CAPITOLO II
L' "Amore" e gli "Amori' di San
Gerardo
"L'Amore che muove il sole e le altre stelle" è realmente il motore di ogni
realtà come è la ragione ultima di ogni sentimento umano.
Gerardo non fece eccezione a questa componente profonda dell'essere. Anche
per lui l'amore fu il movente di ogni impulso interiore, fonte di
beatitudine, pienezza di vita.
Un amor unico con una triplice sfaccettatura: l'Eucaristia, il Crocifisso,
Maria Santissima e una meta: l'adesione gioiosa alla volontà dell'Amato. È
quanto mi propongo di illuminare nel presente capitolo.
Il panino bianco
Il primo amore di San Gerardo: l'Eucaristia, pane di vita
Quanto più ci si avvicina ad un santo, più si studiano i suoi scritti, più
si ascoltano le testimonianze di quanti lo hanno conosciuto, tanto più si
conoscono le ricchezze che l'amore di Dio, lo Spirito Santo, ha effuso in
quel cuore. Così è di S. Gerardo Maiella.
Nel corso di questo scritto non si diranno cose nuove, ma verranno ricordati
fatti visti da angolature diverse, che assumono una luce nuova, un
insegnamento nuovo, un'efficacia nuova ed una intercessione nuova.
Si è detto che Gerardo abbia molto amato l'Eucaristia, ed è vero. Si è detto
che abbia molto amato la Madonna, ed è vero. Si è detto che abbia molto
amato il Crocifisso fino ad esprimerlo nel suo volto, ed è vero. Si è detto
che egli è il Santo della Volontà di Dio, che si sia trasformato in essa, ed
è pur vero.
Ebbene, con l'aiuto dello stesso Santo cercherò di mettere in luce questi
amori, perchè, chi ama Gerardo, lo ami di più; chi non lo conosce scopra in
lui queste ricchezze, per imparare ad amare l'Eucaristia e la Vergine Maria,
"mamma Immacolata", come egli amava chiamarla. Chi vuole conoscere Cristo
crocifisso impari qualcosa da questo ' pazzerello" come lo chiamava Gesù
stesso e si innamori della "bella volontà di Dio", come egli amava ripetere.
Il Santo che "giocava" con Dio
La preghiera fiorisce spontanea nel cuore bambino di Gerardo: ha appena
cinque anni e da
solo si reca al Santuario della Madonna di Capodigiano. Gli piace tanto la
bella Signora che tiene il Bambino sul braccio sinistro. Incantato e
sorpreso, vede il Bimbo staccarsi dalle braccia della Madre, avvicinarsi e
invitarlo a giocare con lui. Quindi gli mette nella mano un panino bianco e
profumato, mentre la mamma sorride dalla statua e questo succede per molti
giorni.
Quel pane misterioso era presagio e preannunzio di un altro Pane, quello
eucaristico, che sarà l'alimento del suo "affocato" amore per Gesù.
Passeranno degli anni e molti avvenimenti porteranno Gerardo lontano. Un
giorno, la sorella Brigida si reca a Deliceto, dove egli si trova, ormai
religioso, e gli ricorda l'episodio che lei con la mamma aveva spiato un
giorno. Gerardo, ricordando il fatto, afferma: "Ora so che quel bambino che
mi dava il pane era lo stesso Gesù"; al che Brigida: "Andiamo a Muro, così
potrai ritrovarlo nello stesso luogo"; "Non occorre", risponde Gerardo, "ora
lo ritrovo in ogni luogo".
L'episodio dell'infanzia segna l'inizio dell'ascesa spirituale di Gerardo e
la predilezione di Gesù per lui. Il panino "misterioso" però non gli basta
più da quando si è sentito nascere in cuore una fame ardente del pane di
vita, il pane che lo nutrirà e lo fortificherà nelle prove della sua breve
esistenza.
Ormai si sente attratto fortemente dalla presenza di Gesù nel tabernacolo e
con Lui intesse n dialogo grazioso: "Ma perchè Gesù non ti doni Q me come
fai con mamma e con gli altri? Come loro, anch'io ti voglio bene e desidero
stare in tua compagnia".
"Figlio mio", osserva la mamma, "devi prima farti grande per ricevere la
comunione... aspetta ancora... aspetta quando ti sarà permessa".
Ma in un giorno di festa, il ragazzetto, convinto di essere ormai grande, si
confonde tra la folla e si accosta alla balaustra. Giunto il suo turno,
prende il piattino e, con in cuore tanta brama d'amore, apre la bocca, ma il
sacerdote, vistolo così piccolo e macilento, senza molta delicatezza gli fa
cenno di allontanarsi. Gerardo si allontana dal suo piccolo Gesù piangendo
con il viso tra le mani. Il suo pianto dura tutta la giornata, ma spalanca
le porte del cielo. Nella notte, mentre il piccolo finalmente si addormenta,
l'Arcangelo S. Michele lo sveglia, estrae dal ciborio un'ostia bianca,
gliela pone sulla lingua e scompare.
Un sogno? Lo stesso Gerardo la mattina seguente narra l'accaduto alla mamma,
alle sorelle e alla signora Caterina Zaccardo: "Ieri il prete non mi ha
voluto dare Gesù ma me l'ha dato questa notte l'Arcangelo S. Michele". Da
religioso egli confermerà l'episodio al suo direttore spirituale e
all'orefice Alessandro Del Piccolo. x I due avvenimenti segnano
profondamente l'animo del ragazzo e mostrano la predilezione del cielo per
questo figlio della terra lucana, per questo povero in spirito.
A dieci anni, Gerardo riceve ufficialmente, la prima Comunione. La sua
preparazione è tale da diventare d'esempio per i coetanei. Suo proposito è
ricevere spesso Gesù e prepararsi alla comunione con sacrifici e penitenze
che l'amore gli sollecita nel cuore. Ricevuto Gesù, resta immobile, rapito
in estasi, mentre il tempo perde per lui ogni concretezza; lo stesso gli
accade quando si trattiene ai piedi del tabernacolo.
Tuttavia non vuol essere solo a far compagnia a Gesù. Allora escogita degli
stratagemmi che, agli occhi dei compagni, sembrano giochi. Mentre si
trastulla insieme ad essi, ai rintocchi della campana che invita i fedeli
alla benedizione eucaristica, raduna la garrula comitiva, dicendo: "Andiamo
a visitare il nostro Signore carcerato"! Tutti applaudono e lo seguono quasi
attratti da una forza che si sprigiona da questo innamorato in erba.
Passano gli anni e gli avvenimenti modificano la vita di Gerardo. A ventitrè
anni entra tra i figli di S. Alfonso Maria De' Liquori, come fratello laico.
Il suo amore per Gesù "carcerato" assume proporzioni gigantesche: ormai egli
può sostare ai piedi di Gesù Sacramentato più a lungo, anche la notte; è
facile perché tutti e due si ritrovano sotto lo stesso tetto.
Una volta Gesù lo rimprovera cordialmente: "Pazzerello, che fai"? E Gerardo
di rimando: "Non sei più pazzo Tu, che te ne stai rinchiuso nel tabernacolo?
Se io sono pazzo, è per no amore".
La semplicità di Gerardo incanta il cuore di Gesù, che si diverte ad
attrarlo a sè anche nei momenti di grande lavoro, con detrimento della vita
regolare, ma il fatto non convince il padre Cafaro, suo superiore, che una
volta lo rimprovera per le sue "stranezze", umiliandolo fortemente. Gerardo
accoglie il rimprovero in profonda umiltà e promette di essere obbediente.
Ma, passando accanto alla chiesa si sente chiamare dal tabernacolo, al che
Gerardo: "Via, Signore, lasciatemi andare per favore, ho da fare, altrimenti
il padre superiore mi rimprovera".
Poiché "l'oro si prova col fuoco e gli uomini cari a Dio nel crogiuolo
dell'umiliazione" (Sir. 2, 5), così anche l'amore di Gerardo doveva essere
purificato da una grande prova: la calunnia.
Il 1754 fu un anno di grandi prove interiori per lui. La sua anima era nella
notte più profonda. Niente più conforto da parte del Signore, ma solo
amarezza per la sua povertà e la sua miseria. Per espresso ordine del suo
superiore generale, il padre Alfonso, gli fu tolto anche il conforto che gli
veniva dalla S. Comunione. Che cosa era avvenuto?
Una giovane di Lacedonia, una certa Nerea Caggiano, dietro invito di Gerardo
era entrata nel conservatorio di Foggia, fondato dalla M. Maria Celeste
Crostarosa. Inizialmente si mostrò molto contenta, ma, essendo incostante,
volle ritornare a casa. Niente di strano; ma in seguito la giovane si sentì
umiliata e riversò il suo malanimo su Gerardo. Inventò di sanapianta una
trama d'amore tra il nostro santo e una giovanetta figlia di un amico di
Gerardo. Nerea si confidò con il suo confessore ed insieme scrissero a
Sant'Alfonso.
