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[Articolo di Gordon Gaskill, pubblicato in "Selezione dal Reader's Digest", Luglio 1962, pagine 11-16]



La misteriosa catastrofe del treno 8017

Quasi nessuno sapeva allora che cosa stesse accadendo e ancor oggi nessuno sa con esattezza che cosa sia avvenuto; eppure quel disastro ha fatto più vittime d'ogni altra sciagura ferroviaria.

Gordon Gaskill



Quando il treno 8017 transitò per i binari di smistamento della stazione di Salerno, nella fredda e piovosa sera del 2 marzo 1944, nulla poteva far pensare che fosse avviato a una catastrofe. Infatti l'8017 non ebbe uno scontro, non deragliò, non s'incendiò né fu altrimenti sinistrato. Eppure causò un numero di morti forse superiore a quello d'ogni altro disastro ferroviario.

Sul treno 8017 c'era infatti un assassino: il carbone per la locomotiva. Era di qualità scadente (c'era la guerra e il carbone scarseggiava) e la sua imperfetta combustione dava talvolta origine a quantità anormali d'ossido di carbonio, gas tossico e inodoro.

Il treno non avrebbe dovuto trasportare passeggeri. Ma, come molti altri merci nella zona di Napoli lo faceva, perché a Napoli c'era poco da mangiare. L'occupazione alleata, cinque mesi prima, aveva interrotto i traffici tra la città e la campagna ed era sorta un'attivissima borsa nera. Uomini, donne e bambini compravano (spesso dalle truppe alleate) merci rare come sigarette e cioccolata e le portavano nelle campagne per scambiarle con uova, olio, carne e simili che poi rivendevano a Napoli con forte guadagno.

Una delle zone più battute dai trafficanti della borsa nera era la ricca campagna intorno a Potenza, a 110 chilometri da Salerno, e siccome quasi tutti gli automezzi civili erano stati requisiti o erano immobilizzati per mancanza di carburante, l'unico modo d'arrivarci era il treno: di solito un merci. Naturalmente non tutti i passeggeri abusivi dell'8017 erano borsisti neri. Alcuni erano uomini o donne che andavano a cercare viveri per la loro famiglia. Alcuni erano persone costrette a viaggiare e che non avevano trovato altri mezzi.

L'8017 era un lungo convoglio di 47 vagoni, una ventina dei quali scoperti. Ma soltanto 12 erano carichi; gli altri erano vuoti, aggiunti per riportare indietro merci e materiale militare.

Al nodo di Battipaglia, la polizia militare americana fece scendere molti passeggeri abusivi che protestarono... ma che in seguito avrebbero ringraziato la Provvidenza.

Alle 19.12 il treno arrivò a Eboli dove salirono circa altri l00 abusivi. Poi a Persano ne montarono almeno altri 400, pigiandosi nei carri vuoti e riempiendo ogni più piccolo spazio dei vagoni carichi di merci.

A quel punto l'8017 aveva a bordo tra 600 e 650 viaggiatori abusivi. E a Romagnano - tra le montagne e a soli 43 chilometri dalla meta - fu agganciata in testa una seconda locomotiva.

Alle 23.40 il treno partì faticosamente da Romagnano. Dopo soli sei chilometri e mezzo si fermò in una sperduta stazioncina il cui nome doveva divenire tristemente famoso negli annali delle ferrovie: Balvano. Il treno che precedeva sull'unico binario aveva noie alla locomotiva e mentre l'8017 aspettava d'aver via libera il suo personale di macchina provvide ad aumentare la pressione delle caldaie nelle due locomotive in vista della prossima salita.

Cominciò a profilarsi a quel punto l'ombra del disastro. La stazione di Balvano (il paese è lontano circa tre chilometri e mezzo) è situata in un breve tratto fra due gallerie. L'8017 era tanto lungo che la metà dei vagoni era rimasta dentro la galleria in discesa dove stagnava ancora il fumo delle due locomotive. Non tirava neppure un alito di vento che lo disperdesse.

Così, per tutti i 38 minuti della fermata, la metà dei passeggeri respirarono fumo e gas. Ma i più dormivano, ignari del pericolo.

