PARE': LA CHIRURGIA ACQUISTA
PRESTIGIO
|
L'ILLUSTRAZIONE
La tavola illustra l'intervento
chirurgico per la cura delle ferite da arma da fuoco. Su di un
tavolo operatorio, il paziente viene tenuto da due assistenti e il
chirurgo Paré tratta le ferite sostituendo la cauterizzazione dei
vasi con la loro legatura, per controllare meglio l'emorragia nel
corso dell'eventuale amputazione. |
PREMESSA
Chi
diventa chirurgo per amore di denaro non andrà lontano.
Secondo
l'etimologia, la chirurgia è una parte della medicina il cui fine è la
guarigione mediante l'uso delle mani (dal greco keir, «mano» ed ergon,
«lavoro»); l'assimilazione dell'attività del chirurgo con quella di un
artigiano, per molti secoli, ha nociuto alla chirurgia, poiché ha fatto
sì che i medici fisici credessero di essere i soli a possedere la
scienza. Certamente nell'antichità l'arte chirurgica era poco evoluta e
doveva limitarsi a compiti assai ingrati; ben cinque secoli durò la
lotta perché la chirurgia ottenesse la dignità che le spettava. I
chirurghi dovettero prima prendere le debite distanze dai barbieri e dai
flebotomi, riuscire a trionfare sui loro rivali e quindi organizzarsi in
una corporazione di specialisti.
La guerra, con il suo carico di dolore e di sofferenze, sempre pesante, ha
avuto tuttavia un lato positivo. Il campo di battaglia infatti è stato
sempre arena di addestramento per la chirurgia; anzi, in tempi recenti
gli eventi bellici hanno fornito l'occasione per vasti esperimenti di
igiene pubblica e di servizio sanitario, impossibili in tempo di pace.
Senza alcun dubbio, i primi chirurghi furono militari, incaricati di
assistere quanti cadevano feriti in combattimento singolo o negli
scontri fra tribù avversarie. Omero canta le gesta degli audaci
chirurghi Macaone e Podalirio; l'esercito romano aveva nel suo
organigramma ufficiali medici: i cavalieri di San Giovanni assistevano i
Crociati feriti; fino ad arrivare ai tempi di Ambroise Paré, chirurgo
militare(1).
Con l'invenzione della polvere da sparo, la chirurgia, alle prese con
nuovi tipi di ferite, spesso devastanti, fece enormi passi avanti.
Nel Medioevo i chirurghi, seguendo l'insegnamento della medicina greca e
romana, ritenevano che il pus fosse un elemento decisivo della
cicatrizzazione e cercavano in tutti i modi di provocarne la formazione,
introducendo corpi estranei e liquidi irritanti nella ferita. Nel
Rinascimento, dopo molte e dure polemiche, prevalse invece
l'orientamento di mantenere la ferita pulita a ogni costo, drenandone
gli umori, asportando le parti necrotiche e soprattutto assicurandosi
che non rimanessero all'interno veleni. A Paré si deve l'abolizione
della cauterizzazione con olio bollente e l'adozione di lenitivi(2).
Nel XVII secolo, epoca di grande civiltà artistica e scientifica, gli
uomini avevano una particolare inclinazione per le risse (anche il
cittadino più pacifico, se non portava una pistola a canna corta, aveva
con sé almeno un pugnale) ed erano quindi frequenti le lesioni da arma
da taglio e da fuoco. I canoni della chirurgia erano i seguenti: la
prima regola era estrarre il corpo penetrato nei tessuti o con ferri
adatti o con empiastri (tra i ferri ricordiamo alcune nuove invenzioni
del secolo, che si chiamavano 'tirapalle', 'becco di corvo', 'becco di
gru'); la seconda era favorire l'espulsione del corpo estraneo dalla
ferita con l'uso di sostanze di cui era riconosciuta la 'virtù
estrattiva' — la 'gomma gulbana', la 'pece greca', la 'pece navale', il
'sagapeno', la 'sugna rancida'.
Portata la ferita al vivo, a nessuno veniva in mente di ricucirla, pur
essendo la tecnica delle suture ampiamente conosciuta, ma al contrario,
dopo molte esplorazioni con sonde e specilli, la si riempiva con zaffi
di stoppa o di tela, medicati con balsami vari in cui entravano i
consueti componenti della magica farmacopea medievale: oltre al sangue
umano, la limatura di corno di liocorno o la polvere di mummia indiana.
Sulla parte sanguinante, specie in caso di emorragia copiosa, si
applicava un piccolo animale, una gallina, un gatto, un cucciolo,
squartato e applicato ancora palpitante, e l'effetto emostatico era
considerato sicuro. Il trattamento chirurgico di una ferita prevedeva:
pulizia quotidiana a fondo, cambio delle filacce più volte al giorno con
nuova applicazione di balsami(3).
L'osservazione di eccezionale importanza(4),
compiuta dal medico bolognese Cesare Magati, fu quella che, se si
medicava quotidianamente la ferita, si impediva o si ritardava in
qualche modo il processo di cicatrizzazione, contravvenendo, quindi, a
un principio fondamentale: quello ippocratico della forza guaritrice
della Natura(5).
