Romano Fea

 

 

LA RAGAZZA CHE VOLEVA UN’ISOLA

 

13

-Il signor Patsch non è qui?- il suo sorriso era fiducioso ed accattivante, e riuscì a scalfire lo smalto di indifferenza che m’ero imposto. La precedetti in uno dei nostri accoglienti caffè cittadini e ordinai cioccolata e brioche. La fissai dilungandomi nello spiegare le circostanze che ella accolse con non più di una fugace increspatura della fronte del sopracciglio destro, poi ritagliò a fatica una fessura di sorriso e mi narrò sottovoce una notevole serie di fatti alquanto gravi che la riguardavano. Parlava come recitando e, in fondo, del significato delle parole e della loro sostanza le importasse ben poco:

-Forse lei non saprà, ma io sono scappata. Fuggita di casa. Ma certo lo sa, poiché era ad attendermi in stazione. Per noi ragazze del sud, fuggire significa diventare prede di cacce spietate, essere sovente ripescate e poi sottoposte a pesanti vendette, rivalse. Certo il mio patrigno è già sulle mie tracce e, credo, per prima cosa si rivolgerà alla sede della radio dove voi lavorate. Noi ora dovremmo preavvisare quella sede, in modo che non forniscano a nessuno i vostri indirizzi di casa. Io non debbo essere ritrovata. -

-Capisco. Ma per fuggire con successo è opportuno darsi un programma. Tu ce l’hai un programma?-

-Piuttosto vago. Si tratta di trovare un lavoro in uno dei Paesi europei: Austria, Germania. O Svizzera. Aiutante in un negozio di parrucchiere per signora, oppure inserviente in una scuola di ballo.-

-Scuola di ballo, dici? Curioso.-

-Non so bene perché l’abbia pensato. Scuola di ballo. Forse sì, mi piacerebbe. D’accordo, in un posto del genere, io non saprei insegnare quasi nulla. Ma quando sarà possibile vedere il signor Patsch?-

-Sandor ti ha dato qualche speranza di lavoro?-

-Non precisamente, ma ha garantito conveniente che fuggissi via di laggiù. Da quei due con cui era impossibile vivere. M’ha invogliata. E s’è mostrato interessato e pronto ad aiutarmi.-

-E basta?-

-E basta. Fuggire e lavorare: basta.-

Questa volta mi rendevo conto che il cocktail di simpatia e genio distruttivo di Sandor mi aveva giocato uno scherzo di gusto orribile, lasciandomi fra dilemmi irresolubili. Non potendo inviare la ragazza come un pacco postale alla casa austriaca di Sandor, casa popolata dalla moglie legittima e dai figli in tenera età, che cosa avrei potuto fare di lei? Sul mio orizzonte di  giornalista, divorziato e quasi coerentemente single, il carico estemporaneo d’una ragazza del sud rappresentava una trappola in cui, ahimé,  mi sentivo  già incappato. Che fare? Il pericolo d’un’accusa di plagio o d’induzione alla prostituzione stava erigendosi sul trono dei miei tormentoni, così come una fuga precipitosa per le vie, avendo alle calcagna un robusto e baffuto difensore dell’onorabilità famigliare meridionale.

Riguardai la ragazza e mi resi conto che, coi suoi riccioli neri ed i sorrisi fiduciosi, stava aspettando che io, iperboreo convinto e libero dai condizionamenti delle tradizioni della terra da lei appena abbandonata, illustrassi una teoria risolutiva dei suoi problemi personali.

Mandai una cordiale maledizione a  Sandor ed a tutti gli abominevoli pasticcioni suoi pari e, nell’intento di separare le mie responsabilità da quelle del mio amico, proposi una frase del genere “e adesso, in attesa dell’eventuale arrivo di Sandor, che si fa?”

Fu proprio qui che vidi le prime lacrime agli occhi della ragazza, gocce tenacemente attaccate alle ciglia, a contrastare il sorriso di poco prima.

-Vorrei ripartire subito, ma sono troppo stanca. Questa notte la paura non m’ha lasciato dormire e poi speravo ...-

-Hai danaro per continuare il viaggio? Hai qualche  riferimento nella città dove penseresti di vivere?-

-Indirizzi, dice? Di indirizzi posseggo solo questo di Torino, ed ero certa fosse anche del signor Sandor. Non immaginavo che oggi il signor Patsch sarebbe andato in missione in Austria.-

-Capisco. Ma se desideri riposare, possiamo andare a casa mia e là attendere l’ora di partenza del treno. Bene, come saprai io sono Nick, ovvero Nicolò Cigliano.-

In fondo, per un single come me non è precisamente spiacevole trascinarsi in casa una brunetta ricciuta. Già valutavo con piacere la popolarità che avrei acquistato presso il portiere ed i casigliani che m’avevano forse giudicato un inoffensivo misogino!

 

Riposò fino all’ora di pranzo, poi un altro paio d’ore. Quando fu metà pomeriggio, mi armai precauzionalmente del mio fonoregistratore tascabile e tornai in salotto dove l’avevo lasciata sul divano e dove la ritrovai, seduta, gli occhi spalancati a fissare il soffitto. Le sue labbra biascicavano parole senza suoni. Al mio sopraggiungere non si scosse che un poco: un “è lei, Nick?” e riprese a guardare verso l’alto.