Infine alle 0.50, i due macchinisti allentarono i freni, spinsero le leve dell'acceleratore e l'8017 s'infilò nella galleria in salita. Il capostazione di Balvano batté al telegrafo il segnale di partito al suo collega della stazione successiva, Bella-Muro. L'8017 sarebbe dovuto arrivare a Bella-Muro, lontana meno d'otto chilometri, in circa 20 minuti dopo di che il capostazione avrebbe telegrafato a Balvano il segnale giunto.

Ma il giunto non arrivò dopo 20 minuti né dopo 60... né mai. Il territorio tra Balvano e Bella-Muro è aspro e selvaggio, solcato dalla gola di un tortuoso torrente, il Platano. Tra le due stazioni non ci sono strade; l'intero tratto è un seguito di gallerie e di viadotti. Il Monte delle Armi è forato dal più lungo tunnel della linea, la Galleria delle Armi, rettilinea, lunga poco più di un chilometro e mezzo, e in forte pendenza. Era passata da poco l'una quando il treno entrò nella Galleria delle Armi.

Quel che avvenne di preciso nella galleria nessuno lo sa né lo saprà mai. Tutt'e due i macchinisti morirono al loro posto di guida. Nell'orrore e nella confusione, i superstiti ricordarono ben poco d'importante. I soli fatti accertati sono questi: quando le due locomotive giunsero a metà galleria, le ruote motrici della macchina di testa cominciarono a slittare. Il macchinista sparse sabbia sulle rotaie, ma senza risultato. Le ruote non esercitavano più trazione: il treno si fermò. Poi arretrò di qualche metro (quanto bastò perché gli ultimi tre vagoni uscissero all'aria aperta all'imbocco più basso della galleria) e si fermò di nuovo, questa volta definitivamente.

Tutto il resto è congettura. I soli indizi esistenti lasciano perplessi. La locomotiva di testa fu trovata non frenata, con la leva di comando sulla retromarcia. La seconda locomotiva, invece, fu trovata frenata, con la leva di comando tutta spinta in avanti. A quanto pare, quando il treno si fermò, i due macchinisti la pensavano in modo fatalmente diverso sul da farsi.

Dai fumaioli delle locomotive, con il personale di macchina morto o moribondo, il fumo continuò senza dubbio a venir fuori. Man mano che nell'aria della galleria diminuiva l'ossigeno, il fumo conteneva una quantità sempre maggiore d'ossido di carbonio. Come un rettile mostruoso, il fumo e il gas serpeggiarono a ritroso nella galleria, uccidendo silenziosamente centinaia di persone.

Molto addietro alle locomotive che si sforzavano invano di rimettersi in moto, i pochi viaggiatori ancora svegli si resero conto della fermata.

Come i passeggeri di qualsiasi treno, i più pensarono che i ferrovieri sapessero quel che facevano e attesero pazientemente. Ma un giovanotto, certo Francesco Imperato, quando cominciò a tossire e a soffocare, propose al cugino d'avviarsi a piedi verso l'uscita della galleria.

Il cugino obiettò: «Come facciamo a sapere qual è l'uscita più vicina? Aspettiamo a vedere quel che avviene.»

Francesco decise d'andare da solo. S'alzò... e da quel momento non ricorda più nulla fino a quando riprese i sensi qualche ora dopo alla stazione di Balvano. Probabilmente era arrivato tanto vicino all'aria fresca da potersi salvare. Il cugino morì.

Domenico Miele era in un vagone vicino alla coda del treno, ma ancora dentro alla galleria. Quando il fumo divenne eccessivo, s'avvolse la sciarpa intorno alla bocca e al naso, scese dal vagone e cominciò a camminare verso la coda. Era appena arrivato allo sbocco del tunnel quando si sentì mancare. Temendo di rimanere a terra se il treno fosse ripartito, salì semistordito sul vagone più vicino, un carro merci scoperto, il terzo dalla coda del treno, metà dentro e metà fuori la galleria. Miele non s'accorse più di nulla finché anche lui rinvenne la mattina dopo a Balvano e scoprì che i capelli da neri gli erano diventati grigi.