Ci si accorse subito, in quell'epoca intellettualmente assai vivace(3),
che il metodo, abbastanza rivoluzionario, proposto dal Magati nel libro
De rara medicatione, era molto valido e dava ottimi risultati(6).
I medici fisici e i chirurghi in quell'epoca erano in aspra competizione e
fu la peste a favorire la riconciliazione ufficiale delle due
professioni(7),
almeno a Venezia. L'epidemia del 1630 aveva decimato a tal punto i due
Collegi dei Medici e dei Chirurghi, che questi si videro costretti a
scambiarsi soci e Priori, in occasione di esami e adunanze (nel 1668 i
due Collegi ebbero il Priore in comune ma per breve tempo, essendo le
cariche incompatibili). All'Università di Padova era ormai divenuta
pratica usuale il passaggio dalla cattedra di Anatomia a quella di
Chirurgia e da questa a quella di Medicina; tutto questo significava tra
l'altro alleanza dei professionisti laureati contro i barbieri, i
flebotomi e i norcini, che continuavano a esercitare la bassa chirurgia.
È vero che a Venezia spettava al Collegio dei Chirurgi esaminadi e
autorizzarli a praticare le operazioni di loro competenza (cioè
«estrazione dei calcoli, sanzione delle crepature, delle carnosità della
verga, difficoltà d'urina, morbi delle parti genitali, incisione dello
scroto»), ma nello stesso tempo era vietato al chirurgo di abbassarsi ad
«applicare coppette e somministrare clisteri». La salute pubblica e
privata era curata da medici fisici, da medici chirurgici, da farmacisti
e speziali(8),
da barbieri e da erbari (attuale erborista). «Infatti(9),
il medico esercente era legalmente tale in virtù di una licenza di
'abilitazione', che gli veniva accordata dal Pretore (che faceva le
funzioni dell'odierno Sindaco) che era il protomedico della città e che
concedeva l'abilitazione di praticare medicazioni in genere e aveva il
privilegio di curare alcune malattie in particolare. L'abilitazione a
esercitare la professione si otteneva dopo aver superato un esame molto
modesto, benché le 'Costituzioni di Federico II' (fondatore
dell'Università di Napoli(10)
e protettore dell'Università di Salerno(11))
esigessero che il medico avesse studiato e desse prova di conoscere di
grammatica, filosofia, e medicina.
I medici fisici avevano facoltà eccezionali e maggiori prerogative
rispetto ai medici chirurgici. Un bando protomedicale del 21 febbraio
1563 stabiliva che essi avevano licenza di «medicare piaghe, analizzare
urine, ordinare sciroppi, pillole rimedi e medicine in genere e altre
cose spettanti e pertinenti ai dottori di fisica»; potevano anche
ordinare salassi (che poi il barbiere eseguiva). Il medico chirurgo,
secondo un altro bando del 10 novembre 1573, poteva esercitare l'arte
della chirurgia medicando soltanto ferite del capo con lesioni delle
ferite di petto, e del ventre; in senso lato poteva medicare «in tota
cirurgia et artis barbetonsoris pro necessariis». La sua attività si
riduceva a interventi specialistici che venivano autorizzati di volta in
volta. Il medico fisico, durante il giro di visite, cavalcava una mula e
dal suo aspetto, se si presentava magra o grassa, si giudicava del
medico, del cavaliere, e quindi della bravura del dottore. Questi
portava un bastone con pomo di argento e fiocco di seta, tabacchiera
d'argento e gualdrappa; le sue ricette erano spedite al farmacista
presso cui il medico andava a riposare e a conversare. Spettava al
farmacista stabilire il prezzo da pagare per il farmaco (erano prezzi
esorbitanti), dal momento che doveva recuperare il capitale impiegato,
fare i suoi guadagni e dare una percentuale al medico per la visita
effettuata.
Nei primi del XVII secolo la visita del medico, in Sicilia, era di tarì
due (centesimi 85) e di un tarì per ogni visita successiva. Oltre al
medico(12)
e al farmacista vi erano il barbiere, che esercitava la bassa chirurgia,
il norcino(13)
e l'erbario(14),
che vendeva erbe e pozioni medicinali. Il barbiere(15)
eseguiva salassi, medicature più comuni, usava il cauterio (strumento
chirurgico usato per vari scopi dopo essere stato reso incandescente),
apriva ascessi, curava lussazioni, fratture e ferite in genere, e
soprattutto le malattie a trasmissione sessuale allora molto diffuse.
L'operazione più diffusa del secolo XVII era l'amputazione(16)
di arti; e tra i ferri chirurgici, che si rinnovavano e aumentavano di
numero, erano numerose le seghe e i lacci emostatici necessari per
l'intervento e la vescica di maiale per fasciare il moncherino(17).