Come mai il grande moralista, abituato a ponderare le cose, prese subito
provvedimenti drastici nei confronti di questo suo figlio? Era il Signore
che, attraverso le vicissitudini umane, voleva purificare (amore del suo
amico!... Gerardo fu richiamato subito a Pagani, alla presenza del suo
superiore. Questi gli lesse le due lettere e attese da parte sua una
giustificazione. Ma Gerardo taceva: dinanzi alla calunnia non trovò risposta
migliore del silenzio! E Sant'Alfonso si convinse della veridicità
dell'accusa. Avrebbe potuto espellere immediatamente dalla Congregazione il
giovane religioso, ma si limitò a proibirgli ogni contatto con la gente di
fuori e lo privò della S. Comunione. Senza il suo Gesù? Il colpo fu più
forte della stessa calunnia. Rispose alla sentenza con un devoto cenno di
assenso. Il suo cuore era lacerato, ma il suo volto continuava ad essere
tranquillo. La calunnia non lo toccava minimamente, come pure il giudizio
dei suoi confratelli che non lo vedranno più accostarsi alla Sacra Mensa. A
tale prova si aggiunse la prova interiore: "Gesù non vuole più venire da me
perché ne sono indegno! Ha voluto punire il mio poco amore"!
Un giorno un padre lo invita a servigli la S. Messa. "Non mi tentate,
mormora Gerardo, perchè vi strapperei l'Ostia dalle mani"!
Qualcuno gli suggerisce di dire tutta la verità per essere riammesso alla
Comunione. La sua risposta è perentoria: "C'è Dio: tocca a Lui pensarci! Si
muoia sotto il torchio della volontà di Dio"! Qualcuno gli chiede: "Come fai
a resistere senza la S. Comunione"? La risposta è quanto mai improvvisa e
nuova: "Me la scialo nella immensità del mio caro Dio". Era quanto dire: -
se Dio non vuol venire sacramentato, io lo trovo in tutte le creature e in
ogni loro perfezione -.
La situazione si protrae, ma Sant'Alfonso non è del tutto sicuro del
comportamento di Gerardo. Perplesso nei suoi confronti, un giorno prova un
forte desiderio di vederlo. Non ha ancora del tutto formulato il pensiero,
quand'ecco presentarglisi Gerardo in persona. Ciò lo sorprende: "Che vuoi
figlio mio"? "Mi avete chiamato, eccomi" Il superiore sconcertato decide di
mandarlo a Ciorani sotto lo sguardo del p. Tannoia, con il quale Gerardo è
in grande confidenza.
Dieci giorni dopo arriva al superiore maggiore la relazione: "Sempre sereno,
sempre ilare e, ciò che più stupisce, non muove alcun lamento circa la prova
che gli è capitata; l'unico suo rifugio è Gesù che ardentemente desidera
ricevere".
A chi lo compativa rispondeva: "Mi basta avere Gesù nel cuore"!
Altro trasferimento: Materdomini! Appena giunto, gli fu annunciato che
l'indomani, per espresso ordine del Fondatore, avrebbe potuto fare la S.
Comunione. Tutta la sua gioia incontenibile fu condensata in una frase
ripetuta ad ogni istante: "domani farò la S. Comunione"! A sera chiese di
ritirarsi in cella per la preparazione. L'indomani, dopo la Comunione, lo si
cercò per ogni dove, ma non fu possibile trovarlo: aveva chiesto a Gesù di
diventare invisibile e così fu.
Intanto a Lacedonia la giovane Nerea, che non aveva misurato la gravità
delle sue parole, fu presa da grande rimorso. Non riusciva più a vivere. Si
vedeva già all'inferno senza possibilità di perdono. Si recò dal confessore
e disse tutta la verità con grande meraviglia di costui!
Bisognava porre rimedio al più presto. Una lettera partì subito per Pagani
al Rettore Maggiore, .cui si dichiarava che: "L'accusa da lei mossa a fratel
Gerardo era un orrendo tessuto di calunnie fatte per istigazione diabolica".
Il padre chiamò .subito Gerardo e gli disse: "Figlio mio, perché tacere
sempre senza dirmi neppure una parola sulla tua innocenza"? Con tutta
tranquillità Gerardo rispose: "Padre mio, come potevo io farlo se la resola
impone di non scusarsi e di soffrire in silenzio >1a mortificazione
proveniente dal Superiore"?
La prova aveva finalmente termine! Ma quali ricchezze aveva apportato al
cuore di Gerardo: il suo amore per Gesù era grandemente cresciuto; poteva
correre ormai come un gigante verso la fine della vita.
Divino impiagato d'amore
Il Crocifisso: segno di speranza
Chi è innamorato di Gesù Eucaristia inevitabilmente
diventa innamorato di Gesù Crocifisso.
Anche per Gerardo avvenne questa mirabile esperienza spirituale. Di giorno
in giorno si faceva strada in lui un desiderio incontenibile di modellare la
propria vita su quella del "Martire Divino% di immedesimarsi nella Sua morte
sulla croce.
La sua abituale espressione "Vado a far visita a Gesù carcerato",
nascondeva, nella sua semplicità, la convinzione che, nella bianca ostia, si
celasse il Cristo Crocifisso, sofferente d'amore per ili uomini.
Chi ama Gesù fa ruotare tutta la vita su due grandi poli: la Eucaristia e la
Croce. Gesù dal Cenacolo sale al Calvario e dal Calvario - dopo la
Risurrezione - ritorna al Cenacolo, quasi ad indicare la continuità della
sua donazione.
Così a Gerardo l'Eucaristia, memoriale della Passione, parlava di sacrificio
e di amore crocifisso.
Sentiva nascere e crescere in sè l'attrattiva perso la sofferenza, cercata
con astuzie da innamorato ed accolta dalle mani talvolta brutali degli
uomini nei quali vedeva gli strumenti che dio gli mandava per conformarlo al
suo Gesù. Di occasioni non gliene mancavano ed egli stesso inventava forme
sempre nuove.
Arso d'amore, si servì dei suoi compagni ai quali chiedeva che lo
disciplinassero, lo beffeggiassero, gli facessero scherzi ai quali egli si
sottometteva per riprodurre in sè i motteggi che la soldataglia aveva
compiuto su Gesù. Essi prendevano la cosa come uno scherzo, Gerardo no!
Lui faceva sul serio perché la sua volontà eroica lo spingeva
all'immedesimazione col sacrificio cruento di Cristo.
Con i più intimi si lasciava scappare talvolta qualche parola che mostrava
la verità del suo amore: "Dobbiamo soffrire se vogliamo dar gusto a Gesù
Cristo che tanto ha sofferto per noi".
All'avvicinarsi poi della Santa Quaresima, Gerardo tracciava un programma,
sottolineandolo con frasi come queste: "Gesù è morto per noi ed io voglio
morire per Lui".
Durante la settimana santa, nel meridione d'Italia, è tradizionale anche
attualmente, la rappresentazione al vivo del Calvario, con grande concorso
di popolo. A Muro il pio esercizio veniva rappresentato in Cattedrale dagli
stessi cittadini con tale intensità, da richiamare non solo i muresi, ma
anche gli abitanti dei dintorni.
Gerardo era tra i primi "attori" e un anno ottenne di rappresentare Gesù
sulla Croce. Per la veridicità della sua espressione suscitò un'enorme
impressione in tutti, in modo particolare in mamma Benedetta che, nel
riconoscerlo, svenne dalla commozione, lasciandosi sfuggire un grido
soffocato: "Figlio mio"!
Lo Spirito Santo lavorava quest'anima semplice e nella parola di Dio,
ascoltata per bocca del parroco, gli rivelava la profondità del mistero del
Dio "fatto carne e venuto ad abitare in mezzo a noi" (Gv. 1,14).
Lo Spirito Santo lo addentrava nella comprensione del mistero della
Passione, Morte e Risurrezione, facendoglielo sperimentare nella propria
carne, in modo speciale nei giorni di venerdì, sabato e domenica. Ed infine
gli faceva scoprire la verità sconvolgente dell'umiltà di Gesù.
All'origine di tale fervente aspirazione c'era forse la spiritualità
francescana attinta dai padri cappuccini di Muro, a cui si aggiungeva la
lettura del libro "L'anno doloroso" del cappuccino Antonio da Olivadi.
Era un racconto popolare della passione del Signore, presentata per quadri
dai toni violenti e dalle forti immagini. Essi, nella loro successione,
movevano l'affetto del lettore e la sua volontà, spingendolo all'uniformità
al "Divino Paziente".