In quello stesso carro scoperto, il terzo dalla coda, c'era Luigi Cozzolino. Questi dormiva e così il suo figliuolo dodicenne. A un certo momento di quella terribile notte Cozzolino si svegliò e s'avvide che il figlio era morto. Per un bel pezzo rimase inebetito dall'orrore... incapace di pronunziar parola.

I viaggiatori degli ultimi due vagoni erano rimasti completamente fuori della galleria. Sebbene indeboliti e semisvenuti per la fermata di 38 minuti entro la galleria di Balvano, soltanto pochi morirono; gli altri dormirono un sonno profondo, quasi ipnotico.

Sull'undicesimo vagone dalla coda, ben addentro la micidiale galleria, viaggiava Giuseppe De Venuto, un operaio delle ferrovie che faceva da frenatore. Si stupì nel sentire il treno fermarsi, arretrare a scossoni e fermarsi di nuovo. Quando il fumo divenne insopportabile, scese dal treno e si diresse verso l'uscita della galleria dove trovò il frenatore Roberto Masullo steso a terra, stordito e colto da malore. De Venuto aveva capito ormai quale sorte fosse toccata a quasi tutte le centinaia di persone rimaste nella galleria. Masullo, che era un suo superiore, disse a De Venuto di correre subito a Balvano per dar notizia dell'accaduto.

Arrivare fin lì fu un incubo. Era buio pesto e De Venuto non aveva lampadina: l'unica strada era quella sui viadotti e attraverso le gallerie che puzzavano ancora di fumo. Trascinandosi carponi, semisvenuto, nauseato dal fumo e dall'orrore, procedé metro per metro verso Balvano.

Di tutte le cose incredibili di quella notte incredibile, nulla lo é più del tempo che occorse ai capistazione di Balvano e di Bella-Muro per chiedersi che cosa facesse ritardare tanto l'8017. Soltanto alle 2.40 - quasi due ore dopo che il treno era ripartito da Balvano - i capistazione conclusero che ci dovesse essere qualcosa d'anormale. Ma poi si dissero che avrebbero potuto fare ben poco in merito: ci sarebbe voluta una buona ora di cammino per arrivare al treno e un'altra ora per tornare indietro.

Alle 5.10 De Venuto entrò barcollando nella stazione di Balvano, agitò un braccio in direzione dei binari e disse con voce rotta: «Là, là, sono tutti morti, tutti morti!». Poi svenne.

Sgomento, il capostazione di Balvano spedì dispacci a tutte le autorità possibili e immaginabili: alla Croce Rossa, ai carabinieri, al municipio di Balvano, alla sede del Governo Militare Alleato a Potenza. I primi carabinieri e funzionari che arrivarono dal paese di Balvano fecero staccare una locomotiva da un altro merci e si diressero al treno della sciagura. I fanali di testa della loro macchina illuminarono una macabra scena: corpi senza vita stesi sulle rotaie. Li trassero da parte, agganciarono l'8017 e lo rimorchiarono a Balvano. Qui, finalmente, videro quali fossero le proporzioni spaventose del disastro.

In un vagone i corpi delle vittime erano talmente ammassati che non si riusciva a far scorrere lo sportello. Bisognò squarciarlo.

I volti dei morti erano per lo più sereni. Un colonnello dell'esercito americano, giunto sul posto poco dopo, raccontò in seguito: «Non mostravano il minimo segno di sofferenza. Molti erano seduti con il busto eretto o nella posizione che si assume quando si dorme normalmente». Parecchi avevano tracce di sangue rosso vivo intorno alle narici. Questo colore rosso vivo del sangue è un segno sicuro dell'avvelenamento da ossido di carbonio.

A poco a poco, il macabro carico di cadaveri fu tolto dai vagoni e deposto sul marciapiede della stazione. Autocarri militari alleati venuti da Potenza aiutarono a trasportare d'urgenza i superstiti agli ospedali, e più tardi compirono il più penoso servizio di portare i cadaveri al cimitero di Balvano per la sepoltura in tre fosse comuni, due per gli uomini e una per le donne. Delle centinaia di morti che vi furono sepolti, quasi 200 non furono mai identificati.