-Hai ripensato al tuo viaggio? Dobbiamo telefonare a qualcuno che conosci? A Sandor, forse, nel caso fosse già tornato dalla sua missione?-

-Telefonare? Non so, ora, non so ...-

-Io ti consiglio di sentire col telefono qualcuno nella città dove vorresti trasferirti o, per sicurezza, uno degli istituti che accolgono transitoriamente ragazze sole. Non è conveniente che tu rimanga in questa casa di notte!-

-Perché no, se tu sei amico di Sandor?-

-Non vorrei metterti in imbarazzo, sono  un uomo solo ...-

-Io potrei leggere nel tuo futuro, cantare qualche canto di quelli che conosci ...-

Improvvisamente mi parve che uno spiraglio d’uscita cominciasse a trapelare nell’oscurità della trappola in cui mi trovavo involto. Sì, l’idea di produrre a titolo personale una serie di trasmissioni per la mia radio, contenente le voci di indovine, maghe, chiromanti. Il tema delle predizioni e sortilegi sviscerato e condito di sapidi commenti. Tra questi, un’intervista appagante per articolazione e contenuti, anzi un’intera  puntata, poteva per certo essere dedicata ad Annita che, da sola, possedeva carica sufficiente a riempire una mezz’ora di vivace trasmissione. Parte del materiale necessario era già disponibile. Altro materiale, sa il cielo quanto, era nelle potenzialità della ragazza.

-Annita,- dissi, -quanti canti o poesie diversi da quelli che ho già udito, potrai ancora recitare? Quanti minuti di recita?-

-Tu mi chiedi quanti sono i miei canti?- mi rispose con l’occhio perduto nella tappezzeria del salotto, -sono tanti, tantissimi, tutta la vita!-

-Ti sentiresti di recitarmeli, a poco a poco, che so, sei per volta ...-

-Tutti, tutti te li dovrei dire?-

-Se potrai, e vorrai.-

-Non so che rispondere. Aspetta, mi torna a mente un canto:

 

- Il tuo profumo cerco,

tu che vivi come un fiore nel vento.

Sulla riva del mare

non opponesti scudo ad una spada.

Fra tronchi madidi

sulla rena del salso mare

cercherò l’orma lieve del tuo passo

profumato di fiore di palude,

come il tuo braccio, come la tua guancia.-

 

nessuno ha mai voluto ascoltarmi, se non voi due, e di questo vi sono grata e sento d’amarvi ...voi sapreste aiutarmi ad uscire dal profondo della mia disperazione

 

Passano mesi senza una memoria

e già mi sento al termine di questa

fervida estate d’api e calamari:

attenderò le nebbie di vecchiaia

come mai fossi nata e mai giaciuta

fra trepide carezze.-

 

-Sei stanca?- dissi, sentendola esitare. L’aiutai a sollevarsi e la condussi alla finestra: guardammo fuori, parlammo della mia città e dei suoi fantasmi. Dei demoni e delle streghe aleggianti sulle piazze nebbiose. Sui gemellaggi esoterici con città come Lione e Praga. Della dolcezza nascosta nelle piazzette verso il fiume, tra le colonne dei portici, lungo lievi ascese collinari.

-Ora va meglio,- mi disse dopo un po’, e tornammo al divano. Inserii un nuovo nastro nel registratore ed ella ricominciò, senza mai guardarmi, quasi non fossi presente e stesse parlando tra sé. Appariva tanto compresa del suo dire che non mi preoccupai di celare i miei armeggi sul registratore ed il microfono che avvicinai alle sue labbra.

-Ora sarai stanco. Ti annoio, forse?-

Ma il mio cuore pulsava di gratitudine per il suo impegno a corrispondere ai miei desideri:

-Ti prego, Annita, se vuoi continua, io non posso stancarmi!-

 

Le tue carezze, Erma,

nella penombra di novilunio

come denti di giovani marinai

aguzzano la sete,

le tue braccia, il profumo

son gomene di porto,

vellicano acque aperte

dal novilunio al plenilunio

tra guizzi e schiocchi immemori di pesci.

 

A volte m’assale lo sconforto…

 

Se morirò di queste nuove febbri

non vi dimenticate alcuni passi miei,

le voci, i perduti sospiri.

Vivo questo mistero

d’autocoscienza da innumeri stagioni:

m’hanno ascoltata e travisata,

inflitto violenza.

Ma ho cantato di sera dalla rupe,

nudi i piedi, fra lucciole affannate.-

 

Qui la giovane ebbe un sobbalzo, esalò un sospiro, s’irrigidì e scivolò lungo il sedile del divano, ginocchioni per terra, e buon per lei che le fossi vicino per trattenerla e reggerla.

-Non preoccuparti, -le dissi nel tentativo di rassicurarla, quando si riprese e mi fissò negli occhi, meravigliata e forse spaventata di trovarsi a terra, fra le mie braccia: -uno svenimento. La tua è stanchezza. Gli esiti dello shock per la fuga. Non preoccuparti. Di me ti puoi fidare. Ora andremo fuori a passeggiare, o preferisci riposare?-

Preferì restarsene sdraiata sul divano. Pensai di uscire di casa e prima di scendere le proposi di prenotare a suo nome una camera nella vicina pensione. Rispose che no, non aveva danaro e avrebbe preferito aspettare l’arrivo di Sandor proprio qui, in casa mia: il divano sarebbe stato più che sufficiente per i suoi bisogni. Beninteso, aggiunse timidamente, se io non trovassi nulla a ridire.

Non potei negare l’ospitalità chiesta in tale posizione di debolezza, e neppure riuscii ad insinuare alla ragazza una malvagità: che, forse, in futuro Sandor non avrebbe messo mai piede nella mia casa ed ella avrebbe dovuto arrangiarsi colle proprie forze. Eppure, per altri versi, l’idea d’avere quella ragazza stabile in casa mia mi tolse un gran peso dallo stomaco ed, anzi, mi riempì di entusiasmo fanciullesco: la mia intervista alla pitonessa di Matera si avviava a evolversi in un servizio pregevole. Certo sarebbe stata un’emissione radiofonica capace di provocare scandalo e malevoli mormorazioni da parte di colleghi: ogni nuova grande idea, ai suoi inizi pare blasfema!

