[Articolo di Gordon Gaskill, pubblicato in "Selezione dal Reader's
Digest", Luglio 1962, pagine 11-16]
La misteriosa catastrofe del treno 8017
Quasi nessuno sapeva allora che cosa stesse accadendo e ancor oggi
nessuno sa con esattezza che cosa sia avvenuto; eppure quel disastro ha
fatto più vittime d'ogni altra sciagura ferroviaria.
Gordon Gaskill
Quando il treno 8017 transitò per i binari di smistamento della stazione
di Salerno, nella fredda e piovosa sera del 2 marzo 1944, nulla poteva
far pensare che fosse avviato a una catastrofe. Infatti l'8017 non ebbe
uno scontro, non deragliò, non s'incendiò né fu altrimenti sinistrato.
Eppure causò un numero di morti forse superiore a quello d'ogni altro
disastro ferroviario.
Sul treno 8017 c'era infatti un assassino: il carbone per la locomotiva.
Era di qualità scadente (c'era la guerra e il carbone scarseggiava) e la
sua imperfetta combustione dava talvolta origine a quantità anormali
d'ossido di carbonio, gas tossico e inodoro.
Il treno non avrebbe dovuto trasportare passeggeri. Ma, come molti altri
merci nella zona di Napoli lo faceva, perché a Napoli c'era poco da
mangiare. L'occupazione alleata, cinque mesi prima, aveva interrotto i
traffici tra la città e la campagna ed era sorta un'attivissima borsa
nera. Uomini, donne e bambini compravano (spesso dalle truppe alleate)
merci rare come sigarette e cioccolata e le portavano nelle campagne per
scambiarle con uova, olio, carne e simili che poi rivendevano a Napoli
con forte guadagno.
Una delle zone più battute dai trafficanti della borsa nera era la ricca
campagna intorno a Potenza, a 110 chilometri da Salerno, e siccome quasi
tutti gli automezzi civili erano stati requisiti o erano immobilizzati
per mancanza di carburante, l'unico modo d'arrivarci era il treno: di
solito un merci. Naturalmente non tutti i passeggeri abusivi dell'8017
erano borsisti neri. Alcuni erano uomini o donne che andavano a cercare
viveri per la loro famiglia. Alcuni erano persone costrette a viaggiare
e che non avevano trovato altri mezzi.
L'8017 era un lungo convoglio di 47 vagoni, una ventina dei quali
scoperti. Ma soltanto 12 erano carichi; gli altri erano vuoti, aggiunti
per riportare indietro merci e materiale militare.
Al nodo di Battipaglia, la polizia militare americana fece scendere
molti passeggeri abusivi che protestarono... ma che in seguito avrebbero
ringraziato la Provvidenza.
Alle 19.12 il treno arrivò a Eboli dove salirono circa altri l00
abusivi. Poi a Persano ne montarono almeno altri 400, pigiandosi nei
carri vuoti e riempiendo ogni più piccolo spazio dei vagoni carichi di
merci.
A quel punto l'8017 aveva a bordo tra 600 e 650 viaggiatori abusivi. E a
Romagnano - tra le montagne e a soli 43 chilometri dalla meta - fu
agganciata in testa una seconda locomotiva.
Alle 23.40 il treno partì faticosamente da Romagnano. Dopo soli sei
chilometri e mezzo si fermò in una sperduta stazioncina il cui nome
doveva divenire tristemente famoso negli annali delle ferrovie: Balvano.
Il treno che precedeva sull'unico binario aveva noie alla locomotiva e
mentre l'8017 aspettava d'aver via libera il suo personale di macchina
provvide ad aumentare la pressione delle caldaie nelle due locomotive in
vista della prossima salita.
Cominciò a profilarsi a quel punto l'ombra del disastro. La stazione di
Balvano (il paese è lontano circa tre chilometri e mezzo) è situata in
un breve tratto fra due gallerie. L'8017 era tanto lungo che la metà dei
vagoni era rimasta dentro la galleria in discesa dove stagnava ancora il
fumo delle due locomotive. Non tirava neppure un alito di vento che lo
disperdesse.
Così, per tutti i 38 minuti della fermata, la metà dei passeggeri
respirarono fumo e gas. Ma i più dormivano, ignari del pericolo.