Quante furono le vittime della sciagura di Balvano? La cifra più probabile è 425, benché alcuni l'abbiano fatta salire a oltre 600. Tuttavia, nonostante il numero dei morti, il tremendo disastro passò quasi inosservato a quell'epoca. A Napoli c'era un solo giornale autorizzato dagli Alleati e i censori permisero di pubblicare soltanto una vaga notizia in cui si diceva che un numero non specificato di persone era morto per asfissia «in una località dell'Italia Meridionale». I giornali degli Stati Uniti menzionarono brevemente il fatto il 23 marzo, quando una commissione militare d'inchiesta americana presentò la sua relazione. Funzionari militari delle ferrovie la definirono «la più insolita e spaventosa catastrofe nella storia delle ferrovie».

Quanti furono i superstiti? Probabilmente da 100 a 200: molti non dichiararono d'essere scampati al disastro per timore delle pene previste per i viaggiatori abusivi.

Dopo la sciagura, le ferrovie alleggerirono di molto i treni che attraversavano la Galleria delle Armi. Fu stabilito un servizio di vigilanza diurno e notturno allo sbocco in discesa della galleria, con un collegamento telefonico per Balvano. Al passaggio d'ogni treno, ogni altro traffico su quel tratto di linea era sospeso finché la guardia comunicava per telefono che, guardando attraverso la galleria, vedeva la luce all'altra estremità: il che significava che il fumo si era disperso a sufficienza per lasciar passare altri treni. Nel 1959 questa precauzione fu abolita perché le ferrovie provvidero a mettere in servizio su quella linea locomotive diesel-elettriche.

Il governo ha indennizzato le famiglie delle vittime. E tutti gli anni, il 2 novembre, giorno dei Morti, ci sono famiglie napoletane che vanno a deporre fiori sulle fosse comuni di Balvano. Una madre mi ha detto: «Non so di preciso dov'è sepolto mio figlio, ma so che è vicino ai miei fiori».


[Articolo di Cenzino Mussa, pubblicato in "Famiglia Cristiana", 4 marzo 1979, pagine 40-46]



Nel marzo del 1944 più di 500 persone che erano salite su un convoglio merci perirono avvelenate dall'ossido di carbonio in una galleria tra Balvano e Bella-Muro in Lucania. Le circostanze in cui avvenne questa sciagura non sono state mai chiarite completamente. Le responsabilità del comando d'occupazione Alleato.

Rievochiamo la più spaventosa sciagura ferroviaria italiana. E la morte scese sul treno.

di Cenzino Mussa / foto di Angelo del Canale
 


Balvano, febbraio

"L'agenzia Reuter comunica da Napoli che 500 italiani sono periti venerdì mattina per asfissia in una galleria ferroviaria dell'Italia meridionale. Altre 49 persone sono degenti all'ospedale. Per mancanza di treni viaggiatori un gran numero di persone era salito su un merci diretto a oriente, stipando i carri aperti che lo componevano. Nell'attraversare una galleria, il treno che già procedeva assai lentamente, rallentava ancora la marcia, sicché il denso fumo che ingombrava la galleria stessa in seguito al passaggio di altri convogli provocava la soffocazione della maggior parte dei disgraziati viaggiatori". (Dal Corriere della Sera, 6 marzo 1944).

Un titolo in colonna, ventidue righe di giornale per cinquecento morti. Poi il silenzio. È la più grave sciagura ferroviaria italiana, ma ancora oggi sfugge ad ogni statistica. Nessuno sa con esattezza il numero delle vittime, nessuno potrebbe giurare sulle responsabilità. Le montagne della Lucania e "ordini superiori" si accordarono per seppellire nel silenzio una storia fatta di fame e di paura. A trentacinque anni di distanza riaffiorano frammenti di testimonianze e indiscrezioni sulle inchieste che allora furono condotte cautamente e poi archiviate. Abbiamo sfogliato documenti "segreti" quasi consunti dal tempo, abbiano ascoltato superstiti e soccorritori di quel treno maledetto.

