità dell’amore/disamore si converte in passione carnale in Quasi un madrigale, alcuni echi “prévertiani” ìterano e intrecciano strappi di confessione per consentire al sangue e al suo tumulto di allegare vivide immagini di tattile consonanza, come in questo caso:

 

 

 

Mi muori in questo rivivere

amore solamente antico

con gli occhi posati a ricordi

più per noia che per gioco

mi abbandoni alla memoria

mentre nell’aria remota

s’alzano nebbie veline.

Come sei stanco amore passato

solo nel cuore la morte ti canta ...

 

(pag. 56)

 

 

 

Ci sono in questa silloge, alcune costanti della poesia di Totaro-Ziella: uno scavo d’analessi nelle scaturigini del suo essere voce del sud e devoluto a un humus fortemente contadino e, all’occasione, frugifero di situazioni altamente corredate di scaturigini intellettuali; la linearità liturgica (e quindi intensamente biblica) delle canzoni d’amore, tra il sofferto e l’incantato; l’idillio volto a un riappacificato impiego del vocabolo contrassegnato da elementi medianici, ma attratti all’aperto con la suggestione panica che dalla natura trae il suo andante fonicamente acquisito.

Diverso spessore è percepibile in Corale Accorato Corale la cui cifra dominante è l’amore nelle sue varie prolusioni, da implorative ad asseverative, dalle introversioni alle invocazioni. Di conseguenza interviene un coordinamento assai stretto fra le liriche, colluso a un ripetitivo tu rivolto alla donna amata, persa e ritrovata nei meandri delle similitudini e degli accorpamenti allegorici, cui fanno da alternativa componenti naturali, sollecitate a richiamare la vitalità del corpo femminile. La raccolta consegue perciò un canto aperto, nitido e confessionale, nel senso di una rivelazione metaforicamente carnale all’amata attraverso la più schietta partecipazione; cosicché vocaboli, costrutti, espansioni attingono all’inesausto frasario amoroso, reso prezioso da forme rigeneratrici di agudezas, qualilabbro caldo alla guerra dei sensi”, “cuore consumato di corallo sfatto di colpo”, “gigli della carne”, “t’incori in questo cuore scorato d’amore”, “lune di spugna incenerita dall’amore” e altre ancora con paronomasie che si rincorrono nei versi escussi con impeto e con la grazia dell’amante che sostanzia l’universo in un rapporto oltre il quale il disinganno può incrinare un legame così fervoroso. E qualche tratto, stavolta più meditato, va intrattenuto per spiegarne la modalità d’esecuzione:

 

 

 

Si veste la piccola notte di luna e di morte

ma di te non ha il desiderio attaccato alla fronte

quando tinarchi contenta e non sei che un amore abbandonato.

Hai lasciato tutto in disordine e sei fuggita

non ti pareva l’ora di andare alla luna

a cogliere passi di pietra e dimenticare il deserto

che m’aggredisce se tu non t’incanti e non t’adori

alle mie mani dei caldi sospiri e del cuore

e il cuore è il dolente amore che ti porto

a questa notte barbara che ha una presenza da ricordare.

 

(pag. 15)

 

 

 

Di tutt’altro impianto, con calcolati raccordi locali, Autocritica di un uomo, prefata da poesie nelle quali la componente territoriale, sentita come gene insostituibile, penetra con i forti sapori della ricordanza.

Emergono scavi di colloqui che s’aggrumano in quadri concisi che rendono il paese proscenio di attori statici e dai gesti radi, dalle parole parche, dalle occhiate più eloquenti d’un racconto a perdifiato. Sono sufficienti scarne griglie per indovinarne le posture: Seduti sui muri della via/con la pipa che sogna nel fumo/aspettano il turno di morte (pag. 9). La sezione successiva che dà il titolo alla silloge si snoda lungo referenze epigrammatiche, che si aprono col condizionale Potrei, dirottato a dichiarazione d’intenti, in cui il desiderio, l’ironia, la sconfitta si allineano in proclami che annullano la stessa appercezione dell’amarezza della constatata accusa. Esempio indicativo: Potrei adorarmi a un cristo disumano/e addolorarmi alto a una voce/ai labbri spinati feroci alla corona/so già che sarei scomunicato al voto. (pag. 18). In Quasi un madrigale, le dedicatorie sono le risultanti che alimentano circostanze infuse qua e là d’ironia, e anche di sofferta tonalità allucinatoria, che esclude il ritmo pacato e che intride non più la parola ma la sua laboriosa farina, impastata e reimpastata secondo un rituale in cui lo stridore funereo (il vocabolo morte) è consertevole più a qualcosa di intimo che non a putrefazione carnale. La morte è il margine che sta fra la coscienza dell’animo desertificato dalla grazia e la prescienza della sua pena: Forse tu impazzisci a quest’uomo senza dio/ma quest’uomo si porta le tue pene nel sangue/e ti sconta giorno a giorno alla solitudine (pag. 45).