La moda della vescica emostatica non durò a lungo (grazie all'opera dei
chirurghi militari inglesi(18)),
in quanto erano noti altri sistemi di emostasi, come la cauterizzazione
e addirittura la legatura o cucitura dei vasi. Il proverbio che dice:
«Medico pietoso fa la piaga verminosa» si potrebbe interpretare nel
senso che il chirurgo che abbia compassione del malato e del suo dolore
ed esiti a por mano ai ferri quando è necessario, fa un cattivo servizio
alla medicina e all'infermo. Ma questa è l'interpretazione positiva; se
invece ammettiamo che il famoso proverbio abbia almeno tre secoli, che
sono pochi per la cosiddetta 'saggezza dei popolo', allora assume un
altro significato, in quanto ci sembra detto a difesa di quei terribili
chirurghi la cui principale occupazione era il tormentare le piaghe,
ripulendole e irritandole quotidianamente, senza alcuna pietà per il
povero malato.
LA
SCHEDA
In un
saggio intitolato La vecchia sala d'aspetto, Preves ci fornisce
una descrizione del London Hospital ai tempi del Rinascimento: «In sala
operatoria c'era una stufa tenuta sempre accesa, estate e inverno, notte
e giorno. Lo scopo era di aver un fuoco sempre pronto sul quale
riscaldare i ferri usati fin dal tempo di Elisabetta I per arrestare le
emorragie. L'antisepsi non era ancora in uso, non c'era scopo a essere
puliti; il chirurgo operava con una cappa di tessuto nero [vedi il
famosissimo dipinto di Rembrandt, Lezione di anatomia del dottor Tulp],
che ricordava il mattatoio: infatti era rigida per il sangue e per il
luridume di anni. Più impregnata era, più costituiva una prova tangibile
della maestria del chirurgo. Le ferite erano bendate con una pezza
intrisa di olio, e sia l'olio sia la benda erano chiaramente e
tranquillamente settici. La pezza era una specie di scampolo di cotone,
ottenuto da lenzuola strappate. In ogni reparto c'erano una spugna e una
bacinella di acqua, e con questo oggetto putrido, un tempo pulito, si
lavavano a turno due volte al giorno tutte le ferite».
Da quanto precede, appare chiaro che, a quell'epoca, la responsabilità
maggiore della mortalità ricadeva sulle infezioni post-operatorie. Fare
il chirurgo significava abituarsi non solo alle urla e alle lotte che si
svolgevano in sala operatoria, ma anche al nauseante lezzo di carne in
putrefazione, che ammorbava l'aria del reparto post-operatorio. I
chirurghi si preoccupavano soprattutto della terribile infezione
erisipela, che si propagava con grande rapidità ed era causata dagli
effetti tossici di catene di batteri di forma sferica, chiamati
streptococchi. Essa si diffondeva in tempi molto brevi, lungo un acceso
rossore che si instaurava nei tessuti incisi del paziente e in genere
portava alla morte. Nessuno allora sapeva cosa provocasse l'erisipela
nelle ferite chirurgiche, nessuno sapeva prevenirla, né sapeva come
erigere una barriera efficace contro il suo precipitoso progredire.
Se un paziente era fortunato, l'infezione conseguente all'incisione
chirurgica si localizzava soltanto nella zona dell'incisione, entro 5 o
6 giorni appariva uno spesso liquido inodore color crema, che poi
prorompeva nell'incisione per sgorgare liberamente attraverso i lembi
aperti, che venivano quindi rimarginati nella parte sottostante da un
nuovo tessuto cicatriziale sano. La comparsa del 'benvenuto effluvio'
era accolta come segno sicuro che la ferita sarebbe guarita; esso veniva
chiamato 'lodevole pus' (secondo quanto sostenuto da Galeno) ed era
prodotto dall'azione degli stafilococchi, batteri sferici che si
riaccorpavano in ammassi e tendevano a svolgere la loro purulenta
funzione in un ambito relativamente localizzato. Gli stafìlococchi erano
amici del chirurgo; a differenza di altri microbi che, annidandosi nelle
profondità delle ferite, portavano purulenza, cattivo odore e morte. Lo
streptococco era un microbo maligno, che si faceva strada bruciando
tutto intorno a sé e immetteva il suo veleno tossico nella circolazione
sanguigna; messaggera di morte, la tossina si rivelava con febbre alta e
brividi da far battere i denti.
Tuttavia, mentre per i danni da streptococco c'era almeno una qualche
speranza che il paziente potesse sopravvivere, non così con un'altra
forma di infezione, che condannava tutte le sue vittime a una morte
orrenda: la cangrena. Dovuta a un insieme di batteri (alcuni chiamati
aerobi, perché crescono soprattutto in assenza di ossigeno e invadono
perciò in profondità i tessuti del loro ospite impotente), che uccidono
tutto ciò che trovano sulla loro strada, emanava un fetore umido che
chiudeva le narici e ha impregnato per generazioni gli abiti dei
chirurghi europei ed americani.
A causa del pericolo di sepsi, e quindi della minaccia di infezioni, le
operazioni rimanevano per necessità limitate all'amputazione delle
estremità e alla rimozione dei tumori del seno e della pelle.