È un giallo angoscioso che comincia una sera piovosa del '44, l'anno più nero del secolo. Gli alleati sono fermi a Cassino e combattono sul fronte di Nettuno. Non si canta più "Vincere" da quando in montagna "fischia il vento", ma si continua a morire di qua e di là della Linea gotica. Scontri, bombardamenti, fame, crudeltà: sono gli spettri di questi mesi.

Ha l'aria di essere uno spettro anche Mussolini. Abita a Villa Feltrinelli, a Gargnano. Il primo marzo, nel sesto anniversario della morte di D'Annunzio, va a rendere omaggio alla tomba del "compagno d'arme". I giornali del Nord gli dedicano un titolo a cinque colonne. Bastano cinque righe per "un altro bombardamento su Roma". Il giorno dopo, Goebbels lancia un proclama: "La vittoria tedesca rappresenta una certezza". Altre notizie sul Corriere (30 centesimi, due pagine) del 2 marzo: pioggia di bombe su Londra, "infruttuosi attacchi dei bolscevichi sul fronte orientale", catturati due ladri di biciclette, si autorizza ad attingere l'acqua salsa del mare per usi alimentari. Sugli annunci pubblicitari si legge: bar centralissimo, forti incassi, cedesi, un milione; sinistrato acquista armadio occasione; privato vende scarpe seminuove. Le scarpe hanno suole vibram, a "carro armato"; molti devono ricorrere a ritagli di copertone. Al posto della lana, è in commercio un tessuto autarchico che punge come le ortiche; la biancheria è di rayon. Con le tessere annonarie è quasi impossibile vivere. Si deve ricorrere alla "borsa nera". Così i fagioli da 5,24 lire al chilo salgono a 20 lire; un litro d'olio costa cento lire contro le 14 del prezzo ufficiale.

I borsari neri fanno la spola tra la campagna e la città. Qualcuno ha l'autocarro a carbonella. I tendoni nascondono a fatica sacchi di farina e damigiane di vino. Gli italiani del Nord dormono male per le incursioni di "Pippo", un monomotore che sgancia bombe e mitraglia a bassa quota. C'è chi preferisce il cinema ai rifugi antiaerei e va a vedere Luisa Ferida e Gino Cervi in Tristi amori, oppure Alida Valli e Amedeo Nazzari in Apparizione. L'insonnia è provocata anche dalla fame. A Napoli, il Vesuvio fuma. I1 15 febbraio è distrutta l'abbazia di Montecassino. Agli inizi di marzo scatta l'operazione Strangle, che intende spezzare i collegamenti tra il Nord e il Sud dell'Italia. Gli scali ferroviari di Roma, Padova, Verona, Bologna, Vicenza, Milano e Bolzano sono fra gli obiettivi più colpiti. Le ferrovie al Sud sono uno sfacelo. Dal primo ottobre dell'anno precedente, quelle del compartimento di Napoli sono state assunte direttamente dal Governo militare alleato (A.M.G.) che le terrà in gestione sino a luglio del '44. La direzione è affidata al 727º battaglione ferroviario.

Il treno merci n. 8017, su ordine del Comando alleato, era diretto a Potenza per caricare legname già preparato dall'American Corps of Engineers, necessario per la ricostruzione di ponti nella zona di combattimento. È il tramonto, quando si muove dal piazzale Garibaldi. Un convoglio lunghissimo: 47 carri, una ventina dei quali scoperti. Borsari neri, impiegati e studenti lo prendono subito d'assalto. È proibito salire sui merci, ma i tempi sono quelli che sappiamo: si chiude un occhio, anche due. Il mercato nero, visto con lo stomaco pieno, è deprecabile; visto con il terrore della farne, lo è molto meno. E poi la maggior parte dei viaggiatori non sono "borsari neri", ma poveretti che vanno a cercare cibo per le loro famiglie. Alcuni sono persone costrette a viaggiare e che non hanno trovato altri mezzi.

Napoli scompare in una schiuma di luci riflesse nel mare color lavagna. Stazione per stazione l'8017 calamita e risucchia file pazienti di viaggiatori, ai quali nessuno si oppone, neppure la scorta militare, composta da un ufficiale e sette soldati italiani. I fuochisti buttano a palate il carbone sotto la caldaia, e la corsa affannosa riprende. Nocera, Salerno, Battipaglia. Alle 19.12 il treno arriva a Eboli, dove salgono cento abusivi, tra gli altri il professor Vincenzo Iuta, dell'Università di Bari, con una decina di studenti.