Ma in quella felicità v’era anche dell’altro, ora so.

 

 

14

 

 

In contrasto colle mie speranze, e corrispondendo ai miei timori, Sandor preannunciò il suo arrivo per il fine-settimana successivo ed andammo ad accoglierlo alla stazione. Egli strinse la mano a me e ad Annita in modo assai cordiale. A casa discutemmo di servizi radiofonici mentre la ragazza masticava silenziosamente la cena. Bevuto il caffè io pensai di far bene ad uscir di casa adducendo pretestuose urgenze, per liberarmi dall’impaccio del loro eventuale imbarazzo.

Quando tornai e misi piede nel salotto, Sandor s’alzò di scatto dal divano dove stava semisdraiato, venne a grandi passi verso di me e mi scaricò addosso un pugno che riuscii a schivare solo in parte. Un buon uppercut. M’accasciai sulla sedia tastandomi  la mandibola, mentre quell’energumeno attraversava l’ingresso a grandi passi e se ne usciva sbattendo la porta.

Nella sala di soggiorno, Annita canticchiava una canzone tra sé.

-Un accesso di gelosia,- mi disse più tardi, -ha avuto il sospetto di una relazione ... sentimentale fra noi due.-

-Impossibile! Glie l’hai fatta sospettare tu?-

-Chissà. Noi ragazze del sud parliamo e parliamo senza immaginare che cosa possa frullare nel capo d’un uomo del nord. Soprattutto se sposato.-

-Non capisco.-

-Sandor è sposato. Ora lo so. Ed anche tu lo sei stato. Con tutta la mia inesperienza, mi trovo alla mercé di due uomini sperimentati.-

-Ma io non credo di poter aumentare tue difficoltà. Il mio comportamento è neutro, affidabile, come sai.-

- Sei davvero sicuro di non desiderarmi?-

Quella notte non potei dormire, per il dolore alla mandibola e l’apprensione per cumuli di nubi minacciose crescenti all’orizzonte. Il mattino successivo dovetti partire per un servizio radiofonico e non ebbi tempo che di allertare la disorganizzazione strutturale di Annita sulla gestione della casa in mia assenza.

Quando tornai il mio appartamento appariva in accettabili condizioni di funzionalità e la ragazza passabilmente lieta di vedermi, seppure annoiata dell’attesa :

-Ha telefonato il signor Sandor. Sembrava spiaciuto per il fatto del pugno. Disse di sperare che non vi siano conseguenze alla mandibola e d’aver intenzione di scrivere un telegramma per scusarsi.-

Il telegramma conteneva scuse generiche ed un’ancor più generica intenzione di riprendere i contatti con me ed Annita. Non è agevole vivere con le persone che abbiamo preso a pugni e offeso, ma Sandor non pareva neppure sfiorato da simili ambasce. Sandor è l’esito evidente delle eccessive attenzioni ed indulgenze di madri nevrotiche, ragazzini che s’attardano colla piscialletto fino a dieci anni, mentre le madri vanno esaltando le proprie apprensioni e l’attaccamento morboso accogliendoli tra le muffe dei loro abusati talami. Cresciuto, non aveva mai sollevato lo sguardo oltre gli adorati libri di greco se non per pescare nel sacco delle caramelle sempre aperto a fianco della scrivania. Debbo confessare la mia convinzione che un individuo del genere mai dovrebbe sbarcare dalle paludi infantili, perché gli esiti non possono essere che questi che continuavo a verificare: infelicità e pena per chiunque Sandor avvicini e frequenti!

Annita canticchiava limandosi le unghie, seduta su uno sgabello presso la finestra.

-Ora tu parti,- le ingiunsi con decisione, - per il paese di Sandor. Sì. Sandor ti aspetta. C’è un buon treno domattina. Porta i miei saluti alla moglie di Sandor.-

-Com’è possibile? Tutto sarebbe già deciso e senza interpellarmi?-

-Lo è. Sono certo che farai un buon viaggio.-

Mi muovevo con difficoltà ed imbarazzo nella stanza: sapevo che le sue ciglia erano pesanti di lacrime e la mente ingombra d’interrogativi. Ma tutti saranno d’accordo con me sulla mia impossibilità di proseguire in quello strano rapporto.

 

Invece non andò così. La stessa sera Sandor arrivò senza preavviso, m’abbracciò profondendosi in oceani di scuse per quella mazzata da pesomassimo, convinto che, almeno per il momento, l’invito ad una sontuosa cena in un esclusivo ristorante tra le colline bastasse per farmi ingoiare il dolore sofferto ed il disagio per il disordine nel mio management domestico.

 

 

15

 

-Ma, voi che avete studiato, che cosa sapete dirmi di sicuro su quella vostra Saffo?- disse Annita.

Rispose Sandor: -Una donna dell’antichità. Grandissima donna greca di duemilaseicento anni orsono. Tanto grande da meritare d’essere considerata un’ipotesi. -

-Un’ipotesi, nientemeno?- ironizzò la giovane.