Perché la meditazione fosse più facile e continua, la Passione di Nostro
Signore Gesù Cristo era presentata e messa a nudo nel suo svolgersi nel
tempo, dal tramonto alle ore della notte e al mattino.
Gerardo, cosa eccezionale per quei tempi, aveva frequentato con profitto le
scuole e gli era quindi facile la comprensione del testo. Ottavia egli
andava oltre la semplice lettura, oltre il semplice movimento dell'affetto.
Portava agli estremi la sua follia della Croce, cercando con ogni mezzo di
conformarsi e uniformarsi a Cristo.
La sete di sofferenza, già presente nell'infanzia, crebbe in lui con il
passare degli anni e con la scoperta di un amore sempre più ardente.
Garzone presso il sarto Pannuto, al rintocco della campana che scandiva le
ore della Passione di Gesù, egli sentiva un'attrattiva nuova: ogni ora era
segnata da un quadro della sofferenza di Gesù che lo prendeva tutto. Gerardo
genufletteva e rimaneva immobile, immerso nella contemplazione del suo
Amato, spogliato, flagellato, con le carni a brandelli.(questo suo
atteggiamento mandava su tutte le furie il capo garzone, uomo violento e
rude che lo faceva oggetto di disprezzo e di percosse.
Col volto sorridente, Gerardo continuava il suo colloquio, insensibile ai
colpi, mentre quello infuriato gli gridava: "Ma perché ridi"? E Gerardo: "È
Dio che mi batte".
Solo gli innamorati di Gesù possono comprendere una logica tanto
sconvolgente perché essi, come l'Apostolo Paolo, possono affermare: "Sono
stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in
me" (Gal. 2, 20).
Una mattina Gerardo giunse alla bottega con qualche minuto di ritardo. Fu
ricevuto a pugni e a schiaffi. Per tutta risposta egli sorrise al suo
persecutore che si infuriò maggiormente e gli gridò: "Ti prendi gioco di me,
dunque" "No", rispose Gerardo, "io non mi burlo di voi". Il Pannuto, però,
vedendo quel ragazzo sempre servizievole e sorridente, cominciò a
insospettirsi.
Un giorno arrivò improvvisamente e vide, come al solito, il povero Gerardo
steso a terra mentre l'altro lo percuoteva. "Che succede qui"?, chiese. Il
garzone rispose: "Chiedetelo a lui"! Gerardo chiese scusa, quasi fosse lui
il colpevole e la cosa, per il momento, finì lì.
Ma il padrone era rimasto colpito dal quel volto che nascondeva, sotto uno
strano sorriso, tanta sofferenza. Alla sera lo seguì di soppiatto, mentre
Gerardo, come era solito fare, si recava a ritemprare le sue forze presso
l'Amico Divino che, per amore degli uomini, aveva ricevuto percosse ben più
gravi "Egli infatti è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per
le nostre iniquità" (Isaia 53, 5). Il Pannuto non credeva ai suoi occhi:
quel ragazzo dall'aria insignificante era là, davanti al tabernacolo, in
estasi, col viso trasfigurato. Altro che scemo, quello!
La mattina dopo, il capo garzone fu licenziato con grande dolore di Gerardo.
Come potrà d'ora in poi imitare la pazienza e la umiltà del suo Maestro
Crocifisso?
Ma il pane dell'umiliazione e della sofferenza non gli mancherà.
Gerardo andò, come domestico, presso il vescovo di Lacedonia, mons. Claudio
Albini, un eccellente prelato, uomo di pietà e di grande erudizione, ma di
carattere difficile. Era un altro strumento nelle mani del Padre per amare
sempre meglio il nostro santo. Qui egli si trovò subito a suo agio: il
palazzo vescovile gli appariva, con i suoi vasti e silenziosi ambienti, come
un convento dove avvertire meglio la presenza di Gesù, il "Divino
Prigioniero" che viveva sotto il suo stesso tetto. Erano queste le sue
richieste spirituali che gli permettevano di accettare, come un privilegio,
una vita durissima: lavoro spossante, pazienza angelica, rigorosi digiuni,
notti passate in preghiera, aspre flagellazioni con l'aggiunta di solenni
riprensioni da parte di sua Eccellenza.
Era felice perché, come l'apostolo, poteva ripetere: "Io ritengo che le
sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che
dovrà essere rivelata in noi", (Rom. 8, 1821).
Un giorno Gerardo andò, come di solito, al pozzo per attingere acqua. Aveva
chiuso la porta di casa, ma inavvertitamente nel tirare su il secchio
dell'acqua, la chiave gli sfuggì di mano. Già si sentiva negli orecchi le
escandescenze di monsignore, facilmente irritabile. Corse costernato a
prendere una statuetta di Gesù Bambino e, con grande semplicità, gli disse
"O Gesù, tu solo puoi togliermi dall'impiccio. Sai quanto potrebbe
dispiacere a sua Eccellenza questa mia sbadataggine". Prese una cordicella
e, legatagli la statuetta, la calò nel pozzo. La gente accorsa, guardava
incuriosita, quand'ecco, emergere, all'orlo del pozzo, il piccolo Gesù di
gesso con la chiave nella manina. Da allora, quello che fu chiamato "il
pozzo di Gerardiello", divenne meta di curiosità e di pellegrinaggio.
La gente guardava con grande ammirazione il domestico del vescovo, ma
sentiva compassione per lui, sempre così silenzioso, dimesso, macilento,
quasi diafano, eppure costantemente servizievole e sorridente. Solo Gerardo
non se ne dava pena. Dopo tre anni, questa vita dura finì. Mons. Albini
morì; l'unico che lo pianse fu Gerardo: "Lo amavo tanto", diceva; "mi ha
fatto del bene; mi amava come un padre"! Secondo l'ottica di Gerardo, che
era quella della fede, gli aveva fatto veramente del bene in questa
dimensione. Ritornò a Muro per continuare le sue effusioni con Gesù, sempre
a caccia di altre occasioni di sofferenza per unirsi alla Croce di Cristo.
Ora non gli bastavano più le sofferenze esterne. Ambiva a quelle interiori,
per essere più simile al suo Signore, e Gesù non si fece attendere. Mentre
il fisico andava logorandosi, lo spirito si affinava.
Passano gli anni, entra tra i Redentoristi, e quando mancano pochi mesi alla
morte, con il fisico logorato per le molte penitenze e il molto viaggiare a
piedi, dietro i passi dei suoi padri missionari, nell'intimo del suo cuore
scende una notte profonda. I fatti mistici e taumaturgici si moltiplicano,
ma questi fenomeni più che essergli di sostegno, diventano una sofferenza e
un tormento.
È molto indicativa del suo stato interiore una lettera scritta alla Madre
Maria di Gesù, priora del Carmelo di Ripacandida, dove egli si recava a
ritemprare le sue forze spirituali, parlando e ascoltando le monache sulla
bellezza della vita religiosa.
Siamo nel 1754, un anno prima della morte:
"lo sono sceso di tal maniera che mi credo che non mi risolva più! E mi
credo che le mie pene hanno da essere eterne. Ma non me ne curerei che
fossero (eterne); basta che io amassi Dio ed in tutto dessi gusto a Dio!
Questa è la mia pena: che mi credo che io patisca senza Dio.
Madre mia, se non mi aiutate, son grandi guai per me. Perchè mi vedo tutto
abbattuto e in un mare di confusione: quasi vicino alla disperazione. Mi
credo che per me non vi è più Dio e la Sua divina misericordia; è finita per
me! Vedete e mirate in che miserabile stato io mi trovo!".
E in un'altra lettera è ancora più esplicito: "Io sto tanto afflitto e
sconsolato per essere tanto crociato dalla divina giustizia che nulla più.
Benedetta sia sempre la Sua divina volontà! E quello che più mi fa tremare e
mi dà maggior orrore, temo di non perseverare! Dio non voglia; perché
sarebbe la stessa cosa ad avvilirmi. Sopra di questo voglio che fai tutte le
preghiere".
L'anima di Gerardo è unita intimamente a quella di Cristo paziente sulla
croce. Avendo il nostro santo preso su di sè il peccato di quanti ha
avvicinato ed ancora di altri a lui sconosciuti, avendo esigito da Dio la
conversione di molti, ora paga tali doni con la sofferenza più intima. E
come Gesù, sembra dire "Padre, se è possibile, passi da me questo calice,
però, non la mia, ma la tua volontà sia fatta." (Lc 22, 42).
Come non guardare questo nostro santo come modello per partecipare alla
missione di Cristo Salvatore? Gerardo, con questi suoi atteggiamenti
interiori così profondi, ci invita a vivere di fede e di amore paziente, ad
accettare tutte le sofferenze e le croci che non mancano nella vita. Esse,
vissute con Cristo, sono un'espiazione per i nostri peccati e per quelli dei
nostri fratelli. A ciascuno di noi è chiesto di completare nella nostra
carne ciò che manca alla passione di Cristo.