E via arrancando nella notte umida e fredda. Sicignano, Buccino, Romagnano al Monte, sotto il suo pugno di case inchiodato alla roccia nella paurosa fenditura che s'apre sull'ultima valle del Salernitano, tredici chilometri prima della "galleria delle armi" che diventerà la "galleria della morte".

A Romagnano il treno ha almeno 650 viaggiatori clandestini. Qui viene agganciata in testa una seconda locomotiva, del tipo 476. di alta montagna, uguale a quella di spinta. Entrambe sono alimentate da carbone iugoslavo, fornito dagli stessi Alleati, di scarso potere calorifico (carbone non maturo) con alta percentuale di scorie. È un tipo di carbone che nella combustione sprigiona gas letali, come l'ossido di carbonio.

Alle 23.40 il treno lascia Romagnano. Alle 0.12 si ferma sotto la galleria, cento metri prima d'una sperduta stazioncina di montagna, Balvano. Un treno che precede il merci sull'unico binario lamenta un guasto alla locomotiva, così l'8017 aspetta d'aver via libera per metà ancora nella galleria dove stagna il fumo. Non tira un alito di vento, comincia a nevicare. Per i trentotto minuti di attesa, i passeggeri respirano fumo e gas. I più dormono, ignari del pericolo, vinti dalla stanchezza. Finalmente, alle 0.50, i due macchinisti allentano i freni, spingono le leve dell'acceleratore e il convoglio, superata la stazione, si infila nella galleria in salita. Il capostazione di Balvano, Vincenzo Maglio, batte al telegrafo il segnale di "partito" al suo collega della stazione successiva, Bella-Muro.

Tra Balvano e Bella-Muro ci sono otto chilometri. I binari s'insinuano fra gole aspre, solcate da un torrente tortuoso, il Platano. L'intero tratto è un susseguirsi di gallerie e viadotti. Il merci supera la prima galleria, poi la seconda, quindi un tratto all'aperto, in una forra, e infine ecco la "galleria delle armi", lunga 1692 metri, con una pendenza che raggiunge il 13 per mille. Il treno percorre i primi duecento metri, poi le ruote non mordono più le rotaie, girano a vuoto. Altro carbone, altra pressione nelle caldaie, ma sui binari viscidi di neve, le ruote vorticano come girandole. L'8017 arretra di qualche metro (quanto basta perché gli ultimi tre vagoni escano all'aria aperta all'imbocco della galleria) e si ferma di nuovo, definitivamente. Tutto il resto è congettura. Molti indizi lasciano perplessi. La locomotiva di testa viene trovata con la leva di comando sulla retromarcia, la seconda con la leva di comando spinta in avanti. Evidentemente quando il treno s'era fermato, i due macchinisti, che non potevano comunicare fra di loro, la pensavano in modo fatalmente diverso sul da farsi. Facile immaginare la scena. Come un rettile mostruoso, il fumo e il gas serpeggiano a ritroso nella galleria e uccidono silenziosamente centinaia di persone. Un terrore senza bombe, senza grida, con cinque, sei cori di rantoli soffocati. La maggior parte dei viaggiatori passa dal sonno alla morte.

Restano alcune testimonianze. In un carro c'è Luigi Cozzolino. Dorme accanto al figlio dodicenne. Ad un tratto si sveglia e s'accorge che il bambino è morto. Rimane inebetito dall'orrore, incapace di aprir bocca, poi si lascia cadere dal treno e si trascina all'aria aperta.

Ciro Pernace aveva 19 anni e faceva il contadino a Torre del Greco. Su quel treno era salito a Salerno. Andava a Bella-Muro in cerca di farina, o di «qualsiasi altra cosa da mettere sotto i denti». Racconta: «Eravamo cinque fratelli, la fame ci faceva sragionare, avevamo mangiato tutto quello che c'era, persino i semi. Su quel treno m'ero addormentato con una mantellina militare avvolta sulla testa. Mi sono svegliato all'ospedale di Potenza. Mi dissero che la mantellina aveva fatto da filtro. Non ricordo altro. Da allora la capa non funziona più».