Infine alle 0.50, i due macchinisti allentarono i freni, spinsero le
leve dell'acceleratore e l'8017 s'infilò nella galleria in salita. Il
capostazione di Balvano batté al telegrafo il segnale di partito al suo
collega della stazione successiva, Bella-Muro. L'8017 sarebbe dovuto
arrivare a Bella-Muro, lontana meno d'otto chilometri, in circa 20
minuti dopo di che il capostazione avrebbe telegrafato a Balvano il
segnale giunto.
Ma il giunto non arrivò dopo 20 minuti né dopo 60... né mai. Il
territorio tra Balvano e Bella-Muro è aspro e selvaggio, solcato dalla
gola di un tortuoso torrente, il Platano. Tra le due stazioni non ci
sono strade; l'intero tratto è un seguito di gallerie e di viadotti. Il
Monte delle Armi è forato dal più lungo tunnel della linea, la Galleria
delle Armi, rettilinea, lunga poco più di un chilometro e mezzo, e in
forte pendenza. Era passata da poco l'una quando il treno entrò nella
Galleria delle Armi.
Quel che avvenne di preciso nella galleria nessuno lo sa né lo saprà
mai. Tutt'e due i macchinisti morirono al loro posto di guida.
Nell'orrore e nella confusione, i superstiti ricordarono ben poco
d'importante. I soli fatti accertati sono questi: quando le due
locomotive giunsero a metà galleria, le ruote motrici della macchina di
testa cominciarono a slittare. Il macchinista sparse sabbia sulle
rotaie, ma senza risultato. Le ruote non esercitavano più trazione: il
treno si fermò. Poi arretrò di qualche metro (quanto bastò perché gli
ultimi tre vagoni uscissero all'aria aperta all'imbocco più basso della
galleria) e si fermò di nuovo, questa volta definitivamente.
Tutto il resto è congettura. I soli indizi esistenti lasciano perplessi.
La locomotiva di testa fu trovata non frenata, con la leva di comando
sulla retromarcia. La seconda locomotiva, invece, fu trovata frenata,
con la leva di comando tutta spinta in avanti. A quanto pare, quando il
treno si fermò, i due macchinisti la pensavano in modo fatalmente
diverso sul da farsi.
Dai fumaioli delle locomotive, con il personale di macchina morto o
moribondo, il fumo continuò senza dubbio a venir fuori. Man mano che
nell'aria della galleria diminuiva l'ossigeno, il fumo conteneva una
quantità sempre maggiore d'ossido di carbonio. Come un rettile
mostruoso, il fumo e il gas serpeggiarono a ritroso nella galleria,
uccidendo silenziosamente centinaia di persone.
Molto addietro alle locomotive che si sforzavano invano di rimettersi in
moto, i pochi viaggiatori ancora svegli si resero conto della fermata.
Come i passeggeri di qualsiasi treno, i più pensarono che i ferrovieri
sapessero quel che facevano e attesero pazientemente. Ma un giovanotto,
certo Francesco Imperato, quando cominciò a tossire e a soffocare,
propose al cugino d'avviarsi a piedi verso l'uscita della galleria.
Il cugino obiettò: «Come facciamo a sapere qual è l'uscita più vicina?
Aspettiamo a vedere quel che avviene.»
Francesco decise d'andare da solo. S'alzò... e da quel momento non
ricorda più nulla fino a quando riprese i sensi qualche ora dopo alla
stazione di Balvano. Probabilmente era arrivato tanto vicino all'aria
fresca da potersi salvare. Il cugino morì.
Domenico Miele era in un vagone vicino alla coda del treno, ma ancora
dentro alla galleria. Quando il fumo divenne eccessivo, s'avvolse la
sciarpa intorno alla bocca e al naso, scese dal vagone e cominciò a
camminare verso la coda. Era appena arrivato allo sbocco del tunnel
quando si sentì mancare. Temendo di rimanere a terra se il treno fosse
ripartito, salì semistordito sul vagone più vicino, un carro merci
scoperto, il terzo dalla coda del treno, metà dentro e metà fuori la
galleria. Miele non s'accorse più di nulla finché anche lui rinvenne la
mattina dopo a Balvano e scoprì che i capelli da neri gli erano
diventati grigi.