La vita di Gerardo si conclude come quella di Gesù: per lui il legno della
croce è il suo letto, ove la tisi consuma quel povero corpo già consunto.
Il 15 ottobre del 1755, festa di S. Teresa di Gesù, da lui tanto amata, dice
con una certa arguzia al dottore Santorelli: "Così è, caro dottore, burlando
burlando me ne muoio tisico"! Al che il dottore chiede a sua volta: "E
perché proprio tisico?" "L'ho chiesto al Signore, perché voglio morire
abbandonato come Lui! Sì, lo so che nella Congregazione si usa tutta la
carità con gli infermi. Ma pure, quando si tratta di tisi c'è sempre qualche
cautela, come la segregazione... ".
Lo si udì dire: "Mio Dio, aiutami in questo purgatorio in cui mi avete
posto"! Più che parole sono bisbigli che gli astanti riescono appena a
percepire, quasi l'eco del gemito di Gesù nel Getsemani.
Il dottore gli chiede; "Perché il purgatorio"? Risponde: "Ho chiesto a Gesù
di patire il purgatorio per amor suo ed egli mi ha esaudito. Mi consolo
pensando che, soffrendo così, dò gusto al Divin Redentore". Gli si avvicina
un padre e gli chiede: "Che sofferenze sono?" E Gerardo: "Sono dentro le
piaghe di Gesù ed esse stanno in me così da farmi patire continuamente le
pene della Passione". Ma poco dopo: "Sì, patisco, ma questo è ancora poco
per Te, o mio Gesù, che sei morto per me".
Le condizioni si aggravano; ma lui non dà segni di impazienza. È gentile con
tutti. Si avvicina la notte e chiede al dottore di fermarsi, perché manca
poco per lui. Ha quasi paura di stare solo; ma il dottore non crede
imminente la fine.
Può sembrare strano questo suo bisogno di compagnia. Ma forse Gesù non ha
accettato i suoi al Getsemani? Anche in questo doveva assomigliare al suo
Amico.
Tutti vanno via; solo il fratello infermiere gli sta accanto, ma, stanco
della giornata, si addormenta. All'improvviso si sveglia e si accorge che
Gerardo sta peggiorando. Gli chiede un pò d'acqua: ecco il "Sitio" di Gesù.
Il fratello corre in refettorio e lo trova chiuso. Mentre va a cercare la
chiave sveglia il padre Buonamano, perché lo preceda dal malato.
Quando i due arrivano Gerardo è agli estremi. Il fratello con un cucchiaio
gli porge dell'acqua, ma il morente non l'avverte. Il padre Buonamano allora
inizia le parole della raccomandazione dell'anima: "Parti, o anima
cristiana, da questo mondo, nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito
Santo".
E Gerardo, ubbidiente come sempre, reclina il capo sulla spalla sinistra.
Non è più sulla terra.
Ha incontrato il suo Gesù e Mamma Maria, che poco prima di spirare gli era
apparsa nell'arco della porta, invitandolo a seguirLa.
La sua sete, non di acqua ma di amore, è stata pienamente estinta
nell'oceano dell'amore: la SS. Trinità.
Mamma Maria
La Madonna, Madre della Chiesa
"Gerardo perché non ti sposi?" Ecco la domanda che
alcuni rivolgevano a Gerardo, vedendolo quasi sfaccendato, più interessato a
vagare di chiesa in chiesa, che a sbrigare il poco lavoro della sartoria che
aveva messo su in proprio, con un ben magro guadagno. "Mi sono sposato alla
Madonna!" Era la sua risposta. Era così! Nessuno capiva il suo linguaggio.
Ma come mai era così deciso e assorbito dall'amore di "Mamma Maria", come
egli la chiamava? Bisogna risalire alla sua tenera infanzia per scoprire la
grande predilezione che egli ha per la Madonna.
Aveva allora sei anni, quando un giorno fu condotto, poco lontano da Muro
Lucano, al santuario di Materdomini a Caposele, meta di pellegrinaggi dalle
varie contrade della montagna.
La folla seguiva una guida che marciava solenne alla testa della schiera
orante, portando issata su di un bastone l'immagine di Maria. Le donne
andavano cantando, portando i loro doni votivi da deporre sull'altare
centrale.
Anche Gerardo entrò e, puntando le piccole ginocchia sull'ingresso della
chiesa, procedette così fino all'altare maggiore. Con tutta la gioia che
portava in cuore, gridava a gran voce tutto il suo amore per Maria. Era Lei
la bella Signora che qualche tempo prima nel santuario di Capodigiano gli
aveva ceduto il suo Bambino perché giocasse con lui e gli aveva offerto un '
panino bianco" ancora caldo e profumato.
Giunto all'altare maggiore, guardava immobile, in silenziosa preghiera,
l'immagine in alto, tra i ceri accesi, avvolta da nuvole d'incenso. Il tempo
passava. A poco a poco la chiesa si vuotava ma il piccolo rimaneva lì,
immobile. Ad un certo punto mamma Benedetta scuotendolo gli disse: "Suvvia,
è ora di tornare a casa!" Gerardo sembrò svegliarsi; ma per qualche giorno
rimase quasi assorto. (queste visite si ripetevano specialmente nelle feste
della Madonna. In quei giorni Gerardo sembrava ebbro di gioia. Saltava e
cantava per le strade, incurante di quanti potevano deriderlo per il suo
comportamento.
Era soddisfatto quando riusciva a comporre una specie di baldacchino sotto
cui poneva un'immagine della Vergine, davanti alla quale si intratteneva in
preghiera senza fine.
Molti ricordavano una particolare manifestazione di affetto per Maria da
parte di Gerardo: era la terza domenica di maggio e in cattedrale si
celebrava la festa dell'Immacolata Concezione. La folla era traboccante. In
prima fila c'era Gerardo, il volto assorto, fiammeggiante d'amore per la
Madonna. All'improvviso lo videro balzare in piedi, avvicinarsi alla statua,
sfilarsi un anello dal dito e metterlo al dito di Maria dicendo: "Ecco, mi
sono sposato alla Madonna".
Con questo atto che poteva sembrare originale, o tutt'al più di breve
durata, egli si era legato per sempre a Maria e rendeva pubblico il suo
amore definitivo per Lei. Il gesto gli avrà ottenuto di certo il dono della
purezza, che rendeva limpidi il cuore, lo sguardo e il comportamento di
questo giovane.
Maria gli aveva dato come compagno di giochi il suo Gesù ed egli Le mostrava
la sua riconoscenza. Soleva dire spesso: "La Madonna mi ha rubato il cuore
ed io gliel'ho dato".
E la Madonna mostrò all'evidenza la sua predilezione per questo ' pazzerello
di Gesù".
A ventitrè anni Gerardo entra nella Congregazione del SS. Redentore, fondata
da S. Alfonso Maria de' Liguori, autore del libro "Le glorie di Maria",
tutto dedicato a questa cara Mamma e dono prezioso per il nostro santo.
Ottenuto di far parte dell'Istituto, Gerardo viene mandato al collegio di
Santa Maria della Consolazione, a Deliceto. Era questo un romitorio,
accettato qualche anno prima da S. Alfonso e trasformato poi in noviziato.
Quando varcò la soglia del collegio, a Gerardo parve di entrare in paradiso.
Era tanta la sua gioia che non diede alcuna importanza al saluto insolito
rivoltogli dal superiore: "Che cosa ne faremo di costui?" Egli si portò ai
piedi dell'altare della Madonna e riversò nel cuore di Lei tutta la
tenerezza del proprio cuore e il desiderio di amare il suo Dio sopra ogni
cosa.
La nuova vita, l'ambiente saturo di Gesù e di Maria, accrebbero nell'anima
semplice dell'aspirante, l'amore ai suoi "Due" e lo spinsero ad una più
intensiva imitazione della loro vita.
Compiuto il tempo della preparazione alla vita religiosa, Gerardo emise i
voti, divenne membro effettivo della Congregazione e cominciò a dimostrare,
anche pubblicamente, la sua maturità spirituale.
Un giorno p. Cafaro ingiunse a Gerardo di accompagnare a Ciorani (SA) due
aspiranti. Il viaggio fu lungo. A metà strada si fermarono all'osteria della
Ponterola. Qui sostarono per passarvi la notte. Gerardo ordinò la cena e si
adoperò per rasserenare i due ragazzi stanchi e un pò immalinconiti per il
recente distacco dalla famiglia. La cena fu servita dalla figlia dell'oste,
una ragazzona bruna, che vedendo la giovialità ed il brio con cui Gerardo
cercava di tenere allegra la comitiva, abituata com'era a trattamenti rozzi
e volgari dei soliti avventori, rimase affascinata e per tutta la notte vi
pensò.