Più affabulatoria e ricognitiva la raccolta A canne a pietre a posti fatati, quasi del tutto imperniata sulla rivisitazione dell’infanzia, acclusa lessicalmente a versi aspri e giocosi a un tempo, nei quali l’italianizzazione dei vocaboli dialettali consertano un domestico e ricettivo cromatismo dell’età innocente; anzi è il ricupero proprio di tale stato fantasioso che implica una sorta di scavo nella corteccia dell’infanzia, laddove le parole, per lo più sul filo del grido, attestavano un genuino approdo a una più sciolta comprensione dell’esistere. Quindi giochi, scherzi, risse, scampagnate, presìdi antropologici nel guscio di società familiari fanno da robusta travatura a questo “sentimento del tempo”, infittito con la formula iniziale Come posso scordare ...; formula iterativa che programma il susseguente itinerario che si slarga in forma di evocata elegia della civiltà ‘da porta a porta’ cui era demandata di scandire la vita non tanto con le ore quanto con le consuetudini. L’infanzia appare in questa raccolta come l’età dell’oro, e poetica per eccellenza. Totaro-Ziella possiede qui l’abilità e la capacità di non riscriverla secondo una stantia introiezione ma con la riammissione a una visionarietà dinamica di una stazione edenica, senza colpa e priva di responsabilità, risigillata col compiacimento di una età non perduta del tutto, ma di una stazione che ritorna con i suoi umori sanguigni mescolati all’afrore delle zolle, in una consapevole fedeltà a lari immemoriali e non assopiti nella tenebra. Valga qualche esempio: Come posso scordare la mia fanciullezza/ con i miei compagni vendevamo alla piazza quadrata/alle sporte arrossate i ravanelli ai vesperi/vuotavamo alle sedie coricate i lupini ai sacchi/alla rucola amara allargavamo i mazzi all’inganno.// (pag. 37). Qui interviene l’allegoria del tempo fatto uomo, la sua metafora che riesplode in poesia, il tempo stesso che si ricolloca all’indietro per affermare: ecco qual ero, coglimi nell’attimo riportato alla crudele dolcezza della parola incontaminata. E Totaro-Ziella ne accoglie l’invito perentorio, ne dispone la retrodatazione, ne campisce il madreperlaceo orizzonte che intervalla soltanto la stessa parola riammessa al suffragio dell’imperituro.

L’intero tracciato lirico devolve così un dedalo favolistico, commisurato al fraseggio primigenio e a una intelligente operazione di allineamento lessicale, basata su di un esclusivismo memoriale. La novità evidente è il sottofondo ideologico e anche filologico che ne sostiene l’intrecciatura. Il ritorno edenico, ritualizzato episodicamente, è un atto di rimozione psicologica che, nel creare l’accadimento poetico, promuove l’inconscio a calarsi nel fanciullo (vichiano o pascoliano?) che sìllaba la sua pura teoria di versi, ancorché l’adulto, come spia su di lui, adoperi una sopralingua scaltramente addomesticata nella sua funzione semantica.

Totaro-Ziella è cosciente che quel mondo può essere ripristinato con le varianti dell’innocenza e della crudeltà del “puer ludenscui non era estraneo il sentimento oscuro dell’inconsulta e deresponsabilizzata efferatezza. Perciò il suo intento nasce da questa forma di esorcizzazione del proprio passato, ricreato con gli scarti del tempo verbale, quasi una continuazione del suo presente in quella favolosa stagione, adulterata in seguito dalla disciplinata costrizione dell’impulso. Di qui una poesia combattuta fra la diaspora di quel tempo e il suo ripristino, in un difficile equilibrio espansivo che sottende umori e traversie di immagini. Si osservi la “dizione” di questi versi:

 

 

Scartavamo alle stoppie le mani alla spigolatura

ai capelli del grano tenevamo l’occhio alla formica

ripassavamo alla luna intera la bocca munta al raspolo

alla vita piegata sapevamo l’ulivo alla ribruscolatura

sentivamo al trappetaro gli occhi affascinati alla macina.