Comunque, una volta migliorate le tecniche anatomiche e fisiologiche, il
vasto movimento innovativo del Rinascimento — sorretto e favorito da una
più vasta diffusione dei libri dovuta all'invenzione della stampa — si
fece sentire anche nel campo chirurgico.
Quale presupposto per interventi chirurgici con esito positivo e non
nocivi ma curativi per il paziente, i più illustri chirurghi dovevano
possedere una buona formazione manuale e scientifica, anzitutto in
anatomia. Si pretendeva inoltre che un discepolo dell'arte, consapevole
del proprio dovere, conoscesse il latino e sapesse leggere il francese.
Nel XVI secolo il latino era ancora la lingua internazionale degli
studiosi; tuttavia nel secolo XVII in Francia e in Inghilterra cominciò
a fiorire, insieme alla chirurgia, la relativa letteratura in lingua.
A imprimere una forte spinta alla chirurgia del Rinascimento, però, non fu
tanto l'influenza della nuova anatomia, quanto un'altra invenzione: la
polvere da sparo, con le sue terribili conseguenze. Attorno al 1500
compare, infatti, un nuovo tipo di lesione, per la cura della quale non
si potevano consultare né i maestri greci, né quelli arabi: le ferite
provocate dalle armi da fuoco.
Nel Rinascimento la terapia delle ferite di arma da fuoco consisteva nel
curare tali ferite e le piaghe infette utilizzando sostanze fortemente
aromatiche (nelle quali talune moderne sperimentazioni hanno riscontrato
reali virtù antisettiche) e numerose specie odorose, che venivano
incorporate in unguenti, o diluite nelle cosiddette 'acque vulnerarie'.
Tuttavia, le principali 'confezioni farmaceutiche' usate a tale scopo
erano costituite da unguenti, che restavano perciò lungamente a contatto
con la ferita.
Tra le sostanze minerali sembra che, fino al secolo XVI, abbia avuto una
qualche importanza il sublimato corrosivo, la cui scoperta sarebbe
attribuita a quel Gerber, personaggio di fantasia, il quale, secondo
quanto narra la leggenda, fu il maggior alchimista arabo. Anche
l'alcool, a cominciare dal XVI secolo, trovò la sua applicazione nella
cura delle ferite, sia pure per uso che può essere definito 'personale'
da parte di alcuni chirurghi isolati, e non come sostanza generalizzata
nella tecnica corrente. Questo liquido veniva adoperato particolarmente
in guerra e trovò uno strenuo difensore nel Tachenius, il quale
affermava che fosse l' «aqua vite unicum balsamum incomparabile vulnerum
putridarum».
Dato che era convinzione diffusa che le lesioni da arma da fuoco non
fossero altro che un'intossicazione provocata dalla polvere da sparo,
per rendere innocuo il presunto veleno veniva versato olio bollente di
sambuco sulle ferite, secondo l'insegnamento di Giovanni de Vigo di Roma
(1450-1525).
Numerose sostanze, che oggi le moderne conoscenze ripudiano senza
remissione, venivano inoltre applicate alle ferite, maltrattate con
medicazioni illogiche, irrazionali e soverchiamente frequenti; anche il
sistema di fasciatura era irrazionale e permetteva che dall'esterno
giungessero sempre nuove fonti di infezione.
I maggiori chirurghi dell'epoca furono quindi i chirurghi militari, perché
le infinite guerre che insanguinarono l'Europa offrirono loro abbondante
materiale col quale fare esperienza. In questo periodo, la chirurgia non
compì grandi progressi, ma assisté alla comparsa di un grande
innovatore, destinato, grazie al carattere nobile e al fervore che lo
animava, a portare la sua arte a un livello mai prima raggiunto e a
meritare il titolo di 'Padre della chirurgia moderna'.
Ambroise Paré, figlio di un baulaio ugonotto, nacque nel 1510 a
Bourg-Hersent (Francia). Fece le sue prime esperienze a Laval, presso
Jean Vialot, mastro barbiere e chirurgo, e quindi all'Hòtel-Dieu, come
barbiere e infermiere. In questo Ospedale si esercitò sia nella
chirurgia, sia nell'anatomia, e nel 1536 iniziò la professione di
chirurgo e barbiere al seguito dell'Armata d'Italia, comandata dal
Maresciallo di Montjean. Da quel momento e per oltre trent'anni, con
saltuari intervalli di libertà, Paré visse la vita del soldato.
Chirurgo di quattro Re di Francia — Enrico II, Francesco II, Carlo IX ed
Enrico III — ne conquistò l'amore, il rispetto e onori, sia per sua la
grande perizia, sia per la sua profonda onestà e coscienziosità, tanto
da divenire amico e consigliere dei suoi Re. Carlo IX lo stimava a tal
punto che, nella tragica Notte di San Bartolomeo, volendolo salvare
(Paré era Ugonotto), lo fece nascondere nella sua alcova.