La mattina dopo, mentre Gerardo saldava il conto, gli si fece accanto, gli
rivelò il suo amore e il desiderio di sposarlo. Gerardo, un pò stupito, un
pò divertito, le rispose con un sorriso: "Oh! mi dispiace, ma io ho una
sposa più bella, molto più bella di te"! Alla reazione irritata della
ragazza, aggiunse: "Mi sono sposato alla Madonna"!, e la lasciò in asso
senza continuare.
Maria era il suo vero amore, la sua avvocata, il solo suo nome lo accendeva
in volto di riflessi divini. Per lui Ella era una creatura di una bellezza
incomparabile, a Lei derivata dalla concezione verginale, riflesso della
bellezza di Dio. Tale era la purezza di questo giovane, che riusciva a
scoprire in ogni donna una traccia di Maria. Quando conobbe le anime
consacrate, in modo particolare le carmelitane scalze di Ripacandida, si
lasciava andare a espressioni ardite: "L'unica ragione che mi tocca il cuore
al vivo si è che tutte voi spose mi ricordate e rappresentate la Divina
Madre". Nei suoi propositi scrisse: "A Maria SS. intendo fare questa
decozione: dire un Ave Maria quando vedrò donne".
Quanta purezza in questo cuore che va al di là delle apparenze umane e
ritorna alla fonte, quando la donna uscì pura dalle mani del Creatore!
La preghiera dell'Ave Maria era per lui una forza irresistibile e se ne
serviva come pegno e impegno.
Nel 1751 ottenne di fare la professione e con entusiasmo promise di essere
sempre fedele al suo Gesù crocifisso: "Che io muoia, Signore, per amor tuo,
giacché 71c ti sei degnato di morire per amor mio"!
E il Signore lo prese in parola! Appena fatta la professione si trovò
immerso in una fitta tenebra. Tutti i fenomeni scomparvero: la preghiera, il
contatto con Dio, niente più.
Passò da luglio alla festa della Madonna Assunta come immerso in un antro
buio, in uno stato di agonia indicibile. Perfino dal viso traspariva
l'angoscia della sua anima. Tuttavia incominciò la novena della natività di
Maria. Tutto era freddo intorno a lui. Sentiva il dolce Dio di un tempo come
un giudice pronto a condannarlo. Ripeteva spesso a se stesso: "Anche
l'inferno è poco per te"! Il cinque settembre giunse a Deliceto un chierico,
un vero piccolo santo di appena diciannove anni: Domenico Blasucci di Ruvo
del Monte (PZ). Quando Gerardo lo vide, penetrò nell'anima di lui e ne
scorse tutta la purezza. Si sentirono attratti l'uno verso l'altro e si
amarono come si amano i santi: in Dio. Erano tanto diversi: Gerardo un
tizzone scoppiettante, Domenico una brace ardente sotto la cenere.
"Fratello, ti senti male"? chiese Domenico nel vederlo; "Oh si, il mio cuore
scoppia, non ne posso più". Accostatoglisi Domenico, pose una mano sul petto
dell'amico, vi tracciò una croce e il cuore di Gerardo fu libero, come un
uccello al quale sia stato spezzato il laccio che lo teneva avvinto alla
terra: un volo sulle ali dell'amore; corsero a ringraziare Mamma Maria e si
impegnarono fino alla morte a recitare ogni giorno un'Ave Maria: l'uno per
l'altro. L'anello che li legava nel tempo e per l'eternità era Maria.
Dopo pochi mesi Domenico morì, consumato più dall'amore che dalla malattia.
Certamente in cielo, accanto a Maria, avrà tenuto fede alla sua promessa.
Oggi, la Chiesa e il popolo di Dio lo invoca come venerabile Domenico
Blasucci.
Con l'andare del tempo la tenerezza di Gerardo per la Madonna assumeva
espressioni sempre più delicate. Adornava gli altari a Lei dedicati,
mettendovi tutto il suo amore di figlio.
Se per scherzo gli veniva chiesto, quasi per stuzzicarlo: "Ami tu Maria"?,
rispondeva: "Oh, come mi tormentate". Non poteva darsi pace quando gli
facevano tali domande come se si potesse dubitare del suo amore e diceva:
"vedete che cosa mi si chiede"?
Una volta, entrando in una casa a Melfi, vide un'immagine della Madonna
appesa alla parete. Fu preso da un eccesso d'amore tale che si sollevò dal
suolo fino all'altezza del quadro, quasi per abbracciare il tesoro del suo
cuore. Il corpo era così sottomesso allo spirito da rispondere
immediatamente agli eccessi del cuore. Episodi del genere, molto frequenti
nella vita del santo, potrebbero far sorridere noi del ventesimo secolo,
così disincantati e inclini allo scetticismo, ma per Gerardo erano
all'ordine del giorno. Egli neppure vi faceva caso: per lui ciò che valeva
era la fede e non la forma delle sue manifestazioni.
Quando usciva per la questua, portava con sè tante "cartelline
dell'Immacolata", cioè rettangolini di carta velina ritagliati con le
forbici e con impresso il nome e l'immagine di Maria che egli offriva alla
richiesta di qualche grazia. Suggeriva di prenderla con un pò d'acqua, come
una pastiglia ordinata dal medico.
Lo scopo era far comprendere che non era lui a compiere il miracolo, bensì
l'intercessione della Madonna, alla quale essi dovevano rivolgersi con la
fede e la fiducia di figli.
In questo modo ricompensava anche i suoi benefattori che, al solo vederlo,
lo caricavano d'ogni ben di Dio per il convento, riconoscendo che i doni da
lui ricevuti erano ben più grandi, perché beni spirituali e di salute
fisica.
Una volta mentre era in viaggio, giunse al Santuario della Incoronata,
nascosto nella solitudine di un bosco di querce, un pò distante da Foggia.
Nel silenzio che avvolgeva ogni cosa, Gerardo si sentì preso da un
improvviso, dolce delirio amoroso e cadde come morto a terra. Gli studenti,
che egli accompagnava a Foggia, gli chiesero: "7Y senti male?" "No, è
un'infermità che patisco". Quella che egli chiamava infermità era la forza
irresistibile che lo indirizzava verso la Madonna, specialmente nelle
vicinanze dei suoi santuari.
Tale forza d'amore si rivelava nelle sue lettere specialmente in quelle
scritte alla Madre Maria di Gesù, priora del Carmelo di Ripacandida: "Il
nostro amoroso Gesù sia sempre con voi e Mamma Maria SS. vi conservi sempre
nell'essere amoroso del nostro caro Dio".
In uno scritto inserito nei propositi: "Esame del mio intento nascosto",
scrive così: "E tu, mia unica gioia, Immacolata Vergine Maria, Tu ancora mi
sii unica, seconda protettrice e consolatrice in tutto quello che mi
accadrà. Sii sempre l'unica mia avvocata appresso Dio per questi miei
propositi".
Intanto la salute di Gerardo andava peggiorando. Si moltiplicavano gli
sbocchi di sangue. Racconta un suo compagno: "Egli pativa dolori di petto
molto forti ed aveva gravi difficoltà nell'alzarsi la mattina, perciò mi
disse di dargli l'ubbidienza mentale al primo tocco della campana. Così io
facevo ed egli subito si buttava dal letto". Le continue emottisi
impensierivano i fratelli anche se il suo buon umore vinceva le loro
perplessità. Nascevano allora frizzi innocenti, quasi una gara d'amore tra
lui e i confratelli. Un giorno Gerardo disse a padre Strina, innamorato di
Gesù bambino: "7ù non ami Gesù bambino", al che il padre: "E tu non ami la
Madonna"! Non l'avesse mai detto! A1 nome della Madonna Gerardo afferrò il
padre per le mani e, tutto euforico, si mise a saltellare qua e là
trascinandolo come una piuma.
E Maria come si comportava con lui? Ella lo aspettava al Santuario di
Materdomini. Sì, la casa di Maria, dove Gerardo doveva chiudere i suoi
giorni sotto lo sguardo materno di Lei.
Il 31 agosto 1755 Gerardo salì la collina di Materdomini per addormentarsi
per sempre. Sulla parete di fronte al letto mise il suo grande Amico
Crocifisso e sotto un'immagine della vergine Addolorata. Erano i suoi grandi
amori e li voleva sempre davanti agli occhi. Vi posava spesso lo sguardo per
attingervi forza e amore. Gesù e Maria erano i grandi martiri dell'amore e
lui voleva associarsi al loro martirio: stava infatti per versare il suo
sangue fino all'ultima goccia.