In quello stesso carro scoperto, il terzo dalla coda, c'era Luigi
Cozzolino. Questi dormiva e così il suo figliuolo dodicenne. A un certo
momento di quella terribile notte Cozzolino si svegliò e s'avvide che il
figlio era morto. Per un bel pezzo rimase inebetito dall'orrore...
incapace di pronunziar parola.
I viaggiatori degli ultimi due vagoni erano rimasti completamente fuori
della galleria. Sebbene indeboliti e semisvenuti per la fermata di 38
minuti entro la galleria di Balvano, soltanto pochi morirono; gli altri
dormirono un sonno profondo, quasi ipnotico.
Sull'undicesimo vagone dalla coda, ben addentro la micidiale galleria,
viaggiava Giuseppe De Venuto, un operaio delle ferrovie che faceva da
frenatore. Si stupì nel sentire il treno fermarsi, arretrare a scossoni
e fermarsi di nuovo. Quando il fumo divenne insopportabile, scese dal
treno e si diresse verso l'uscita della galleria dove trovò il frenatore
Roberto Masullo steso a terra, stordito e colto da malore. De Venuto
aveva capito ormai quale sorte fosse toccata a quasi tutte le centinaia
di persone rimaste nella galleria. Masullo, che era un suo superiore,
disse a De Venuto di correre subito a Balvano per dar notizia
dell'accaduto.
Arrivare fin lì fu un incubo. Era buio pesto e De Venuto non aveva
lampadina: l'unica strada era quella sui viadotti e attraverso le
gallerie che puzzavano ancora di fumo. Trascinandosi carponi,
semisvenuto, nauseato dal fumo e dall'orrore, procedé metro per metro
verso Balvano.
Di tutte le cose incredibili di quella notte incredibile, nulla lo é più
del tempo che occorse ai capistazione di Balvano e di Bella-Muro per
chiedersi che cosa facesse ritardare tanto l'8017. Soltanto alle 2.40 -
quasi due ore dopo che il treno era ripartito da Balvano - i
capistazione conclusero che ci dovesse essere qualcosa d'anormale. Ma
poi si dissero che avrebbero potuto fare ben poco in merito: ci sarebbe
voluta una buona ora di cammino per arrivare al treno e un'altra ora per
tornare indietro.
Alle 5.10 De Venuto entrò barcollando nella stazione di Balvano, agitò
un braccio in direzione dei binari e disse con voce rotta: «Là, là, sono
tutti morti, tutti morti!». Poi svenne.
Sgomento, il capostazione di Balvano spedì dispacci a tutte le autorità
possibili e immaginabili: alla Croce Rossa, ai carabinieri, al municipio
di Balvano, alla sede del Governo Militare Alleato a Potenza. I primi
carabinieri e funzionari che arrivarono dal paese di Balvano fecero
staccare una locomotiva da un altro merci e si diressero al treno della
sciagura. I fanali di testa della loro macchina illuminarono una macabra
scena: corpi senza vita stesi sulle rotaie. Li trassero da parte,
agganciarono l'8017 e lo rimorchiarono a Balvano. Qui, finalmente,
videro quali fossero le proporzioni spaventose del disastro.
In un vagone i corpi delle vittime erano talmente ammassati che non si
riusciva a far scorrere lo sportello. Bisognò squarciarlo.
I volti dei morti erano per lo più sereni. Un colonnello dell'esercito
americano, giunto sul posto poco dopo, raccontò in seguito: «Non
mostravano il minimo segno di sofferenza. Molti erano seduti con il
busto eretto o nella posizione che si assume quando si dorme
normalmente». Parecchi avevano tracce di sangue rosso vivo intorno alle
narici. Questo colore rosso vivo del sangue è un segno sicuro
dell'avvelenamento da ossido di carbonio.
A poco a poco, il macabro carico di cadaveri fu tolto dai vagoni e
deposto sul marciapiede della stazione. Autocarri militari alleati
venuti da Potenza aiutarono a trasportare d'urgenza i superstiti agli
ospedali, e più tardi compirono il più penoso servizio di portare i
cadaveri al cimitero di Balvano per la sepoltura in tre fosse comuni,
due per gli uomini e una per le donne. Delle centinaia di morti che vi
furono sepolti, quasi 200 non furono mai identificati.