-Una creatura misteriosa, poiché di lei mancano troppe notizie. Donna di visioni nitide e chiare, ben viva e sensuale, al punto che ancor oggi non si può leggere senza turbamenti e commozione. Una poetessa che produsse versi di un’immediatezza ineguagliabile. Qualcuno sostiene che i suoi scritti siano prelogici e privi di atteggiamenti mistici. Certamente sono preclassici. Noi possiamo fortunatamente leggere una parte dei suoi carmi soprattutto perché qualcuno, già nell’antichità, si prese la briga ed il piacere di ricopiare talune delle sue opere. Purtroppo anche quelle copie sono quasi tutte ridotte a frammenti. Sono i papiri di Ossirinco, di Ercolano e di Michigan. Oltre ai papiri, alcuni suoi carmi sono conservati su pergamena o su coccio. In tutto si tratta di nove libri di liriche, quasi sempre d’amore. -

Si indovinava la fatica della ragazza nel seguire la lezioncina di Sandor: -Se sono d’amore, piaceranno anche a me. Potrò leggere qualcuna di quelle liriche?-

-Dille del soggiorno di Saffo in Sicilia,- suggerii a Sandor.

-Sì. Ad un certo punto della sua vita Saffo dovette fuggire e riparò in Sicilia, precisamente a Siracusa.

-Io non conosco questa storia, se non per qualche particolare. Non so dirvi se si tratti di storia sognata, oppure narrata da mio padre. Non so dirvi. In certi giorni una grazia sconosciuta m’istilla nella mente aspetti nuovi della vita di una donna isolana, donna che a volte son certa d’esser stata io stessa, in una grande casa di pietra con portici e cortili ombreggiati, dove giovani ragazze cantano.-

-Il tiaso di Mitilene!- gridai.

-Quello che hai descritto si chiamava tiaso, - spiegò Sandor alla sbalordita ragazza, - un luogo dove le ragazze aristocratiche potevano ricevere raffinate nozioni di musica, canto, comportamento.-

Annita parlò tra sé, come trasognata: -Giovani donne di pelle chiara che incantavano con  dolcezza di sentimenti, illudevano d’una vita di felici tenerezze e poi finivano sempre per abbandonarmi lasciando la scuola per tornare a lontane case, o per sposare. A volte chiedevano che scrivessi delle canzoni, che poi ricordavano e ripetevano per anni. Le mie canzoni venivano portate come una dote e cantate in case lontane, su altre isole. Dopo molto tempo qualcuna delle ragazze tornò per rivedermi. E qualcuna di loro sapeva ripetere canti che io stessa avevo dimenticato. Allora potemmo rinfrancare gli antichi legami ed i nostri abbracci furono più coscienti, quantunque velati dall’ineluttabilità del prossimo nuovo distacco. Ma il più delle volte ciò che mi restava nelle mani era amarezza, senso d’abbandono e certezza di quanto sia inutile quello che si fa.-

Lasciavamo che parlasse calma, tutto il tempo che voleva, come avremmo consentito ad un venerato profeta di annunciare quanto dettasse la sua ispirazione. Ella diceva e diceva, senza renitenze o vergogna, ogni poco interrompendosi per domandarci qualche particolare recuperato dalla scienza. Tutto quello che diceva era sempre troppo vago per essere annotato e leggibile, come il volo degli uccelli o il subitaneo cambio di direzione del vento o le diverse vie seguite dalle onde marine per abbracciare le rocce delle coste, sfasciandosi negli abbracci e ricomponendosi senza sosta, con richiami irresistibili per la nostra ragione incapace di procedere se non in una direzione, un gradino dopo l’altro, con impossibili regressioni o impeti solitonici.

-Morì vecchia?- ci domandò.

-Sì, vecchia e sempre ricca d’amore. Ma qualcuno sostiene che invece sia morta ancor giovane. Morta suicida, per amore.-

-Questo mi piace. Assomiglia al mio modo d’essere.-

-Perché dici così? Hai avuto altri modi d’essere?-

-Da quando ero pastora, all’ombra del mio buon padre, sono sempre stata così come mi vedete, nostalgica di un mondo che non sapevo dove trovare, se nel passato o nel futuro. Voi sapreste dirmi dove cercare?-

-Non crediamo di sapere,- dissi, e Sandor le accarezzò la mano. Ella non si muoveva, solo alzava un braccio per sottolineare qualche frase che andava mormorando, ed allora potevo percepire un sottile odore di adolescente, selvatico ma conturbante, alitare dai recessi del suo camicione bianco.

-E ... aveva una figlia?-

-Sì, di nome Cleis, lo stesso nome della vecchia madre.-

-Cleis. Cleis. Un nome molto tenero. Mi dà commozione mentre lo pronuncio. Uno strano brivido, come quando è sera e me ne sto ad ascoltare il mare calmo, su e giù accarezzando le spiagge. E fratelli, sorelle?-

-Fratelli, due fratelli. Ed il marito, ...-

-Fratelli ... chissà. Ricordo il buio notturno e, senza sonno, continuavo a vagare sotto i portici, nel rauco latrare dei disperati cani vaganti fra le rocce della costa di Bitléne...-

-Mitilene!-

-Sì, come dici. Ma non posso ricordare anni vissuti in Sicilia.-

-La cosa più strabiliante per te, cara Annita, è che uno studioso moderno,  Thovez, non temette di dichiarare che, pur di possedere un solo verso di Saffo oltre i conosciuti, avrebbe dato in cambio tutta la letteratura latina, Catullo, Virgilio e Orazio compresi, e questo sollevò un putiferio, se non uno scandalo.-

-Io non mi meraviglio di quello che dici. Se una donna sapesse riferire veramente tutto ...-

-Ci hanno provato in tante. Il risultato è che, fuor di Saffo, la quale gode di tutto il suo misterioso fascino e dell’aura di venticinque secoli, poche poetesse sono celebrate.-

Ma ormai Annita stava fissando attraverso i vetri della finestra il profilo incerto e nebbioso delle colline mentre le sue labbra continuavano a muoversi, come mormorando qualcosa ora incomprensibile.