Sull'undicesimo vagone, ben dentro la galleria, viaggiava Giuseppe De Venuto, un operaio delle ferrovie che faceva da frenatore. Si stupì nel sentire il treno fermarsi, arretrare a scossoni e fermarsi di nuovo. Scese dal treno, si diresse verso l'imbocco del tunnel dove trovò il frenatore Roberto Masullo, stordito dal gas. Capì che doveva avvertire subito il capostazione di Balvano. Semisvenuto, nauseato dal fumo, l'operaio cominciò ad avanzare carponi lungo i binari. Un altro ferroviere lo aveva preceduto: Michele Palo. Nella cabina di coda stava bruciando stoppie e giornali per scaldarsi, quando si sentì soffocare. Si rese conto della tragedia, chiamò qualche nome e corse. Ma le forze non gli bastarono, e soltanto dopo due ore poté scorgere le luci della stazione di Balvano. Stava annaspando un'altra locomotiva in pressione. Avevano già saputo. Prima di svenire disse: «Là sono tutti morti». Erano le tre passate. La locomotiva sotto pressione, staccata per ordine di Giuseppe Salonia, il vicecapostazione, apparteneva ad un altro merci (8025) che era giunto in orario, ma aspettava il permesso di proseguire per Bella-Muro.

Di tutte le cose incredibili di quella notte incredibile nulla lo è di più del tempo che occorse ai capistazione di Balvano e di Bella-Muro per chiedersi che fine avesse fatto il merci n. 8017. Soltanto intorno alle 2.50 Salonia aveva ricevuto una telefonata dal collega che chiedeva spiegazioni. Aveva risposto che sarebbe andato di persona a rendersi conto dell'accaduto. Alle 5.10 il merci 8017, diventato un'immensa bara, era rimorchiato a Balvano. In un vagone i corpi delle vittime erano talmente ammassati che non si riuscì a far scorrere lo sportello. Bisognò squarciarlo. I volti erano sereni. Un colonnello dell'esercito americano raccontò in seguito: «Non mostravano il minimo segno di sofferenza. Molti erano seduto con il busto eretto o nella posizione di chi dorme tranquillo».

Balvano, 2480 abitanti, 32 chilometri da Potenza, 425 metri d'altitudine, è un paesino povero e bello, fra querce e ulivi, incassato fra le montagne. Un paese di emigranti (più di mille persone se ne sono andate dal '44) e di gente generosa. Quel mattino di marzo don Pacelli, il vecchio parroco, suonò le campane e uomini e donne scesero di corsa verso la stazione. Allinearono i cadaveri sulla pensilina, portarono i primi soccorsi a quelli che erano ancora in vita. C'era il medico condotto, Orazio Pacella, che adesso ha ottant'anni ed è malato, ma non può dimenticare quel giorno. Racconta: «Un silenzio irreale, la neve e tutti quei poveretti. Mostrai ai ferrovieri e ai contadini come si fa la respirazione bocca a bocca. Avevo solo cento fiale di adrenalina, non potevo permettermi di sbagliare. Saltavo da una vettura all'altra, cercavo un cenno di vita nei riflessi oculari, poi facevo l'iniezione al cuore. Nessun altro medico per tutta la mattinata. Poi arrivarono le autorità da Potenza con una dottoressa americana. Allontanarono tutti, anche me. Ne avevo salvati 51, mi restavano 49 fiale, avrei potuto salvarne altri. Protestai, Dio mio, fatemi salvare altre vite. Mi cacciarono. E questo è il tormento che mi accompagna da quel giorno. Dissero che qualche vittima era stata spogliata delle poche cose che aveva. Non è vero, non c'erano sciacalli fra di noi. C'era soltanto brava gente che dava una prova di solidarietà umana".

Le vittime furono dapprima trasportate nella ex casa del fascio, poi sepolte in tre fosse comuni nel piccolo cimitero del paese. Quanti i morti? Su alcuni documenti si legge: 425. Su altri, 521. Su un vecchio registro comunale c'è l'elenco dei corpi identificati: 429. La cifra più probabile è quella scolpita su una lapide al cimitero di Balvano: 509, e cioè 408 uomini e 101 donne.