Quante furono le vittime della sciagura di Balvano? La cifra più
probabile è 425, benché alcuni l'abbiano fatta salire a oltre 600.
Tuttavia, nonostante il numero dei morti, il tremendo disastro passò
quasi inosservato a quell'epoca. A Napoli c'era un solo giornale
autorizzato dagli Alleati e i censori permisero di pubblicare soltanto
una vaga notizia in cui si diceva che un numero non specificato di
persone era morto per asfissia «in una località dell'Italia
Meridionale». I giornali degli Stati Uniti menzionarono brevemente il
fatto il 23 marzo, quando una commissione militare d'inchiesta americana
presentò la sua relazione. Funzionari militari delle ferrovie la
definirono «la più insolita e spaventosa catastrofe nella storia delle
ferrovie».
Quanti furono i superstiti? Probabilmente da 100 a 200: molti non
dichiararono d'essere scampati al disastro per timore delle pene
previste per i viaggiatori abusivi.
Dopo la sciagura, le ferrovie alleggerirono di molto i treni che
attraversavano la Galleria delle Armi. Fu stabilito un servizio di
vigilanza diurno e notturno allo sbocco in discesa della galleria, con
un collegamento telefonico per Balvano. Al passaggio d'ogni treno, ogni
altro traffico su quel tratto di linea era sospeso finché la guardia
comunicava per telefono che, guardando attraverso la galleria, vedeva la
luce all'altra estremità: il che significava che il fumo si era disperso
a sufficienza per lasciar passare altri treni. Nel 1959 questa
precauzione fu abolita perché le ferrovie provvidero a mettere in
servizio su quella linea locomotive diesel-elettriche.
Il governo ha indennizzato le famiglie delle vittime. E tutti gli anni,
il 2 novembre, giorno dei Morti, ci sono famiglie napoletane che vanno a
deporre fiori sulle fosse comuni di Balvano. Una madre mi ha detto: «Non
so di preciso dov'è sepolto mio figlio, ma so che è vicino ai miei
fiori».
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[Articolo di Cenzino Mussa, pubblicato in "Famiglia Cristiana", 4
marzo 1979, pagine 40-46]
Nel marzo del 1944 più di 500 persone che erano salite su un
convoglio merci perirono avvelenate dall'ossido di carbonio in una
galleria tra Balvano e Bella-Muro in Lucania. Le circostanze in cui
avvenne questa sciagura non sono state mai chiarite completamente. Le
responsabilità del comando d'occupazione Alleato.
Rievochiamo la più spaventosa sciagura ferroviaria italiana. E la morte
scese sul treno.
di Cenzino Mussa / foto di Angelo del Canale
Balvano, febbraio
"L'agenzia Reuter comunica da Napoli che 500 italiani sono periti
venerdì mattina per asfissia in una galleria ferroviaria dell'Italia
meridionale. Altre 49 persone sono degenti all'ospedale. Per mancanza di
treni viaggiatori un gran numero di persone era salito su un merci
diretto a oriente, stipando i carri aperti che lo componevano.
Nell'attraversare una galleria, il treno che già procedeva assai
lentamente, rallentava ancora la marcia, sicché il denso fumo che
ingombrava la galleria stessa in seguito al passaggio di altri convogli
provocava la soffocazione della maggior parte dei disgraziati
viaggiatori". (Dal Corriere della Sera, 6 marzo 1944).
Un titolo in colonna, ventidue righe di giornale per cinquecento morti.
Poi il silenzio. È la più grave sciagura ferroviaria italiana, ma ancora
oggi sfugge ad ogni statistica. Nessuno sa con esattezza il numero delle
vittime, nessuno potrebbe giurare sulle responsabilità. Le montagne
della Lucania e "ordini superiori" si accordarono per seppellire nel
silenzio una storia fatta di fame e di paura. A trentacinque anni di
distanza riaffiorano frammenti di testimonianze e indiscrezioni sulle
inchieste che allora furono condotte cautamente e poi archiviate.
Abbiamo sfogliato documenti "segreti" quasi consunti dal tempo, abbiano
ascoltato superstiti e soccorritori di quel treno maledetto.