Quella di Paré fu soprattutto una pratica di guerra, dato il lungo
servizio svolto al seguito delle armate reali; a questa pratica bellica,
tuttavia, egli associò quella civile, espletata durante gli intervalli
concessigli tra una battaglia e l'altra (si pensi che Paré prese parte a
ben 45 battaglie e fatti d'arme).
Nei periodi di tregua esercitava la sua arte presso Hòtel-Dieu, dove aveva
iniziato la sua carriera e dove la concluse in qualità di Primario
chirurgo. In quei periodi egli riprendeva il corso della vita familiare
e, nella calma della sua casa, raccoglieva e attingeva al tesoro delle
osservazioni e delle esperienze fatte nel periodo delle guerre, per poi
riversarle nei suoi libri, scritti in lingua francese, perché, avendo
scarsa cultura umanistica, Paré non conosceva il latino.
Dalle esperienze fatte al seguito dell'esercito in guerra, Paré si rese
conto che le ferite guarivano meglio con la semplice fasciatura, che con
le applicazioni di olio bollente, o del ferro arroventato, allora in
uso. Da allora, propugnò una semplificazione dei sistemi curativi che
diede ottimi frutti. Nella cura delle ferite d'arma da fuoco fu
operatore ardito, in quanto introdusse la pratica della legatura delle
arterie nelle amputazioni, con formazione del lembo. Fu innovatore
insigne anche nel campo dell'ostetricia, ed è considerato uno dei
fondatori della moderna chirurgia.
In un intervallo tra due campagne scrisse il libro che è rimasto celebre:
Méthode de traicter les playes par arquebuses et autres bastons à feu,
che vide la luce nel 1545 e già conteneva il balenio della sua nascente
fama. Nel 1550, Paré scrive la Briefe collection de ladministration
anatomique, e nel 1563, al ritorno dalla spedizione di Le Havre,
cura la nuova edizione dei suoi Dix livres de chirurgie. Malgrado
l'opposizione dei chirurghi cattedratici, i quali non volevano
riconoscere in lui, barbiere, un collega degno di stare alla loro
altezza, il nostro chirurgo-barbiere seppe conquistarsi l'ammirazione e
la stima degli uomini del suo tempo, nonché delle generazioni future.
Nel 1554, egli fu nominato membro del Collegio dei Santissimi Cosma e
Damiano, nonostante l'opposizione di coloro che non gli perdonavano il
fatto di non conoscere il latino. Tutti i suoi scritti vennero raccolti
in un grosso volume di 945 pagine, dal titolo Euvres de monsieur
Ambrosie Pare, conseiller et prémier chirurgien du Roix, e
pubblicati a Parigi nel 1575 presso l'editore Gabriel Buon. Paré morì a
Parigi, nel 1590.
Secondo Haller, il Paré è riconosciuto come primo scrittore di materia
medico-legale, nonché di anatomia e chirurgia; nei suoi scritti riportò
anche osservazioni riguardanti la patologia delle dissezioni, che
effettuava quando se ne presentava l'occasione.
NOTE
1 -
Altero nella coscienza della sua superiorità di chirurgo e sprezzante
delle convenzioni (si vantava di essere un `chirurgo-barbierel il
francese Ambroise Paré (1510-1590) sapeva essere umile davanti alla
realtà delle cose. È sua la frase «Je le pensay, Dieu le guarit », che
sintetizza, oltre al modo di giudicare se stesso, anche tutta la
chirurgia dell'epoca. La sua opera Pratica in arte chirurgica copiosa,
pubblicata nel 1514, ebbe 40 edizioni in diverse lingue. Oltre al
rinnovamento apportato da Paré alla tecnica del trattamento delle ferite
da arma da fuoco (cfr. nota 2), è da ricordare anche la legatura dei
vasi, da lui eseguita nelle amputazioni, nonché l'opera svolta nel campo
dell'ostetricia.
2 -
All'epoca di Paré, le
ferite venivano trattate, per provocare la cicatrizzazione, con olio
bollente, che però spesso provocava anche una ustione. Tale indirizzo
venne seguito inizialmente anche dal giovane Paré. Ma durante la sua
prima campagna militare come chirurgo al seguito delle truppe francesi
(1536), una sera, dopo la conquista, costata notevoli perdite, di un
castello piemontese difeso dalle truppe imperiali, la sfortuna lo
sorprese: sicuramente non fu il primo medico militare al quale mancò
l'olio per i suoi trattamenti, ma egli però ebbe il coraggio di fidarsi
più della propria osservazione e riflessione che del manuale.
rinnovazione apportata da Paré alla cura delle ferite avvenne, dunque,
più per caso che per ragionamento. Sprovvisto di olio, egli fu costretto
a medicare con semplice «digestivo, composto di giallo d'uovo, miele
rosato e trementina». Ma la notte, lo confessa egli stesso, non poté
dormire, assillato dal pensiero di quei feriti che egli non aveva potuto
curare, come avrebbe voluto, seguendo l'usanza comune e persuaso che
quelle ferite fossero avvelenate, come tutti ancora credevano. Solo la
mattina, allorché si recò a visitare i suoi malati, e trovò in migliori
condizioni coloro che non avevano avuto la medicatura di olio bollente
in confronto di coloro che l'avevano subita, si persuase della bontà del
nuovo sistema, che il caso gli aveva offerto di provare, e se ne fece
solerte propugnatore e divulgatore.