La febbre cresceva, il petto si faceva sempre più ansimante e il cuore
batteva con violenza per la febbre. Vedendolo così il dottore gli chiese se
desiderava vivere o morire. Rispose: "Nè vivere, nè morire. Voglio ciò che
vuole Dio"!
Giunse il 15 ottobre, festa di S. Teresa di Gesù, fondatrice delle
carmelitane scalze e sua grande santa. A1 tramonto chiese che ora fosse. "È
l'Ave Maria", "Ancora sei ore"! esclamò! e furono un vero martirio.
Raccapriccianti visioni di diavoli cercavano di sottrargli la speranza del
cielo. Si sentiva sotto una forte agitazione interiore: "Mio Dio, dove sei"?
"Fammi vedere"! Pur nell'angoscia, le giaculatorie fiorivano sulle sue
labbra. Infine tornò la calma.
E la Madonna? Circa un'ora prima di morire lo si sentì dire: "Quanti
abitini"! Visioni? Vaneggiamenti? O il ricordo del santo abitino della
vergine del Carmine da lui donato alle molte anime incontrate lungo il
cammino della vita? La Madonna era accanto al suo letto come è accanto ad
ogni morente, perché ella è la madre di ognuno di noi.
Una tradizione ci riferisce che ad un certo punto Gerardo confidò al
fratello infermiere: "Ecco la Madonna! Rendiamole ossequio"! Fece per
sollevarsi, ma ricadde sui cuscini col viso illuminato da un sorriso di
cielo. Alluna di notte, dopo aver chiesto invano un pò d'acqua, giunta
troppo tardi, reclinò il capo e si incontrò definitivamente con Gesù e con
Maria.
Era il 16 ottobre del 1755. Maria, porta del cielo, era venuta a prendere
uno dei suoi figli prediletti.
Qui si sta facendo la volontà di Dio, come
vuole Dio e per quanto tempo piace a Dio.
La volontà di Dio e la provvidenza
Queste le parole che Gerardo fece apporre su un
cartello situato alla porta della sua cella, quando ritornò a Materdomini
l'ultimo giorno di agosto, sentendo ormai vicino il giorno della sua morte.
Possiamo dire che in queste parole egli abbia fortemente compendiata tutta
la sua vita.
Il P Innocenzo Colosio o.p. scrisse nel 1955 un articolo sulla rivista "Vita
cristiana" nel quale, dopo aver letto attentamente le lettere di S. Gerardo,
affermò: "Durante la lettura meditata degli scritti di S. Gerardo appena
pubblicata, ebbi la percezione esatta che questa mirabile anima aveva un
perno, un asse, un centro su cui posava la sua vita e questa era la volontà
divina, amata, cercata con amore spasimante, con una passione travolgente.
Capii che questa era la chiave per aprire i segreti del suo cuore, la
ragione, l'ideale, lo scopo di tutta la sua esistenza. La caratteristica
fondamentale della spiritualità gerardina è la perfetta conformità alla
volontà di Dio e faccio voto che si faccia uno studio profondo ed esauriente
sulla spiritualità concreta e vissuta dal santo".
Non è mia intenzione addentrarmi in questa spiritualità in modo esauriente:
ho avuto modo di farne oggetto di studio e di ricerca nella tesi di laurea
in sacra teologica; in questo semplice lavoro voglio solo dare delle
indicazioni pratiche per aiutare ciascuno di noi ad amare e a seguire la
volontà di Dio, pietra fondamentale della nostra santità.
Gesù venne nel mondo per compiere la volontà del Padre e restaurare il
legame tra l'uomo e Dio. Da questa verità scaturisce il legame che ogni uomo
ha con Gesù, la Via che lo porta a Dio. La lettera agli Ebrei dice che Gesù
imparò l'obbedienza da ciò che patì e divenne perfetto. Vi è una scuola alla
quale il Cristo si sottomise e divenne per noi un esempio per giungere
alfine: la santità.
Gerardo è entrato pienamente nella scuola del Cuore amoroso di Cristo. Egli
ha lasciato piena libertà a Dio perché in se stesso continuasse, in certo
modo, la vita di Gesù tra gli uomini del suo tempo. Gerardo è un
illetterato, tuttavia ha lasciato degli scritti ricchi di tanta verità,
quella che egli chiama "la mia verità": l'amore alla "divina volontà".
Spigolando tra le lettere vediamo che egli esorta all'adempimento amoroso
della volontà di Dio, che inevitabilmente passa per la croce. Questa è la
perla preziosa che, trovata nel campo del mondo, si compra spendendo tutta
la propria vita. Nei propositi che Gerardo scrisse vi è una frase
indicativa: "Certi hanno l'impegno di fare questo e quello; ed io ho solo
l'impegno di fare la volontà di Dio".
"Mio caro Dio, unico amor mio, oggi e sempre mi rassegno alla vostra divina
volontà, e in tutte le tentazioni e tribolazioni dirò: "Fiat voluntas tua".
Terrò sempre gli occhi al cielo per adorare le vostre divine mani, che
spargono su di me preziose gemme del divino volere".
In questa breve preghiera troviamo l'atteggiamento fondamentale dell'anima
di Gerardo, amante di Dio e della sua volontà. Questa era per lui la luce,
la forza che permeava tutte le sue azioni: dall'infanzia all'adolescenza e
poi nella vita religiosa, fino alla consumazione compiutasi, in un certo
senso secondo le parole del padre Buonamano: "Parti anima cristiana".
Gerardo aveva sentito ben presto nel cuore il desiderio di farsi religioso.
Provò presso lo zio cappuccino, p. Bonaventura, ma questi perentoriamente
gli disse che una vita così austera non era fatta per lui. Gerardo non
abbandonò l'idea e attese pazientemente il tempo di Dio.
L'occasione venne, come è noto, all'arrivo dei padri Redentoristi per una
missione a Muro. Tanto disse e tanto fece che alla fine fu accolto.
Qui incomincia per lui il grande cammino verso il pieno compimento della
volontà di Dio.
Sappiamo tutti che la vita religiosa è la scuola del servizio di Dio:
Gerardo vi si immerse pienamente.
Quando era sarto e gli chiedevano il conto per il lavoro, diceva: "Fate
voi"! Da religioso diceva: "Lasciate fare a me" e così lo battezzarono. I
suoi confratelli lo presero in parola. Se c'era un lavoro extra o più
pesante, Gerardo era in prima fila.
Sotto la severa direzione del p. Cafaro, chiamato dallo stesso S. Alfonso
"la verga di ferro", Gerardo si accorse ben presto che la sua vita veniva
purificata nel crogiuolo. Il p. Cafaro faceva sul serio. Accortosi che Dio
era largo di doni verso questo semplice figlio, usava stratagemmi
impensabili per abbassarlo, per annichilirlo, per insegnargli l'umiltà. Ma
Gerardo era più astuto di lui. Sapeva bene che Dio solo era autore di quanto
avveniva in lui, dal momento che la sua miseria era fortemente illuminata
dalla luce divina.
Immerso in tenebre oscure, Gerardo si avvicinava al suo superiore per avere
da lui un consiglio, un incoraggiamento, una parola di conforto, ma il
padre, appena lo vedeva, lo cacciava via in malo modo, accrescendo ancor più
la sua sofferenza tanto che un giorno gli disse che non osava più accostarsi
a lui "perché ho capito che vi dispiace di vedere la mia faccia; ed io per
non disturbarvi, mi privo delle vostre benedizioni, mentre io ho bisogno di
voi per la guida dell'anima mia. Padre mio, voi siete così caritatevole,
pieno di bontà, benigno e amabile con tutti solo di me vi siete annoiato.
Non so perché che cosa vi ho fatto che mi siete così contrario? Forse sono i
miei peccati"!
Gerardo capiva bene che la volontà di Dio per lui era racchiusa nella parola
del suo superiore e per questo andava mendicandola con tanta umiltà.
Il p. Cafaro, rendendosi conto dei fenomeni mistici di cui era gratificato
Gerardo, sulle prime lasciò correre, ma poi incominciò a rimproverarlo in
privato e in pubblico al punto che Gerardo un giorno fu sentito gridare:
"Non ti voglio! non ti voglio"! Così egli si schermiva davanti a Gesù che lo
chiamava, nel desiderio di obbedire alla voce del superiore e di essere
lasciato nel suo contesto umano senza tanti doni. Essi infatti diventavano
un martirio nel martirio.
Fonte di altrettante sofferenze fu per Gerardo il padre Criscuoli, che per
breve tempo sostituì il superiore assente. Ma Gerardo reagiva dicendo: "Dio
mi respinge per i miei peccati. Lui vuole così, sia fatta la sua volontà".