È un giallo angoscioso che comincia una sera piovosa del '44, l'anno più
nero del secolo. Gli alleati sono fermi a Cassino e combattono sul
fronte di Nettuno. Non si canta più "Vincere" da quando in montagna
"fischia il vento", ma si continua a morire di qua e di là della Linea
gotica. Scontri, bombardamenti, fame, crudeltà: sono gli spettri di
questi mesi.
Ha l'aria di essere uno spettro anche Mussolini. Abita a Villa
Feltrinelli, a Gargnano. Il primo marzo, nel sesto anniversario della
morte di D'Annunzio, va a rendere omaggio alla tomba del "compagno
d'arme". I giornali del Nord gli dedicano un titolo a cinque colonne.
Bastano cinque righe per "un altro bombardamento su Roma". Il giorno
dopo, Goebbels lancia un proclama: "La vittoria tedesca rappresenta una
certezza". Altre notizie sul Corriere (30 centesimi, due pagine) del 2
marzo: pioggia di bombe su Londra, "infruttuosi attacchi dei bolscevichi
sul fronte orientale", catturati due ladri di biciclette, si autorizza
ad attingere l'acqua salsa del mare per usi alimentari. Sugli annunci
pubblicitari si legge: bar centralissimo, forti incassi, cedesi, un
milione; sinistrato acquista armadio occasione; privato vende scarpe
seminuove. Le scarpe hanno suole vibram, a "carro armato"; molti devono
ricorrere a ritagli di copertone. Al posto della lana, è in commercio un
tessuto autarchico che punge come le ortiche; la biancheria è di rayon.
Con le tessere annonarie è quasi impossibile vivere. Si deve ricorrere
alla "borsa nera". Così i fagioli da 5,24 lire al chilo salgono a 20
lire; un litro d'olio costa cento lire contro le 14 del prezzo
ufficiale.
I borsari neri fanno la spola tra la campagna e la città. Qualcuno ha
l'autocarro a carbonella. I tendoni nascondono a fatica sacchi di farina
e damigiane di vino. Gli italiani del Nord dormono male per le
incursioni di "Pippo", un monomotore che sgancia bombe e mitraglia a
bassa quota. C'è chi preferisce il cinema ai rifugi antiaerei e va a
vedere Luisa Ferida e Gino Cervi in Tristi amori, oppure Alida Valli e
Amedeo Nazzari in Apparizione. L'insonnia è provocata anche dalla fame.
A Napoli, il Vesuvio fuma. I1 15 febbraio è distrutta l'abbazia di
Montecassino. Agli inizi di marzo scatta l'operazione Strangle, che
intende spezzare i collegamenti tra il Nord e il Sud dell'Italia. Gli
scali ferroviari di Roma, Padova, Verona, Bologna, Vicenza, Milano e
Bolzano sono fra gli obiettivi più colpiti. Le ferrovie al Sud sono uno
sfacelo. Dal primo ottobre dell'anno precedente, quelle del
compartimento di Napoli sono state assunte direttamente dal Governo
militare alleato (A.M.G.) che le terrà in gestione sino a luglio del
'44. La direzione è affidata al 727º battaglione ferroviario.
Il treno merci n. 8017, su ordine del Comando alleato, era diretto a
Potenza per caricare legname già preparato dall'American Corps of
Engineers, necessario per la ricostruzione di ponti nella zona di
combattimento. È il tramonto, quando si muove dal piazzale Garibaldi. Un
convoglio lunghissimo: 47 carri, una ventina dei quali scoperti. Borsari
neri, impiegati e studenti lo prendono subito d'assalto. È proibito
salire sui merci, ma i tempi sono quelli che sappiamo: si chiude un
occhio, anche due. Il mercato nero, visto con lo stomaco pieno, è
deprecabile; visto con il terrore della farne, lo è molto meno. E poi la
maggior parte dei viaggiatori non sono "borsari neri", ma poveretti che
vanno a cercare cibo per le loro famiglie. Alcuni sono persone costrette
a viaggiare e che non hanno trovato altri mezzi.
Napoli scompare in una schiuma di luci riflesse nel mare color lavagna.
Stazione per stazione l'8017 calamita e risucchia file pazienti di
viaggiatori, ai quali nessuno si oppone, neppure la scorta militare,
composta da un ufficiale e sette soldati italiani. I fuochisti buttano a
palate il carbone sotto la caldaia, e la corsa affannosa riprende.