3 -
I feriti erano molti, gli
ospedali piccoli e i chirurghi avevano dunque il loro da fare (sembra
che in particolar modo la crisi di sovraffollamento si facesse sentire a
Roma, dove la gente sparava e tirava di spada con eccessiva
disinvoltura).
Le specie aromatiche e le resine maggiormente usate come balsami erano:
mirra, mastice, verbena, bdellio, aristolochia, centaurea, ruta,
maggiorana, artemisia, rosmarino, ecc. A queste si aggiungevano: resina
di pino, pece navale, trementina, incenso, ecc. Le forme farmaceutiche
di composizione più in uso avevano i seguenti nomi: 'Unguento degli
Apostoli', 'Unguento Gratia Dei', 'Unguento di Betonica', ecc. Ma la
regina di tutti i medicamenti atti a sanare le ferite, fu certamente
l'Acqua Vulneraria', di invenzione più tarda rispetto ai medicamenti
citati. Non è possibile stabilire con esattezza l'epoca di nascita di
questo mirabile medicamento, ma fu certo il XVI secolo. Usato
principalmente per le ferite di archibugio (onde i Francesi lo
chiamarono 'Eau d'Arquebusade') esso era composto di una quarantina di
erbe odorose, infuse nel vino e distillate.
Il sublimato come sostanza disinfettante non fu usato che assai tardi. Ben
presto però il suo uso si estese nella terapia antiluetica in diverse
forme, fra cui è nota l'acqua alluminosa del Falloppio, composta di
allume, sublimato ed erbe. Tuttavia D. Giordano asserisce, con evidente
ragione, che i chirurgi «di buon'ora impararono a valersi della
proprietà antiputrefattiva dei sali metallici, primo fra tutti il
sublimato corrosivo, onde da chirurgi come Berengario da Carpi fu
adoperato il mercurio nella sifilide, perché lo avevano già visto
efficace in lesioni chirurgiche, riprodotte poi, con apparenza affine,
in manifestazioni sifilitiche».
4 -
All'ospedale della
Consolazione lavorava come chirurgo, all'inizio del XVII secolo, il
giovane Cesare Magati, nato a Scandiano nel 1579 e laureatosi
all'Università di Bologna; capitò a lui di fare un'osservazione di
eccezionale importanza, anche se a prima vista banale. Una giovanetta,
che presentava una ferita alla coscia non particolarmente grave, veniva
da lui quotidianamente medicata secondo la prassi normale; tali
medicazioni, che impedivano la cicatrizzazione, continuarono per mesi,
mettendo a dura prova la pazienza del medico. Il giovane Magati un bel
giorno la perse e cominciò a trascurare la sua malata («longae
curationis fastidio coepi alternis tantum diebus vulnus detegere») e
questa in pochi giorni guarì. In realtà, la povera gente, che veniva
spesso trascurata nelle medicazioni, guariva prima dei signori, curati e
tormentati ogni ora; fu allora che nacque il nuovo metodo di
medicazione, che si richiamava all'insegnamento di Teodorico e di Paré,
e che fu esposto nel libro De rara medicati one vulnerum seu de vulneri
bus rare tra ctandis, stampato nel 1616.
5 -
Il principio è infatti
quello ippocratico della forza guaritrice della Natura: «Medicus est
Naturae minister et adiutoh>. La Natura farà cicatrizzare la ferita e il
medico si limiterà a secondare il processo di guarigione; userà
medicazioni semplici e non troppo frequenti, evitando di disturbare
l'evoluzione normale con fregagioni, esposizioni all'aria,
raffreddamento. Apporrà un 'tegumento' per proteggere la parte, ma a
contatto con la ferita non sarà necessario mettere balsami né
cicatrizzanti, né estrattivi; saranno permessi farmaci semplici, tra i
quali lo zucchero, il miele, le acque termali salse e nitrose, come
quella del Tettuccio. Solo se la ferita mostra di seccarsi, si deve
applicare resina terebintata, acqua ardente, balsamo del Perù; la parte
deve essere mantenuta calda: perciò sui labbri della ferita si pone
dapprima un linteolum («panno di lino») piegato due, tre, quattro volte,
poi una imbottitura leggera di stoppa tenue, o lana molle, o, ancor
meglio, `gossipio', che sarebbe il lombace', la 'cotta', insomma il
cotone degli Egizi. Davide Giordano sembra incline ad attribuire al
Magati la priorità dell'uso del cotone nelle fasciatur; in ogni caso
Magati fu il primo a dargli dignità di impiego.
6 -
Di replicare a queste
innovazioni si prese l'incarico Daniel Sennert, professore di medicina a
Wittenberg, uno dei più famosi cimici dell'epoca, che biasimò il nuovo
andazzo di lasciar le ferite incurate e quasi trascurate sotto una
medicazione raramente rinnovata.