La luce della fede e l'amore alla volontà di Dio gli facevano vedere nel
superiore il suo amato Signore e prendere alla lettera le sue parole. Un
giorno, un fratello di nome Leonardo gli disse di prendere il cavallo e di
andare ad Accadia per alcune faccende. Egli partì subito... andò così stanco
da cadere a terra come morto. Appena il fratello lo vide gli disse: 'Perché
non ti sei messo a cavallo"? "Non ne avevo il permesso"! "Perché non ti sei
portato da mangiare"? "Nessuno me l'ha dato"! "Ebbene", disse il superiore,
"da oggi in poi devi servirti del cavallo, hai capito"? Bisognava stare
attenti nel dargli gli ordini, perché egli non scherzava con la parola del
superiore.
Preparato e formato a questa dura scuola dell'ubbidienza, Gerardo era più
che mai disposto ad abbandonarsi totalmente all'azione di Dio in lui,
qualunque cosa gli avesse chiesto.
Ed eccolo disposto a percorrere tutte le contrade per accompagnare i Padri
nelle missioni tra il popolo; a questuare per mantenere i giovani che si
preparavano alla vita religiosa; in cerca di anime da salvare; in missione
di pace per sedare le contese tra famiglie divise da odi inveterati ed,
infine, per invogliare anime generose e belle a consacrarsi a Gesù nella
vita religiosa. E quante devono a Gerardo il grande dono di essere divenute
"spose" di Cristo!
Tutto questo suo andare non era altro che un rispondere alla volontà di Dio
che lo voleva missionario itinerante, anche se solo fratello laico.
La Provvidenza volle che Gerardo avesse un nuovo superiore nella persona del
p. Fiocchi, uomo intelligente e capace di condurre per le vie meravigliose
del Signore questo gioiello di carità e di santità. Innanzi tutto gli
ingiunse di uniformarsi alla vita di tutti gli altri, cibo come gli altri,
cella da povero sì, ma come gli altri. In definitiva gli ingiungeva un
tenore di vita più umano. Il padre contava sull'ubbidienza di Gerardo,
sapendo quanto gli stesse a cuore compiere la volontà di Dio, suo cibo
quotidiano.
Gerardo divenne l'assiduo ambasciatore del p. Fiocchi. A1 primo cenno del
superiore, Gerardo realizzava la sua missione con la semplicità e la
diplomazia di chi ripone la propria fiducia solo in Dio. Da allora il campo
di lavoro del nostro santo non ebbe confini. Il suo desiderio era ascoltare
la voce interiore che lo guidava passo passo e gli faceva perfino scoprire i
grandi peccatori che incrociava per le strade delle varie contrade.
A riguardo si raccontavano fatti di una singolarità eccezionale, perché
riferiti non da persone fanatiche, ma dai suoi stessi confratelli non certo
molto creduloni.
Una volta Gerardo si stava avvicinando a S. Agata di Puglia, quando
interiormente sentì un richiamo: "Fermati, sta per arrivare un grande
peccatore". Ed ecco un uomo, dall'aspetto poco rassicurante e molto deciso
al male, secondo quanto Gerardo interiormente vedeva. Senza tanti preamboli
lo apostrofo: "Fratello, dove vai"? Al che quegli rispose: "A te che cosa
importa"? Gerardo insistette con tante domande da sconcertare e far
arrabbiare il suo interlocutore. Ma Gerardo non era tipo da lasciarsi
sfuggire la preda e lo abbordò con voce severa: "7ì sei un disperato che
stai per dare la tua anima al diavolo"! Non l'avesse mai detto. Era come se
Gerardo gli avesse posto la luna davanti ai piedi ad illuminargli il baratro
dove stava precipitando. "Sì, rispose, è aero". E cadde in un desolato
pianto. La severità del nostro santo si stemperò allora in una dolce
tenerezza: "Non temere, va a Deliceto dal padre Fiocchi. Digli che ti manda
Gerardo, fa una buona confessione e tutto si rimetterà a posto". Con
infinita gioia l'uomo fece quanto gli era stato consigliato; per vari anni
rimase nel collegio offrendo la sua opera. Spinto da un desiderio di
maggiore immolazione, si recò a Napoli dagli incurabili e morì vittima di
carità. Di "fioretti" simili è costellata la vita di Gerardo.
Ai giovani studenti di Deliceto una volta venne il desiderio di recarsi per
devozione al monte Gargano dove era apparso l'Arcangelo S. Michele. Le
scarse risorse del collegio, però, rendevano inattuabile l'aspirazione di
quei giovani. Qualcuno si fece coraggio e osò rivolgere la domanda al p.
Fiocchi il quale rispose: "Impossibile! In casa non ho che pochi carlini.
Quindi niente da fare". La richiesta, però, non fu abbandonata. Quando il
nostro santo ritornò da Foggia, lo stesso padre Fiocchi, poiché conosceva il
suo abbandono alla divina Provvidenza, si lasciò convincere a chiedere a
Gerardo se la cosa fosse possibile. Gli mise subito davanti il fatto: non ci
sono soldi. Gerardo accolse la notizia del pellegrinaggio con immensa
allegria.
Noi sappiamo quanto egli amasse questo Arcangelo fin dalla sua tenera età.
Spalancò le braccia con gioia; ciò accrebbe l'entusiasmo dei giovani; "Come
faremo?" fu la domanda che gli posero; "La provvidenza ci penserà". E si
parte. Si era nella seconda metà di maggio. Il tempo era buono e tutti
intrapresero il viaggio con grande lena. La carovana era ben composta e
comprendeva anche due somarelli.
Si arrivò a Foggia a notte inoltrata, contenti, ma stanchi e affamati dopo
una marcia di trenta chilometri. Di primo mattino Gerardo fece trovare un
carro fornito di sedili di legno ben allineati. Grande meraviglia! Chi
pagherà? La provvidenza. Si diressero verso Manfredonia. Le bestie erano
stanche e frate Antonio Di Gironimo sconsigliava di mandare avanti la
carovana senza che prima si fossero fatti riposare i giumenti. Gerardo non
era dello stesso avviso. Si doveva partire. Si mise alla testa del
drappello, uno schiocco del frustino e... via! Giunsero a Manfredonia,
consumarono le ultime provviste sul prato davanti al mare, con tanta gioia
in cuore. Gerardo, in estasi davanti al meraviglioso spettacolo, benediceva
il Creatore di tanta bellezza.
Quando si risvegliò dal rapimento, contò il gruzzolo: diciassette grane! A
che cosa potevano bastare? Il pensiero di Gerardo corse al suo Signore:
comprò un mazzo di garofani, entrò nella chiesa del Castello, lo pose
davanti al tabernacolo e si fermò a pregare: "Ora io ho pensato a Te,
mormorò, ora tu devi pensare alla mia famigliola"! Nella chiesa aleggiò
un'aria di cielo. I presenti, che non conoscevano per nulla il nostro
Gerardo, sentirono come un alito nuovo di Spirito Santo.
Due sacerdoti si accostarono a Gerardo e gli chiesero il motivo di quella
carovana. Egli rispose con gioia: "È un pellegrinaggio dei giovani studenti
del collegio di Deliceto ed io sto domandando al Signore che provveda Lui"!
La semplicità della presentazione commosse i due sacerdoti: uno gli diede
una buona somma e l'altro promise un bel turibolo, che comprò e mandò a
Deliceto in breve tempo. Il gruppo intanto riposò nelle stanze del Castello
e di primo mattino riprese il viaggio verso il monte Gargano.
Gerardo fece noleggiare due mule, mentre lui stesso proseguiva a piedi,
benché fosse rotto dalla fatica.
Giunto sul luogo, fece sellare le mule sotto il campanile e con i compagni
entrò nella navata del tempio dove s'immerse subito in una profonda
preghiera. Fu scosso all'improvviso dai giovani che non reggevano più dalla
stanchezza e chiedevano di riposare.
La mattina dopo tornarono in chiesa dove prolungarono fino a tardi la loro
preghiera; quindi si prepararono per il pranzo. Gerardo fece i conti di
quanto aveva per saldare il tutto. Pochi soldini. Allora, per tenere lieta
la giovane comitiva affamata, uscì di corsa, comprò un pò di pane, ne fece
delle fettine sottili come ostie e le distribuì scomparendo dalla loro
vista. Dopo mezzogiorno ritornò per invitarli: "A tavola, a tavola"!
Meraviglia di tutti: sulla tavola imbandita c'erano delle anguille fritte
che emanavano un profumo delizioso! Chiamò l'eremita del posto, gli diede
alcuni soldi pregandolo di andare a comprare il pane e il vino. Infine si
prepararono tutti allegramente per ripartire verso casa. Ma Gerardo aveva
stranamente un volto sdegnato. Che cosa era accaduto?