-Che dici?- domandò Sandor, avvicinandole il microfono.

-Le mie canzoni, quelle che voi chiamate carmi, non sono l’impresa della mia vita: io mi sento come uno strumento per farle ritornare a noi ed essere conosciute. Le canzoni sgorgano di volontà propria, solo che io non m’opponga. Quando una sera, nel chiuso della casa di Matera, vi ho cantato la prima delle canzoni, è stata la ricerca disperata d’affrancazione a suggerirmelo. E poiché le mie canzoni non sempre paiono riguardarmi personalmente, non resta che pensare che esse riguardino tutti. Se il cantare non è neppure un poco innocente, ma fluisce nella piena coscienza di quanto si va cantando, allora non vale proprio nulla.

 

-Dico a te, incisore simile a un dio,

di noi tutti migliore;

le tue parole suonano nel lungo

vento, la giovane

figlia d’un dio futuro vorrà coglierne

dal grembo profumato per gioirne

con me: d’onde scendano le dolci

parole io so: nel buio

di secoli lontani pronunciate

nei riflessi  di specchio in onda

fin qui; e così le odo

attraversando l’atrio e la corte

tra musiche aleggianti

e  profumo di viola.-

 

-Lascia che continui a parlare, non interromperla, lascia che tenda all’essenziale,- mi bisbigliò Sandor. Pareva incantato e senza memoria. Disse Annita:

            -L’essenziale non può essere detto: infatti nei secoli gli uomini hanno continuato a giocargli attorno.-

-Ma questo è Paulhan!- sbottò Sandor.

 

-La tua veste fra lattee colonne,

Atti; non rinunciasti a svellere

gigli di selva  e stocchi di finocchio...

le tue candide braccia fra colonne

fra gigli di bianco veleno,

Atti, e la gamba fra gelide colonne

di tempio folgorò il tramonto.-

 

-Quali compagne …- tentò Sandor.

 

-Giungono voci lontane d’invasori

rudi con lance arrossate,

noi sediamo tra funebri agnocasti

scrutiamo la nota pianura

mirando fumi di lontani fuochi.-

 

Recitava le diverse composizioni tutte di seguito e con scarse inflessioni vocali, come se la straordinarietà dell’evocazione non le potesse donare emozioni; a volte con brevi interruzioni fra una poesia e l’altra, tanto che successivamente Sandor ed io potemmo riscrivere e razionalizzare i testi solo a prezzo di fatiche notevoli.

Non posso scordare lo sgomento che ci coglieva nell’attimo in cui la sua voce, ombrata di ruvidezze quasi infantili, mutava di timbro per diventare nitida e dolcissima, a volte ricca di toni gravi e vibranti di donna adulta; il suo mostrarsi morbidamente sciolta e contemporaneamente immersa e vitale in mondi lontanissimi nel tempo, nello spazio, in  culture ignote, non finiva mai di meravigliarci e sbigottirci.

 

Terminammo il lavoro di traduzione e trascrizione a notte inoltrata e poi Annita, che fino a quel momento s’era attardata a guardarci tra il sorpreso, l’ironico ed il sonnolento, pretese di leggerne la versione italiana. Lo fece con qualche difficoltà ed il risultato parve meravigliarla, come se della vita dell’appassionata donna di Lesbo potesse rammentare soprattutto le linee principali, le canzoni come insiemi di parole da acquisire intuitivamente. Per cui, quanto veniva dicendo e noi accuratamente registravamo e trascrivevamo, diventava un documento unico, da svelare anche a lei stessa e da preservare con cura.

-Siete ben certi che io stessa abbia pronunciato proprio queste parole? A me cresce il dubbio che vi sia qualcosa in più. O in meno.-

-Come puoi dubitare? Dove avremmo pescato le parole, i versi, se non dal nastro che tu hai registrato?- Fu così che volle riascoltare tutto il nastro, ed alla fine parve compiaciuta:

-Adesso potrò leggere il vostro libro delle liriche di Saffo?-

-Meglio di no, -s’oppose Sandor, -Non vorrei nascessero delle  ... incongruenze.-

-Niente libro, fino a quando non ci avrai recitato tutte le altre composizioni che ricordi,- le dichiarai burbanzoso.

-Ma sono infinite! Quella che mi risuona nel capo da molti giorni è straordinariamente dolce.-

-Ti prego,- implorò Sandor.

 

 

-Amore è inconsistente come sogno,

ma  come dardo di bronzo

bada, a morte ti ferirà.-

 

Ormai Sandor la riguardava con occhi adoranti. Ed io?

 

-L’ho lasciata gemente sui cuscini,

seno di viola, capelli di muschio,

implorante Cipride, implorante

Acheronte dall’onda turbinosa.-

 

Sandor s’inginocchiò ai suoi piedi a andava carezzandoli perdutamente. Per parte mia, avendo desiderato di fare lo stesso, ora lo posso confessare, provavo ripugnanza nell’assistere a quel gesto di sottomissione.

 

-L’atto d’amore è stato,

esangui sul cuscino

seguiamo i nostri sospiri.-

 

Fu qui che, vinto da una forza irrefrenabile, m’avvicinai e, ignorando Sandor, presi ad accarezzare i capelli corti e ricciuti di Annita, mentre ella continuava a dire.

 

Ormai la notte era vecchia di ore sulla città. La nostra fanciulla, abbandonata sulla chaise-longue, continuava a parlare con voce roca e stanca, né Sandor cessava di raccogliere quelle parole con affettuosa attenzione mentre, con sguardo supplicante e carezze, implorava che non smettesse. Ma ella parlava e cantava, ormai senza udirci. Il suo dire aveva assunto le connotazioni dell’eloquio automatico come, in assenza d’intervento di volontà, andasse semplicemente leggendosi in àmbiti di sentimenti inagibili per noi, forse in parte dolorosi, e comunque vitali e non ovviabili. I suoni che fluivano nella stanza avevano provocato, in noi che ascoltavamo, un curioso stato di rapita attenzione, facendoci desiderare che quel torpore fiorito di suoni amorosi non venisse a mancare.