Nocera, Salerno, Battipaglia. Alle 19.12 il treno arriva a Eboli, dove
salgono cento abusivi, tra gli altri il professor Vincenzo Iuta,
dell'Università di Bari, con una decina di studenti.
E via arrancando nella notte umida e fredda. Sicignano, Buccino,
Romagnano al Monte, sotto il suo pugno di case inchiodato alla roccia
nella paurosa fenditura che s'apre sull'ultima valle del Salernitano,
tredici chilometri prima della "galleria delle armi" che diventerà la
"galleria della morte".
A Romagnano il treno ha almeno 650 viaggiatori clandestini. Qui viene
agganciata in testa una seconda locomotiva, del tipo 476. di alta
montagna, uguale a quella di spinta. Entrambe sono alimentate da carbone
iugoslavo, fornito dagli stessi Alleati, di scarso potere calorifico
(carbone non maturo) con alta percentuale di scorie. È un tipo di
carbone che nella combustione sprigiona gas letali, come l'ossido di
carbonio.
Alle 23.40 il treno lascia Romagnano. Alle 0.12 si ferma sotto la
galleria, cento metri prima d'una sperduta stazioncina di montagna,
Balvano. Un treno che precede il merci sull'unico binario lamenta un
guasto alla locomotiva, così l'8017 aspetta d'aver via libera per metà
ancora nella galleria dove stagna il fumo. Non tira un alito di vento,
comincia a nevicare. Per i trentotto minuti di attesa, i passeggeri
respirano fumo e gas. I più dormono, ignari del pericolo, vinti dalla
stanchezza. Finalmente, alle 0.50, i due macchinisti allentano i freni,
spingono le leve dell'acceleratore e il convoglio, superata la stazione,
si infila nella galleria in salita. Il capostazione di Balvano, Vincenzo
Maglio, batte al telegrafo il segnale di "partito" al suo collega della
stazione successiva, Bella-Muro.
Tra Balvano e Bella-Muro ci sono otto chilometri. I binari s'insinuano
fra gole aspre, solcate da un torrente tortuoso, il Platano. L'intero
tratto è un susseguirsi di gallerie e viadotti. Il merci supera la prima
galleria, poi la seconda, quindi un tratto all'aperto, in una forra, e
infine ecco la "galleria delle armi", lunga 1692 metri, con una pendenza
che raggiunge il 13 per mille. Il treno percorre i primi duecento metri,
poi le ruote non mordono più le rotaie, girano a vuoto. Altro carbone,
altra pressione nelle caldaie, ma sui binari viscidi di neve, le ruote
vorticano come girandole. L'8017 arretra di qualche metro (quanto basta
perché gli ultimi tre vagoni escano all'aria aperta all'imbocco della
galleria) e si ferma di nuovo, definitivamente. Tutto il resto è
congettura. Molti indizi lasciano perplessi. La locomotiva di testa
viene trovata con la leva di comando sulla retromarcia, la seconda con
la leva di comando spinta in avanti. Evidentemente quando il treno s'era
fermato, i due macchinisti, che non potevano comunicare fra di loro, la
pensavano in modo fatalmente diverso sul da farsi. Facile immaginare la
scena. Come un rettile mostruoso, il fumo e il gas serpeggiano a ritroso
nella galleria e uccidono silenziosamente centinaia di persone. Un
terrore senza bombe, senza grida, con cinque, sei cori di rantoli
soffocati. La maggior parte dei viaggiatori passa dal sonno alla morte.
Restano alcune testimonianze. In un carro c'è Luigi Cozzolino. Dorme
accanto al figlio dodicenne. Ad un tratto si sveglia e s'accorge che il
bambino è morto. Rimane inebetito dall'orrore, incapace di aprir bocca,
poi si lascia cadere dal treno e si trascina all'aria aperta.
Ciro Pernace aveva 19 anni e faceva il contadino a Torre del Greco. Su
quel treno era salito a Salerno. Andava a Bella-Muro in cerca di farina,
o di «qualsiasi altra cosa da mettere sotto i denti». Racconta: «Eravamo
cinque fratelli, la fame ci faceva sragionare, avevamo mangiato tutto
quello che c'era, persino i semi. Su quel treno m'ero addormentato con
una mantellina militare avvolta sulla testa. Mi sono svegliato
all'ospedale di Potenza. Mi dissero che la mantellina aveva fatto da
filtro. Non ricordo altro. Da allora la capa non funziona più».