7 -
L'unione delle due
professioni, medico e chirurgo, era diventata assai frequente non solo
nella pratica, poiché tutti i grandi chirurghi italiani incontrati anche
in passato erano stati coltissimi medici, ma anche nei vari ordinamenti.
8 -
La 'spezieria' medievale
corrispondeva grosso modo alla moderna farmacia. Il farmacista di allora
vendeva, è vero, anche miele, zucchero, confetteria, cera; ma molti di
questi ingredienti rientravano nelle preparazioni farmaceutiche. I
compiti dello speziale erano però molto più complessi. Egli non poteva
limitarsi alla vendita dei preparati: procuratisi i medicamenti, doveva
compiere una serie di operazioni prima di poter mettere in vendita
sciroppi, unguenti, decotti, polveri, pillole e olii. Egli doveva, ad
esempio, ripulire le droghe, seccarle, salare per la conservazione
quelle animali, inumidirle, cuocerle, pestarle, macinarle, trarne i
succhi, distillarle e così via. Le droghe così preparate si conservavano
in casse, scatole di legno, sacchetti di tela o vasi di terracotta. I
liquidi già preparati erano contenuti in vasi di vetro o di terra, le
pillole in borse di cuoio. Nel Trecento si diffuse l'uso dei vasi da
farmacia di ceramica e maiolica, fra cui un tipo, di forma cilindrica a
bocca larga, detto 'alberello' e destinato ad accogliere sostanze
viscose. Gli strumenti di cui lo speziale aveva bisogno erano
molteplici: coltelli, forbici, grattugie per pulire e sminuzzare le
droghe, setacci e crivelli per ripulirle dalle impurità e raffinarle;
mortai e pestelli per pestarle; stufe, pentole, casseruole per cuocere e
amalgamare e così via.
9 -
A. Molfese, Capitoli e
Grazie concesse dai Principi Carafa ai cittadini di Sant'Arcangelo,
«Bollettino Storico della Basilicata», 7, 1991.
10 -
L'Università di Napoli fu
fondata da Federico II nel 1224, sebbene, secondo alcuni autori, egli
non fece altro che potenziare e incrementare scuole già esistenti fin
dall'epoca bizantina o da quella del normanno Ruggero. Tra i maestri che
vi insegnarono sono da ricordare in particolare Giovanni da Procida,
Giovanni da Casamicciola, Arnaldo da Villanova, Nicola da Reggio. Altri
Studi (poi Università) come quelle di Vercelli, di Roma, Perugia, Siena,
Pisa, Parma e non ultima Pavia, sorsero tra il 1200 e il 1400. Ricerche
approfondite hanno potuto accertare che fin dall'epoca di Lotario e
precisamente nell'anno 825 fu fondata in Pavia una scuola con apposito
capitolare.
11-
Salerno era allora un
porto fiorente e, distaccatosi dal Ducato Longobardo di Benevento,
crebbe di importanza; la leggenda vuole che i quattro medici Elino,
Ponto, Salernus e Adala, dessero vita alla prima scuola in Europa
specializzata nello studio della medicina, che nacque in ogni caso prima
del 848. È certo però che la Scuola di Salerno raggiunse la sua
autonomia sotto l'Arcivescovo Alfano verso il 1000; da allora la scuola
acquisì sempre maggiore importanza, molti insegnanti si succedettero
all'insegnamento, così come molti alunni si iscrissero ai corsi. A
cavallo del 1200 la Scuola acquistò fama per merito di due chirurghi:
Ruggero e Rolando, il primo autore della Practica Cyrurgiae, scritto
intorno al 1170 e il secondo, allievo del primo, autore del Lybellus de
Cyrurgiae (questi furono i testi più studiati e apprezzati fino al
Rinascimento). Dalla scuola venne fuori anche il Regimen Sanitatis
Salernitanum, il più famoso e popolare testo di medicina medievale. La
decadenza della Scuola iniziò nel 1224, quando Federico II fondò
l'Università di Napoli, ma nonostante ciò essa continuerà a rilasciare
diplomi in medicina, in fisica, filosofia e farmacia fino ai primi del
XIX secolo. Nel 1811, un decreto napoleonico la chiuse per sempre.
12 -
Con il decreto del 28
febbraio 1820, i Borbone avevano separato di fatto la medicina dalla
chirurgia. Ancora nei primi anni post-unitari venivano erogate
dall'Università di Napoli: una licenza in Medicina (che abilitava solo
all'insegnamento privato), dopo un anno la laurea di Dottore in Medicina
(che abilitava all'esercizio professionale), dopo un altro anno la
laurea di Dottore in Chirurgia. Negli ordinamenti del nuovo Stato
Italiano era caduta la doppia laurea in Medicina e Chirurgia, che aveva
caratterizzato dal 1820 l'Università di Napoli.