 

(pag. 37)

L’insorgenza dei lavori usuali converge sulla opposizione uva/olio/grano, che denuncia e sostanzia i livelli della vita agricola, riammessi all’uso pressoché primordiale della civiltà mediterranea, coesi con l’inserzione di raspolo, ribruscolatura, trappetaro, forme vernacolari ma che qui sussidiano il traliccio versificatorio con una forte impalcatura di sentori e afrori, tipici della vitacontadina e con l’alternarsi della fatica e del gioco, che supporta il dato stilistico-combinatorio dei versi.

Con questa raccolta presumiamo la più paradigmatica fra quelle di Totaro-Ziella la vita demotica, la percezione dell’usanza inserita nella quotidianità, il giuoco come forma liberatrice portano a un affresco non già bucolico o pastorale, ma a una testimonianza, a un testamento olografo (con tutte le clausole elevate a condizioni di poesia) di una civiltà smarrita e che solo la rivisitata innocenza o l’improntitudine della piccola canaglia, scevra di compromessi pedagogici, possono in qualche modo escavare con la tenera crudezza che l’ora presente le infonde tonificandone l’inquieta resurrezione.

A specchio di questo “subbuglio d’innocenza” fa da contrappunto Spaesamento (1994), che sembra rimestare o, per lo meno, porre in diversa prospettiva l’intero ordito della precedente raccolta. Qui non è il fanciullo a raccontarsi, ma l’adulto; non è la favola a espandersi, ma la cognizione del dolore. La minuscola ferita dell’infanzia è ormai suturata, quella dell’età della ragione si apre a flussi di passione, e anche di disperazione. La ristretta area domestica non contiene più l’eden incontaminato dell’indocile monello che inventava se stesso negli atti del quotidiano. Qui si accaglia l’amarezza di un viaggio che si protrae nella sua attesa e che in essa si consuma con i postulati della sofferenza. Molte liriche principiano con un Me ne andrò, seguito però da feroci intenti autodistruttivi affinché quel taglio col proprio mondo si avveri e lo “spaesamentodiventi fuga, ricerca e conquista di imprevedibili dimensioni, al di fuori degli spazi consueti cui attinge l’autore e dai quali trae una ininterrotta teoria di vicende oscure e mitizzate nel tempo. La partenza esige quest’obolo sacrificale, la spoliazione di se stesso tramite inferte lacerazioni per divenire immune da qualsiasi forma di retrocessione al sostrato originario: Me ne andrò/ma prima di andarmene/mi calpesterò i piedi/ nell’aria delle fave e dei lupini/che cacciano le corna e gli occhi neri/per gli anelli di questi bambini/alle sere consumate di tradimenti.//(pag. 22) In seguito però l’ossessivo formulario iniziale si muta nella possibilità di ricomporre il dissidio con la propria primigenia coscienza, che altra non è se non l’influsso dell’ambiente dove la vita è stata ai margini di una panica innocenza e che si fa fatica a cancellare. Oltre a tale conflittuale repertorio, la raccolta vive di sapori linguistici tratti dalla parlatura paesana forte e austera e, come in precedenza, accomodata alle esigenze d’un italiano che pullula di espressioni idiomatiche, filtrate a tutto tondo da un eloquio che tende a nobilitarsi con l’apparato dei propri scavi espressivi. Operazione coerente questa di Totaro-Ziella per cui il meridione non si frappone come opzione sociale, ma anche linguistica, mentre il contrasto versificatorio si riappacifica in ultimo nella sezione Quasi un madrigale, dove lo sgorgo di un sentimento antico, forse di lontana derivazione ionico-greca, si apre col ritrovare la misura limpida di un canto non più disperato, ma convertito all’idillio e all’elegia:

 

 

 

Prima che l’alba canti tutta la nottata

chiudimi gli occhi alle tue mani sul cuore

che il sole mi porta fasci di ginestre e di menta

così chiari sul tuo corpo di passione furibondo

dove le mie labbra hanno mangiato nidi di cicale

Alla tua pelle colore di fiati e odore di gole.

A quest’ora del cuore le lune marciscono di desiderio

e non puoi farci niente legata alla stessa saturnina

con la tua faccina piena di cigni e di stagni

liscia di pietra e d’idoli dolce di seta e d’api.

 

(pag. 48)

 

 

 

Infine Clena (1984) che, rispetto agli esiti finora esaminati, si propone come repertorio a sé, singolarissimo per esecuzione tecnica e altrettanto per modulo argomentativo. Il tema generale concerne la felicità sponsale, l’elevazione della affettuosità a una sorta di stravolgimento linguistico, col rinvigorire il tono epigrammatico e la concertazione del madrigale; per cui la lingua alla quale adduce Clena viene da un filtro assai antico e, nello stesso tempo, moderno quanto a immagini. L’esorcizzazione tematica coniuga i livelli situazionali, li reintegra in un corpus monolitico, li metaforizza senza sosta in un crescendo gioioso, dichiarativo, aggettivale, con accostamenti arditi, allusivi, in cui l’eros determina una tambureggiante consonanza. Pertanto versi rapidi e stringati come guizzi di luce a illuminare una idea, a connettere una percezione, a divisare ossimori intenzionalmente circuìti verso uno scopo di intimistica collisione corporea. Cos’altro possono dire i versi che seguono se non la parola carezzevole riportata alla sua acme di struggente tenerezza maritale?