 

Ricordo su questa lama,

ricordo te, danzante in lacrime,

tu m’illudesti un giorno

senza scopo, o per farmi

morire ... quando la tunica

scivolò sulla pietra, anche la coppa

si schiantò con il giovane sogno.

 

M’intride un nume possente,

come cessare il canto?

 

Quando ansiosa m’interrogo “chi è Saffo?”

Zeus si chiede chi mai Giove sia.-

 

- Ma chi è questa donna?- si domandò Sandor ad alta voce. Ed a quel punto Annita s’alzò, si stiracchiò il busto e le braccia, annunciò di dover fare pipì ed assolutamente andare a dormire.

 

 

 

 

 

16

 

Disse Sandor: -Noi due ci riteniamo smaliziati e rotti a tutte le evenienze, per poi trovarci incantati davanti al mostriciattolo che è questa ragazza, a non saper distinguere il suo eventuale fascino personale dal mistero delle sue poesie che va recitando!-

-Già. E tu mi devi ancora spiegare quel pugno.-

Mi riabbracciò e potei riapprezzare quello che egli è sempre stato: un fanciullone infiammabile, ingombrante, ora sinceramente pentito della sua violenza, e comunque pronto a ricominciare con le intemperanze in qualsiasi momento. Andò a sedersi vicino alla finestra e la sua voce mi pervenne molle e stanca, impastata di fumo di sigaretta.

-Per amore o per infatuazione, ho picchiato per la coscienza di perdere ciò che stavo perdendo. Per esorcizzare i miei problemi con un semplice pugno. Avevo passato una settimana d’inferno pensando a te e Annita soli in questa casa. Potrai immaginare le mie fantasie inerpicate sulla settima cornice del sospetto. Vi immaginavo intenti in attività invereconde ...-

- Proprio tu!-

            -... sullo sfondo delle poesie di Annita. Una mescolanza insopportabile per la mia sensibilità. Giunto quaggiù, ho creduto di trovare te appagato e lei pacifica e senza pensieri. E non ci ho più visto.-

-Non gradisco la diffidenza né i pugni. In cambio ti offro un prezioso consiglio: non utilizzare mai simili esorcismi, soprattutto con me.-

-Mi farò perdonare. La mia reazione doveva rispondere a un’offesa ai sentimenti più profondi ... proporrei di lasciar perdere quest’argomento. Invece dimmi, avrai certo registrato in mia assenza le poesie di Annita. Vorrei sentirle. Subito, se non ti spiace.-

Gli porsi le audiocassette che inserì di furia nell’apparato ed ascoltò in religioso silenzio. Allo spegnersi dell’ultima parola, s’alzò e camminò per la stanza, il volto segnato da rughe drammatiche.

-Partiremo domani,- disse con voce rauca per il gran fumare e la profonda emozione, -la condurrò a casa mia. Vivrà con noi. Mia moglie non sarà contraria. E poi ama le poesie dell’antichità e il talento femminile.-

-Tu credi davvero di poter inserire Annita nel ménage famigliare, fra moglie e figli?-

-Io credo fermamente che di fronte a fenomeni come questo di Annita, non è lecito tirarsi indietro. Ripugnare un simile dono del cielo!-

-Non vorrei essere nella tua cravatta quando ti presenterai ad Ursula con Annita al fianco!-

-Ursula è donna di larghe vedute...-

-Sei coraggioso, amico mio. Se porterai via Annita io ti perdonerò dell’uppercut.-

-Affare concluso. Tutto si aggiusterà, garantisco io. Ti ringrazio per l’ospitalità che ricambierò una volta o l’altra. Domani partiremo,  Annita ed io.-

-Domani è adesso. La mezzanotte è passata da quattro ore. Ti restano tre ore di sonno. Quattro al fischio del treno.-

-Non dormirò in nessun modo. Sono troppo preso dalla voce miracolosa di quella creatura.-

L’abbandonai nel suo fantasticare e m’infilai tra le lenzuola.

 

Partirono davvero. Il loro treno sfilò via tra i convogli in sosta ed io me ne restai a governare i rimasugli di tutto l’arruffìo portato da quei due. Riassettai la sala di soggiorno dove Annita aveva dormito, spazzai la cucina, scesi a spianare la ruga di sospetto che nei giorni precedenti s’era scavata sull’ampia fronte del portiere. Ripensai con impegno al mio lavoro e misi in cantiere alcune delle interviste del carnet che il capoprogrammi della stazione radio m’aveva infilato in tasca dopo l’ultimo colloquio.

Telefonai per  gli accordi preliminari, organizzai appuntamenti con corali di dilettanti, sfilate di cantanti folk, nidi di scolaresche ansiose di ripetere filastrocche al miele. Organizzai viaggi e incontri e conobbi quantità di brave persone in cerca di una pur minima notorietà, a tutto disposte per sgraffignarne una particola. E patii la mia crisi operativa come non mai. Soffersi profondamente l’incongruenza del mio daffare fra viaggi, raccordi con colleghi, litigi, interferenze e mene di politici in cerca di voti, vaniloqui di autori illusi, impegni tecnici ... il tutto destinato al sacrificio sull’altare di pochi minuti di trasmissioni dirette a distratti utenti radiofonici. Mio malgrado finii per persuadermi che le urgenze ed estemporaneità dei programmi radio mal si accordavano con le caratteristiche delle poesie di Annita, sulle quali avevo ormai sintonizzato la mia attenzione e il vero, profondo interesse.