Sull'undicesimo vagone, ben dentro la galleria, viaggiava Giuseppe De
Venuto, un operaio delle ferrovie che faceva da frenatore. Si stupì nel
sentire il treno fermarsi, arretrare a scossoni e fermarsi di nuovo.
Scese dal treno, si diresse verso l'imbocco del tunnel dove trovò il
frenatore Roberto Masullo, stordito dal gas. Capì che doveva avvertire
subito il capostazione di Balvano. Semisvenuto, nauseato dal fumo,
l'operaio cominciò ad avanzare carponi lungo i binari. Un altro
ferroviere lo aveva preceduto: Michele Palo. Nella cabina di coda stava
bruciando stoppie e giornali per scaldarsi, quando si sentì soffocare.
Si rese conto della tragedia, chiamò qualche nome e corse. Ma le forze
non gli bastarono, e soltanto dopo due ore poté scorgere le luci della
stazione di Balvano. Stava annaspando un'altra locomotiva in pressione.
Avevano già saputo. Prima di svenire disse: «Là sono tutti morti». Erano
le tre passate. La locomotiva sotto pressione, staccata per ordine di
Giuseppe Salonia, il vicecapostazione, apparteneva ad un altro merci
(8025) che era giunto in orario, ma aspettava il permesso di proseguire
per Bella-Muro.
Di tutte le cose incredibili di quella notte incredibile nulla lo è di
più del tempo che occorse ai capistazione di Balvano e di Bella-Muro per
chiedersi che fine avesse fatto il merci n. 8017. Soltanto intorno alle
2.50 Salonia aveva ricevuto una telefonata dal collega che chiedeva
spiegazioni. Aveva risposto che sarebbe andato di persona a rendersi
conto dell'accaduto. Alle 5.10 il merci 8017, diventato un'immensa bara,
era rimorchiato a Balvano. In un vagone i corpi delle vittime erano
talmente ammassati che non si riuscì a far scorrere lo sportello.
Bisognò squarciarlo. I volti erano sereni. Un colonnello dell'esercito
americano raccontò in seguito: «Non mostravano il minimo segno di
sofferenza. Molti erano seduto con il busto eretto o nella posizione di
chi dorme tranquillo».
Balvano, 2480 abitanti, 32 chilometri da Potenza, 425 metri
d'altitudine, è un paesino povero e bello, fra querce e ulivi, incassato
fra le montagne. Un paese di emigranti (più di mille persone se ne sono
andate dal '44) e di gente generosa. Quel mattino di marzo don Pacelli,
il vecchio parroco, suonò le campane e uomini e donne scesero di corsa
verso la stazione. Allinearono i cadaveri sulla pensilina, portarono i
primi soccorsi a quelli che erano ancora in vita. C'era il medico
condotto, Orazio Pacella, che adesso ha ottant'anni ed è malato, ma non
può dimenticare quel giorno. Racconta: «Un silenzio irreale, la neve e
tutti quei poveretti. Mostrai ai ferrovieri e ai contadini come si fa la
respirazione bocca a bocca. Avevo solo cento fiale di adrenalina, non
potevo permettermi di sbagliare. Saltavo da una vettura all'altra,
cercavo un cenno di vita nei riflessi oculari, poi facevo l'iniezione al
cuore. Nessun altro medico per tutta la mattinata. Poi arrivarono le
autorità da Potenza con una dottoressa americana. Allontanarono tutti,
anche me. Ne avevo salvati 51, mi restavano 49 fiale, avrei potuto
salvarne altri. Protestai, Dio mio, fatemi salvare altre vite. Mi
cacciarono. E questo è il tormento che mi accompagna da quel giorno.
Dissero che qualche vittima era stata spogliata delle poche cose che
aveva. Non è vero, non c'erano sciacalli fra di noi. C'era soltanto
brava gente che dava una prova di solidarietà umana".