Cerbiatta

di spavento di fughe

e di tristezza

cerbiatta.

Cerbiatta

passionale.

 

 

 

La base d’appoggio ricorda un po’ il distico, ma qui esso si disintegra, sparte se stesso, si ripete ricreandosi in altre sfumature espressive, laddove la passionalità cancella i motivi allusivi del timore. E, continuando per questa specie di petizione amorosa, va ascritta ai sentimenti o, meglio, alla postura della maternità un’attenzione simbolica e affettiva, con un non lontano richiamo floreale e liberty, qui trasumanato in serra carnale o in tabernacolo viscerale:

 

 

 

Clena dei rossori e delle vergogne

dei tulipani e delle sante

dei santi e delle orchidee

Clena timida e richiamata

Clena nidale.

 

 

 

Oppure in un giuoco fonematico di gradevole suggestione:

 

 

Cicala

di stridore di frenesie

e di follia

cicala.

Cicala

accecata.

 

 

 

Fanno da contrappunto composizioni meno eversive sul piano riassuntivo e che hanno la finalità di pausare l’iterativo-parossistico con un’alternanza più liricamente composta, come a corroborare una spiegazione o un evento susseguente allo stato di biblico abbandono intessuto d’impressa valenza sentimentale, se non sessuale.

 

 

 

E ti vieni a stendere

disarmata

sul mio fianco

a nottate intere

e mi cerchi a morsi

più lunghi possibili

nelle tue mani piccole

a consumarmi il braccio:

è il tuo essere invadente.

 

La silloge vive perciò di questa rotazione bivalente, monodica da un lato, episodica dall’altro e insieme intrecciate in una moneta a due facce, sbalzata e incusa, in grado di determinarne la tattilità. Il vocativo subliminale cede posto a un lirismo meno irrefrenato e di più compassata aggregazione sintattica, come se dall’acuto variegato del violino facesse eco il grave accordo del violoncello: il violino per stridere la follia amorosa e il violoncello per declamare e commentare la sottigliezza del primo suono per poi riprenderlo in ludica intersezione, offuscata da un timbro un po’ malinconico. Quasi che il poeta voglia concedersi uno stacco di esistenziale placidezza pur negli ammiccamenti dei sotterfugi amorosi. Si assiste, in questo intervallo contrappuntistico, a due modalità connotative: il tono laudativo permeato di accesa sensualità e l’inclinazione a fatti più in dimestichezza con l’eros meno gridato e impulsivamente agito. Se il polimorfismo delle mutazioni conduce all’inventario di un frasario di gentili metafore appellative, certamente non può essere estraniata una parvenza di ‘cannibalismo’ passionale, intruso nella intimità della coppia. Esseri che si cercano e si combattono inseguendo, a volte inconsciamente, il doppio ed eterno, scambievole ruolo dell’eros e di thanatos. Al suo ultimo stadio, l’amore sprilla il climax e la sua morte, l’estasi e la tristezza, il vigore e l’abbandono. Inno nuziale per eccellenza, Clena supera le barriere e le trappole dell’epitalamio domestico per incendiarsi in un tirso sacrificale, dove la parola induce se stessa a risolversi in ultimativa pregnanza semantica, come nella clausola pacificatrice e attonita che chiude la raccolta:

 

 

 

E trovami un difetto

per disamorarti

io t’urlerei nella bocca

tante parole violente

sino a rompermi la gola

ma tu mi ripeti ancora

ti amo nel caldo dell’orecchio

sino a farti insistente:

è il tuo essere strabiliante.

 

 

La ripresa della congiunzione acquieta, per certi aspetti, il tono altamente commisurato delle liriche ‘a fronte’, ne riduce la virulenza celebrativa ma, in alternativa, segna uno scarto di dizione, ovvero un registro basso contrapposto all’alto; insomma lì piena gioia, canto nuziale, qui lirismo profuso in versi accattivanti, mormorati nel “caldo dell’orecchio”, cavo ricettivo di una strabiliante battaglia di amanti, tanto per essere in consonanza con l’esborso lessicale perseguito dall’artista.

 

 

Tito Spinelli      

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