Passarono giorni, feci una visita alla sede della mia stazione radio ed incocciai Sandor strabordante di ottimismo, sudore ed entusiasmo, in navigazione tra un corridoio e l’altro. Soddisfatto, pareva, anzi allegro. Il lavoro girava ottimamente, mi disse, la moglie appariva impegnata e realizzata tra lavoro e famiglia. A detta del mio trasognato amico, Ursula intratteneva accettabili rapporti con Annita. La ragazza era ospitata in casa loro, i pasti venivano consumati in comunità ed il resto della giornata la ragazza bighellonava per la città cercando un lavoro.

Il racconto mi parve un poco forzato, troppo ricco di facile ottimismo e mi piacque insistere per mettere in luce fatti meno superficiali; così poté emergere qualche altra realtà poco rassicurante per il mio amico, il quale tentava di minimizzare pur non riuscendo a celare ombre di dubbio e, forse, di allarme.

Il fatto è che le due donne non si parlavano, ovvero riuscivano a scambiare appena qualche parola sui problemi della coabitazione, non più, mentre l’ingenuo buon Sandor s’arrabattava nel convocare tutte le potenze disponibili in cielo e in terra nel tentativo di decongelare l’ambiente ed istituire una vera comunità, come ardì dichiarare. Persino i ragazzi s’erano accorti dei freddi tentacoli che stavano avviluppando le loro giornate e con frasi allusive e musi duri mostravano di repugnare l’intrusa che pregiudicava la concordia generale.

-E poesia, ne fai colla ragazza?-

-Poca, per via della tensione. Soltanto in assenza di Ursula. Ed anche allora senza convinzione. Annita teme il sopraggiungere di mia moglie in quei momenti che curiosamente ritiene ... intimi, come se quel ripetere versi fosse cosa da celare ad estranei. In realtà ho potuto verificare quanto Ursula resti turbata nello scoprirci in dialogo stretto, oppure mentre sto registrando o riascoltando i monologhi di Annita. In quei casi mia moglie ostenta malamente di non badare a noi. Sbatte le porte. Grida ai ragazzi. Si mette elegante ed esce per chissà quali impegni, quali incontri. A me pare incredibile in una donna scafata come Ursula, capace di sapermi a letto con una qualsiasi sua amica senza neppur sollevare il sopracciglio, la debolezza di alterarsi per una giovane ignorante,  di pelle olivastra ed eloquio incerto, che attiva la mia curiosità. Anche intellettuale.

-Curiosità intellettuale dici? E quel pomeriggio fra le lenzuola dell’albergo di Matera? Anche quello è stato una prestazione intellettuale?-

-Vedo che anche tu non apprezzi il mio modo d’essere e neppure il mio rapporto con Annita. Forse per gelosia. Ti stai comportando in tutto come Ursula. Debbo confessarti come mi appari, come ti scorgo in questa situazione! T’indovino crepato d’invidia e chiunque capirebbe immediatamente che, senza osare di confessartelo, vorresti essere me,  Sandor. Qualcosa dentro di te continua a ripeterti quello che invece sei, non altro che un grigio single ottenebrato dalla gelosia per un collega che dispone felicemente di due donne! Le quali, in un modo o nell’altro, forse tra qualche difficoltà, mostrano di saper convivere,- e mi fissava sogghignando, la sua amarezza per un attimo svanita dietro il muro d’un’artificiosa supponenza; mi fissava per cogliere tracce d’una gelosia, d’una sofferenza scaturita, come la sua, dall’innesto di Annita nelle nostre vite.

 

Geloso di Sandor? Io? Geloso per Annita? Ecco una buona nuova! Forse il buon amico aveva dimenticato le confidenze sulle mie vicissitudini di coppia che m’avevano condotto all’attuale situazione di single. Non rammentava che soltanto la pace e la serenità portate dal lavoro e dalla solitudine di rigore quasi monastico in cui m’ero immerso dopo l’ultimo dramma, l’ultima scenata della donna con cui mi trovavo sposato, avevano potuto conferirmi possibili itinerari di sopravvivenza. Tutte quelle tribolazioni m’avevano vaccinato contro future possibilità d’innamorarmi, fino a inibire l’immagine della mia vita in compagnia d’una nuova donna. Nella sua semplice, straripante sensualità Sandor andava cianciando d’una supposta mia  gelosia, insistendo nell’odioso vizio di giudicare imperfetto e carente chi non gli assomigli e diffidi del suo modo di vivere. Dimenticando tutti i delitti che aveva deliberatamente commessi, ultimo dei quali l’aver proditoriamente posseduto la povera Annita ancora dolorante della violenza paterna, e che quello stupro mostrava connotazione peggiorativa e ripugnante, essendo mascherato da amore ed ammirazione.

Geloso per Annita? Forse che io l’amavo, Annita? Come amarla, se non sentivo di dover prendere nulla da lei e di non possedere nulla da darle?