Con il regolamento Matteucci, del 1862, il titolo di Medico Chirurgo
diventò unico, come unica diventò la Facoltà su tutto il territorio
nazionale (Regio Decreto n. 842 del 14 ottobre 1862 "Regolamento
Generale delle Università del Regno di Italia firmato dal Ministro della
Pubblica Istruzione Carlo Matteucci" "Regolamento della Facoltà di
Medicina e Chirurgia", articolo 2).
13 -
`Norcini' erano gli
empirici che sapevano «trar la pietra di vescica» mediante il «taglio
delle parti di sotto» (cioè estrarre i calcoli vescicali mediante
incisione del perineo e litotomia). Il nome derivava dal fatto che i più
abili in tale manualità erano i 'sanaporci', originari dell'umbra Val di
Norcia, avvezzi a castrare i maiali per destinarli all'ingrasso e
pertanto in dimestichezza con le parti pudende. Ciò li rendeva anche
affidabili esecutori della castrazione dei fanciulli destinati, nelle
corti rinascimentali, a ingentilire i cori di cappella con le loro 'voci
candide'.
14
- Gli erbari o erboristi vendevano erbe mediche e pozioni; il popolo,
non potendosi permettere di pagare grosse somme al farmacista, si faceva
spesso curare da questi a prezzi più bassi.
15 - I
barbieri avevano innanzi alle loro botteghe vasi dipinti raffiguranti
degli asparagi, la figura di uomo nudo dalle cui vene zampillava sangue
e una sfilza di grossi molari. Erano tre emblemi delle loro facoltà e
uffici: cure in generali (foglie delle piante di asparagi), salassi
(uomo nudo) ed estirpazione di denti (sfilza di molari). I barbieri,
specie quelli bravi, oltre che tastare il polso e toccare la lingua
degli infermi, erano soliti ordinare e prescrivere medicine; sapendo
appena scrivere o non sapendo scrivere affatto dettavano la prescrizione
e la inviavano al farmacista presso cui erano conosciuti, e questi
spediva senza indugio il farmaco.
16 -
Fabricius (come già Paré)
enunciava con sollievo come, nelle amputazioni, la forte legatura
dell'arto, a monte del punto di ablazione, non solo impedisse
un'eccessiva perdita di sangue, bensì diminuisse anche la sensibilità al
dolore, grazie alla compressione dei nervi; Per il resto solo la
velocità dell'intervento permetteva di mantenere entro limiti
ragionevoli dolore e perdita di sangue. Un maestro dell'operazione del
calcolo vescicale come William Cheselden (1688-1752) eseguiva a Londra
questo intervento delicato in pochi minuti.
17 -
L'origine dell'uso di vescica di porco per fasciare il moncherino, se si
vuole accettare la tradizione, sarebbe la seguente. Nella complessa
procedura penale della Venezia seicentesca il supplizio di un condannato
avveniva in due tempi: si tagliava la mano sul luogo del delitto e la
testa tra le due colonne di Piazzetta San Marco; se la strada fosse
stata lunga, il malcapitato sarebbe morto dissanguato durante il
tragitto e un folto pubblico di appassionati si sarebbe perso un raro
spettacolo. Per bloccare l'emorragia il carnefice incappucciava il
moncherino con una vescica di porco e lo legava strettamente: sistema
che si dimostrava particolarmente utile quando il delinquente era
condannato solo al taglio della mano e non a morte. Sembra difficile
pensare che il metodo sia passato direttamente dai carnefici veneziani
ai chirurghi. Comunque Pietro Dionis, scelto dal Re di Francia per
dimostrare nel giardino reale le operazioni di chirurgia, a porte aperte
e gratuitamente, conservava nel proprio armamentario una vescica di
maiale nel cui fondo metteva polveri astringenti.
18 -
John Woodall, morto nel
1643, amputava gli arti nel modo classico, cioè praticando un taglio
circolare e cucendo una per una le arterie. James Yonge, chirurgo
generale della Marina britannica, pubblicò nel 1679 un trattato dal
titolo Nuova tecnica per l'amputazione e metodo di cura dei tronconi più
rapido e conveniente di quello comunemente in uso. Il metodo consisteva
nel preparare, prima di incidere la massa muscolare, un lembo di pelle
più lungo, da ricucire poi attorno al moncherino; era un gran passo
avanti, perché comportava la sutura della ferita al termine
dell'intervento, dopo aver superato il pericolo delle emorragie. Non vi
è comunque dubbio che gli operati, come accadeva sempre in tutte le
operazioni chirurgiche prima dell'antisepsi, morissero in buona parte
durante il decorso post-operatorio.
La trapanazione del cranio illustrata da una bella incisione nel Tractatus
completus de Vulneribus di John Browe (Londra 1678) mostra in primo
piano un trapano con punta intercambiabile; si vede assai bene la corona
dentata atta a praticare un foro circolare staccando un lembo d'osso
rotondo. La trapanazione, a giudicare dalla grande quantità di strumenti
costruiti a questo scopo, doveva essere frequente nel Seicento: veniva
usata per alleviare la compressione causata da traumi e per rimuovere
ematomi.
"Vesalio e l'Anatomia Umana"
SEGUE >>
|