L'oste pretendeva una somma eccessiva, senza dare spiegazioni di sorta. Al
che Gerardo gli ingiunse: "Tu sei uno strozzino che succhia il sangue dei
poveri e Dio ti punirà. Se non ti accontenti del giusto, le tue mule presto
moriranno"! Non aveva ancora terminato di parlare, che giunse il figlio
dell'oste: "Presto, correte, le mule stanno morendo"! L'oste rimase
atterrito e, domandato perdono, chiese soltanto il giusto. chiedere i
recipienti. Gerardo si arrabbiò. A passi concitati entrò nella taverna e ad
alta voce apostrofò l'oste: "7b neghi l'acqua ai fratelli? Il pozzo negherà
l acqua a te". Il tono di voce e l'impeto di Gerardo atterrirono l'uomo che,
compreso del suo malanimo, rimise il secchio nella catena e ve lo lasciò per
sempre.
Il viaggio si concluse con grande soddisfazione di tutti, dopo la visita ad
altri santuari e con l'infinita gioia di Gerardo che aveva avuto così la
possibilità di effondere il suo spirito di amore e di venerazione a Maria.
Aveva curato il viaggio nei minimi particolari, perché esso non fosse una
semplice scampagnata, ma un vero pellegrinaggio. Tutti avevano goduto nel
corpo e nello spirito, ma per Gerardo fu l'inizio della fine. Aveva
sottoposto il suo corpo ad una immane fatica che presto lo incamminerà verso
la morte. Con il declinare della salute aumentavano le pene dell'anima.
Tanto più egli saliva nella luce di Dio, tanto più oscuro gli sembrava il
cammino.
Ma il Signore misurava le forze del suo prediletto. In questo periodo lo
mise accanto ad anime "angeliche"; così le aveva definite S. Alfonso che le
aveva conosciute in un corso di esercizi spirituali: erano le Carmelitane
Scalze di Ripacandida. Gerardo si intratteneva spesso con loro, parlando di
Dio con libertà di cuore perché si sentiva in sintonia con il loro spirito.
La priora, la Madre Maria di Gesù, anima veramente contemplativa, trovò a
sua volta grande aiuto in Gerardo in un momento assai difficile.
Il monastero era nato per volere dello zio di suor Maria. Egli desiderava
che le giovani vivessero lo spirito genuino della santa Madre Teresa di
Gesù, fondatrice delle Carmelitane Scalze. Chiese per questo l'aiuto dei
padri carmelitani di Napoli, ma questi tendevano molto alla mitigazione. A
causa di ciò nacque una divergenza che si protrasse a lungo finché il
vescovo di Melfi, mons. Basta, che pure aveva voluto la clausura e amava
quelle anime, interdisse alle monache di comunicare con religiosi di altre
congregazioni, causando loro grandi sofferenze. Anche a Gerardo, quindi, fu
proibito di recarvisi. La madre Maria se ne lamentò con il nostro santo, ma
questi, sempre ligio al suo amore per la "bella volontà di Dio", scrisse
alla suora in questi termini: "Se monsignore mio caro illustrissimo vi ha
proibito lo scrivere, ha fatto bene, essendo questa la volontà del nostro
caro Dio. Ed io assai godo che il Signore vi leva da tanti impicci, poiché
son segni tutti che vi ama assai e vi vuole tutta ristretta a Lui;... Quando
si tratta di volontà di Dio ceda ogni cosa. VR. lo sa meglio di me e di
qualunque altro".
Più avanti scrive: "Gran cosa è la volontà di Dio! Oh, tesoro nascosto ed
imprezzabile! Ah sì, ben ti comprendo! Tu sai che tanto vali, quanto
l'istesso mio caro Dio".
In queste righe è compendiato il pensiero di Gerardo sulla volontà di Dio,
da lui tanto amata e tanto desiderata, anche se per questa ha dovuto
soffrire molto. E in un'altra lettera scrive: "Mi dite che mi contenti della
volontà di Dio. Sì signore, levatemi questa e poi vedete cosa mi resta".
Eppure Gerardo in questo tempo è afflitto da prove interiori laceranti e
avrebbe bisogno di poter sfogare il suo dolore con un'anima a lui molto
simile! Niente! Questa è la volontà di Dio e basta! Quando fu colpito dalla
calunnia, soffrì fino allo spasimo non per essa, ma solo per la privazione
del suo Gesù eucaristico, tuttavia si abbandonò a questa amata volontà,
perché in essa sapeva di far piacere al suo Dio.
Vivendo in questo sincero abbandono, era giusto che Dio stesso mostrasse
verso di lui una condiscendenza straordinaria.
Carico di stanchezza, sfinito dalle fatiche, Gerardo ritornò a Materdomini
il 31 agosto 1755 correndo come un gigante nell'arena della volontà di Dio.
Quando il superiore, il padre Caione lo vide, ne rimase sorpreso perché
avvertì che ormai era giunta la fine per questo suo figlio.
Erano tutti costernati. Solo Gerardo era nella calma. Entrando nella sua
cella vi appose il cartello già noto: "Qui si stat facendo la volontà di
Dio..." Il dottor Santorelli, al vederlo, esclamò: "È finita".
Un giorno il padre Caione, visto che la fine si avvicinava, lo esortò a
uniformarsi alla volontà divina e Gerardo con volto ilare: "Sì, padre, io mi
figuro che questa sia la volontà di Dio e che io sia inchiodato su questo
letto, come stessi inchiodato alla stessa volontà di Dio. Anzi mi figuro che
io e la volontà di Dio siamo divenuti una cosa sola".
Il 5 settembre il padre Buonamano gli portò il viatico. Mostrandogli l'ostia
gli disse: "Ecco quel Signore che fra poco dovrà essere vostro giudice."
Gerardo con calma e serenità rispose, quasi vedesse il suo Dio: "Signore,
voi sapete che quanto ho fatto e detto, tutto ho fatto e detto per l'onore e
la gloria vostra. Ora muoio contento, perché spero di non aver cercato
altro, in tutto questo che la gloria vostra e lai vostra sola volontà".
L'indomani, mentre Gerardo appariva ancor più sfinito, il p. Caione entrò
nella cella e, mostrandogli una lettera, gli disse: "Ha scritto il p.
Fiocchi. Leggi ciò che vuole". Gerardo, con fatica, lesse e si pose la
lettera sul petto: "Signore si faccia di me secondo la tua volontà".
Era l'ubbidienza del p. Fiocchi: "Stare bene e farsi passare gli blocchi di
sangue". E così fu! Era l'ubbidienza, era la volontà del superiore, quindi
Dio doveva rispondere. Si sentì meglio, il sangue e la febbre cessarono.
Al dottore che lo vide senza febbre, ma macilento più che mai disse: "Ora
non posso morire perché devo fare la volontà del p. Fiocchi! Vorrei poter
mangiare delle albicocche!" Al che il dottore rimase attonito: come dare
delle albicocche ad uno che sta per morire? L'infermiere andò a prenderne
una, Gerardo la mangiò, ne chiese un'altra e poi una terza. Al che il
dottore si allontanò molto perplesso e la mattina dopo, il più presto
possibile, si recò a Materdomini con la certezza di trovare Gerardo già
morto. Quale non fu la sua sorpresa nel trovare la cella vuota, tutta
riordinata e senza Gerardo! Si affacciò alla finestra e vide l'ammalato
camminare lentamente appoggiato ad un bastone. Lo raggiunse: "Ma qui c'è il
dito di Dio, disse, solo la fede nell'ubbidienza ha compiuto questo
miracolo".
Passarono i giorni: Gerardo era ormai impaziente di unirsi al suo Dio e così
il suo Dio era impaziente di unirsi al suo prediletto.
Giunse la sera del 15 ottobre, mentre sentiva prossima la fine, al suono
dell'Ave Maria lo si udì mormorare: "Ancora sei ore"; doveva compiere ancora
un miracolo!
Da Oliveto, verso le venti, giunse un corriere con una lettera per Gerardo.
Era l'arciprete Arcangelo Salvatore che gli chiedeva la carità di far
fermare la calcara della volta del santuario della Madonna della
Consolazione. Il caso era grave. Gerardo ascoltò, chinò il capo sul petto e
a stento disse: "Prendete un pò di polvere della statua di S. Teresa e dite
all'arciprete di spargerla sulla calcara". Avvenne il miracolo che Gerardo
astutamente aveva attribuito a Santa Teresa.
Col passare delle ore tutti si ritirarono, rimase solo il fratello
infermiere che vinto dalla stanchezza, si appisolò.
Così colui che era passato sulla terra, segno di benedizione per tutti,
consumò nella solitudine la sua ultima ora, abbandonato alla "bella volontà
di Dio".
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