Ma Sandor continuava a parlare e, a poco a poco il suo dire cambiò connotazione. Da vecchio fanciullone cominciò ad implorare consigli sul da farsi, come faceva con chiunque incrociasse il suo cammino. Andò a finire che quella dissennatezza mi seccò e indusse ad andarmene sbattendo la porta e lasciandolo a bocca  aperta. Eppure dell’indagine sulla reale consistenza dei miei sentimenti nei confronti della ragazza, me la portai a casa  e senza rendermene conto ci rimuginai un bel po’, fino a farmene una sorta d’idea fissa. Lasciai che quell’idea mi trapanasse il cranio per qualche giorno e settimana, ci riflettei sopra e finii per decidere che sì, poteva forse trattarsi d’una possibile infatuazione per la ragazza, derivante dalla combinazione del fascino della sua giovinezza, dall’infelicità evidente in ogni suo sguardo implorante protezione ed esprimente anticipata gratitudine. Ma anche dipendente dall’ammirazione per la vita senza colore che aveva scioltamente condotto fino a quel momento e dal coraggio mostrato con la fuga di casa di casa affrontando un mondo sconosciuto. Mi resi conto che, soprattutto, forse m’intrigava proprio il suo protestato destino d’indovina  che stava a far da paravento al mistero d’una virtù, d’una ricchezza che, prima di noi, nessuno aveva saputo scoprire ed apprezzare.

Ma basta, m’imposi, ora dovrò lavorare seriamente senza pensare a donne e ad infatuazioni. Se la ragazza non mostrerà d’essere un buon soggetto per un servizio radiofonico se ne andrà col suo destino, con o senza Sandor.

Proprio in quei giorni, il direttore editoriale mi fece pervenire una nuova serie di idee e suggestive proposte di servizi e mi buttai nel fuoco dell’organizzazione e della realizzazione.

 

oooOooo

 

Fu durante un importante incontro con una corale civica in un teatro del Molise che m’accorsi della presenza dell’amico Sandor, spalleggiato da un’esperta troupe di tecnici di registrazione, vivamente intento a discutere di strategie acustiche con alcuni consiglieri comunali. Egli mi vide ma, sul momento e di lontano, non ci scambiammo più d’un cenno.

-Come ti va?- gli domandai alla sera, dopo la festosa cena coi coristi dello spettacolino stretti a soffocare il tenore e la soprano, festeggiati come due sposi.

-Uragani. Tifoni. Tornados. Procelle. Maremoti. Eruzioni. Avvocati e tribunali.-

-Sarebbe?-

-Ursula.-

-Come sta tua moglie?-

-Ursula chiede la nostra separazione legale ed il divorzio.-

Funzionari comunali e di prefettura vennero a cercarci le mani per triturarcele, a stipulare patti verbali di amicizia perpetua benedetti da dentiere scintillanti, a sottoporre programmi di futuri incontri e reiterare promesse d’ininterrotte corrispondenze postali; dovemmo baciare le guance alle coriste e al barbuto direttore d’orchestra, tutti deferenti e commossi. Accompagnammo le signore fuori dal capace ristorante dove, per festeggiare la buona riuscita dello spettacolo, erano stati macinati quintali di ottimi alimenti, dai pacchiarotti ai torcinelli ai picellati, generosamente innaffiati con vino Ramitello, aiutandole ad incunearsi in automobili stracariche. Quando tutto fu finito salimmo nella stanza di Sandor, allentammo la cravatta e sfilammo le scarpe.

-Secondo lei tutto è finito, fra noi. I bambini li terrebbe lei. Pare che io non ci saprei fare.-

Sapevo che restando in silenzio, l’avrei indotto più a narrare che a sfogarsi.

-All’inizio l’idea d’inserire Annita in famiglia parve funzionare. Narrai ad Ursula la storia del patrigno violento, della madre ambigua, della vita senza sbocchi in una provincia come Matera e illustrai lo straordinario dono in possesso di Annita. Aggiunsi che io non trovavo cuore di abbandonarla in balìa del patrigno, potenziale pappone, e della madre imbelle. Sul momento Ursula parve apprezzare la reale fortuna scesa con Annita nella nostra casa, ma col trascorrere dei giorni non potei ignorare l’innestarsi di un disagio, il formarsi di crepe famigliari che andavano allargandosi in modo sempre più evidente. Potei notare Ursula sempre intenta a riprendere nervosamente i bambini, a lamentare la propria insofferenza per il lavoro al liceo, a camminare per casa a passi pesanti, cosa mai fatta prima. E alla fine m’accorsi che ella non parlava ad Annita che per monosillabi. E una sera mi si negò a letto. La nostra vita continuò a deteriorarsi sempre più ed appariva chiaro un peggioramento ogni volta che venivo trovato con Annita a registrare poesie. Provai a parlarle col cuore in mano, ma non ne uscì nulla, salvo la confessione ch’ella già ne aveva lungamente discusso con sua madre e colle più fidate colleghe del liceo. E dalle sue parole amare e determinate potei desumere il tenore delle risposte ottenute da quelle odiose femmine: tutte orientate sul pollice-verso nei miei confronti. L’arrivo di Annita aveva dunque posto un definitivo suggello sulla crisi matrimoniale che, ora riconosco, segretamente serpeggiava tra noi da qualche anno. Sul momento la cosa mi parve tanto inverosimile da non meritare interesse. Anche perché il prestarvi attenzione avrebbe direttamente coinvolto il futuro di Annita.

Sull’ala d’un’ingannevole fiducia pensai di lasciar sbollire le cose per conto proprio. Purtroppo, quanto più tacevo e tergiversavo, tanto più Ursula s’incupiva ed irrigidiva. Finché un giorno sbottò con la novità dell’inevitabile nostra prossima separazione legale e del divorzio, invitandomi ad un colloquio con il suo avvocato.-

-E tu? Le concederai facilmente il divorzio? Hai conservato il proposito di vivere con Annita, di sposarla?-

-Non so, non so ancora. Ma ora vai a dormire, tu che dormire potrai: domani avremo una lunga trasferta sul camion dei tecnici.-

-Hai registrato le ultime poesie di Annita?-

-Le ho sempre con me. Se ne hai voglia potrai leggerle.-

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"La ragazza che voleva un'isola":
 

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