Fu ritenuto un evento bellico

Dopo una tortuosa e lunga vicenda giudiziaria, i parenti delle vittime hanno ottenuto un risarcimento (circa trecentomila lire) con una sentenza che ha inserito la vicenda del treno n. 8017 tra gli "eventi bellici" e ha fatto valere la legge speciale (N. 10, del 9 gennaio 1951) di cui è competente il Tesoro e in base alla quale "viene concessa un'indennità per danni immediati e diretti causati da atti non di combattimento, dolosi o colposi, delle Forze armate alleate".

È dunque agli Alleati che si deve attribuire l'intera responsabilità della tragedia? In una pratica ingiallita dell'Avvocatura di Stato è riportata la deposizione di un funzionario in carriera all'epoca della Amgot, dove si dice: "Tutti gli ordini relativi all'organizzazione, al movimento e ai servizi giungevano direttamente dal MRS (Military Railways Service), ossia dal generale Gray e dal col. Horek". Nella stessa pratica è riportata la deposizione dell'allora sindaco di Balvano. Nella sua qualità di ufficiale di pubblica sicurezza, il sindaco aveva iniziato un'inchiesta per accertare le responsabilità del disastro: ne fu distolto da un perentorio ordine delle autorità alleate. Ci furono altre indagini, l'ultima condotta dal giudice del tribunale di Potenza. Ma nel '46 l'intera pratica veniva archiviata, non "essendo stati riconosciuti gli estremi del reato". Se una donna, Luisa Cozzolino vedova Palombo, non avesse iniziato un'azione per risarcimento danni, citando le Ferrovie dello Stato, forse nessuno avrebbe più sentito parlare dei 500 morti nella "galleria delle armi". Luisa Cozzolino fu la prima. Poi presso il tribunale di Napoli, alla sua si aggiunsero le citazioni di trecento famiglie: per la perdita del marito, del fratello, della sorella, della madre, del padre, del figlio, della figlia. Tutti deceduti sul treno n. 8017.

L'assassino fu il carbone? In una relazione inviata dal ministro dei Trasporti a quello del Tesoro, nel gennaio del 1952, si legge: "Il treno si fermò perché il macchinista fu colpito dalle tossiche esalazioni dei prodotti gassosi della combustione del carbone, particolarmente ricco di ossido di carbone. In proposito vale notare che, da parte del Comando alleato, venne imposto l'uso di tale carbone, assolutamente inadatto per le locomotive allora in esercizio". Anche gli Alleati condussero una inchiesta (affidata ai capitani Osborn e Gilberston dell'armata francese), ma i risultati non furono mai resi noti. Della tragedia si occupò il Times nel '51, e scrisse che "il Governo alleato si sforzò di occultare l'incidente per evitare l'effetto deprimente sul morale degli italiani".

La storia del treno maledetto non finisce qui. Per molti anni vedove e orfani non hanno avuto neppure una tomba sulla quale piangere. Adesso nel cimitero di Balvano c'è una cappella di marmo fatta costruire, per tutte le vittime, da un uomo generoso. Si chiama Salvatore Avventurato, ha 49 anni, gestisce un distributore di benzina a San Giorgio a Cremano, abita a Torre del Greco insieme con la moglie e tre figli. Su quel treno, Avventurato ha perso il padre Agostino, il fratello Vincenzo e uno zio, Antonio Luna. Anche loro erano saliti sul merci 8017 per sfamare le famiglie. Salvatore Avventurato è uno che la fame l'ha sofferta davvero. E dopo la guerra ha fatto mille mestieri, lavorando giorno e notte. A sua madre aveva promesso la tomba per quei poveretti. L'ha costruita un po' per volta, fra mille difficoltà. "Si posavano i fiori in terra, si camminava sui morti, era straziante. Almeno riposino in pace...".

Cenzino Mussa



Il contenuto di questa pagina è stato tratto da www.trenidicarta.it "autore Alessandro Tuzza"
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