Le vittime furono dapprima trasportate nella ex casa del fascio, poi
sepolte in tre fosse comuni nel piccolo cimitero del paese. Quanti i
morti? Su alcuni documenti si legge: 425. Su altri, 521. Su un vecchio
registro comunale c'è l'elenco dei corpi identificati: 429. La cifra più
probabile è quella scolpita su una lapide al cimitero di Balvano: 509, e
cioè 408 uomini e 101 donne.
Fu ritenuto un evento bellico
Dopo una tortuosa e lunga vicenda giudiziaria, i parenti delle vittime
hanno ottenuto un risarcimento (circa trecentomila lire) con una
sentenza che ha inserito la vicenda del treno n. 8017 tra gli "eventi
bellici" e ha fatto valere la legge speciale (N. 10, del 9 gennaio 1951)
di cui è competente il Tesoro e in base alla quale "viene concessa
un'indennità per danni immediati e diretti causati da atti non di
combattimento, dolosi o colposi, delle Forze armate alleate".
È dunque agli Alleati che si deve attribuire l'intera responsabilità
della tragedia? In una pratica ingiallita dell'Avvocatura di Stato è
riportata la deposizione di un funzionario in carriera all'epoca della
Amgot, dove si dice: "Tutti gli ordini relativi all'organizzazione, al
movimento e ai servizi giungevano direttamente dal MRS (Military
Railways Service), ossia dal generale Gray e dal col. Horek". Nella
stessa pratica è riportata la deposizione dell'allora sindaco di
Balvano. Nella sua qualità di ufficiale di pubblica sicurezza, il
sindaco aveva iniziato un'inchiesta per accertare le responsabilità del
disastro: ne fu distolto da un perentorio ordine delle autorità alleate.
Ci furono altre indagini, l'ultima condotta dal giudice del tribunale di
Potenza. Ma nel '46 l'intera pratica veniva archiviata, non "essendo
stati riconosciuti gli estremi del reato". Se una donna, Luisa Cozzolino
vedova Palombo, non avesse iniziato un'azione per risarcimento danni,
citando le Ferrovie dello Stato, forse nessuno avrebbe più sentito
parlare dei 500 morti nella "galleria delle armi". Luisa Cozzolino fu la
prima. Poi presso il tribunale di Napoli, alla sua si aggiunsero le
citazioni di trecento famiglie: per la perdita del marito, del fratello,
della sorella, della madre, del padre, del figlio, della figlia. Tutti
deceduti sul treno n. 8017.
L'assassino fu il carbone? In una relazione inviata dal ministro dei
Trasporti a quello del Tesoro, nel gennaio del 1952, si legge: "Il treno
si fermò perché il macchinista fu colpito dalle tossiche esalazioni dei
prodotti gassosi della combustione del carbone, particolarmente ricco di
ossido di carbone. In proposito vale notare che, da parte del Comando
alleato, venne imposto l'uso di tale carbone, assolutamente inadatto per
le locomotive allora in esercizio". Anche gli Alleati condussero una
inchiesta (affidata ai capitani Osborn e Gilberston dell'armata
francese), ma i risultati non furono mai resi noti. Della tragedia si
occupò il Times nel '51, e scrisse che "il Governo alleato si sforzò di
occultare l'incidente per evitare l'effetto deprimente sul morale degli
italiani".
La storia del treno maledetto non finisce qui. Per molti anni vedove e
orfani non hanno avuto neppure una tomba sulla quale piangere. Adesso
nel cimitero di Balvano c'è una cappella di marmo fatta costruire, per
tutte le vittime, da un uomo generoso. Si chiama Salvatore Avventurato,
ha 49 anni, gestisce un distributore di benzina a San Giorgio a Cremano,
abita a Torre del Greco insieme con la moglie e tre figli. Su quel
treno, Avventurato ha perso il padre Agostino, il fratello Vincenzo e
uno zio, Antonio Luna. Anche loro erano saliti sul merci 8017 per
sfamare le famiglie. Salvatore Avventurato è uno che la fame l'ha
sofferta davvero. E dopo la guerra ha fatto mille mestieri, lavorando
giorno e notte. A sua madre aveva promesso la tomba per quei poveretti.
L'ha costruita un po' per volta, fra mille difficoltà. "Si posavano i
fiori in terra, si camminava sui morti, era straziante. Almeno riposino
in pace...".
Cenzino Mussa
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